Febbre
Letteratura italiana
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Rozzano, il veleno e l’antidoto
È un romanzo scritto con inchiostro di coraggio e ne serve davvero tanto per mettersi a nudo così, senza veli e senza sconti, come ha fatto Jonathan Bazzi. Non solo perché parla di omosessualità e sieropositività, senza paura di prestare il fianco a pregiudizio e stigmatizzazione, ma soprattutto perché affonda nella verità, trascinato da un bisogno quasi viscerale di ribellarsi all’invisibilità, infischiandosene di pudore e perbenismo. Fuori tutto: la malattia, le umiliazioni, lo squallore. E tutto parte inevitabilmente da Rozzano.
Rozzano, Rozzangeles, Bronx del Nord, paese di tossici e delinquenti, di adolescenti truccatissime in tuta aderente e ragazzini ingellati che impennano col motorino. Qui le regole sono chiare: i maschi sono violenti e temerari, menano, parlano di donne, giocano a calcio. E se sei sensibile e balbuziente? Se non sai picchiare e ami i libri? Se a Carnevale sogni di vestirti da Jessica Rabbit? Allora non puoi che sentirti un corpo estraneo, un intruso. Cerchi di nascondere dove vivi con piccoli sotterfugi, per sfuggire al giudizio che ti ingabbia nelle parole degrado e povertà, eppure sai che quelle strade e quei palazzi fanno parte di te e che, per ritrovarti, dovrai farci i conti. Fuori tutto, allora. La famiglia disfunzionale in cui non ti sei mai sentito accolto e protetto. La difficoltà di trovare la tua identità, scrollandoti di dosso i modelli standardizzati che ti venivano imposti. Gli sbandamenti emotivi, i partner occasionali. L’auto-imposizione a primeggiare nello studio, figlia dell’emarginazione, della mancanza di autostima, della fragilità.
La storia di Jonathan si snoda tra i capitoli alternandosi al racconto del suo oggi, alla scoperta della sieropositività. Oggi l’HIV si può tenere sotto controllo, certo, ma ti cambia, è lo spartiacque tra un passato inconsapevole, che immagina di avere davanti tutto il tempo, e un presente in cui la morte non è più solo una remota ipotesi. La malattia diventa però anche un’opportunità, l'occasione di guardarsi davvero dentro, ricostruire la propria identità e, infine, trovare il coraggio di esporsi in prima persona, dando voce a anni di silenzio.
La potenza di questo libro sta proprio nel messaggio che si nasconde dietro la pura narrazione autobiografica. È solo attraverso la conoscenza che si può superare la paura del diverso, e questo lo sa bene un ragazzo che, a Rozzano, ha dovuto imparare fin troppo presto a sopravvivere da escluso. Allora queste pagine rispondono a un bisogno privato di ricomposizione ma anche a una necessità collettiva, di comprensione e accettazione della diversità. Un romanzo quantomai contemporaneo, dunque, per le tematiche affrontate e per lo stile, caratterizzato da frasi brevi che si susseguono a un ritmo sincopato e da un lessico immediato e colloquiale, che attinge spesso all’immaginario pop. Non c’è lievità o morbidezza in questa prosa asciutta, concitata, a tratti feroce. Urgenza e crudezza costituiscono però, a mio gusto, anche i limiti del romanzo, perché fanno intravedere sullo sfondo piaghe ancora aperte e ferite sanguinanti, lasciando un sapore un po’ amaro, di bisogno di riscatto e rabbia non del tutto pacificata.
“Davanti al pregiudizio reagire alzando la posta: meglio tacere? Lo sapranno anche i muri”.
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La febbre che non và più via
Questo romanzo autobiografico parla, naturalmente, dell'autore Jonathan Bazzi che è nato a Milano nel 1985. Cresciuto a Rozzano è laureato in Filosofia. Appassionato di tradizione letteraria femminile e questioni di genere, ha collaborato con varie testate e magazine, tra cui Gay.it, Vice, The Vision, Il Fatto.it. Alla fine del 2016 ha deciso di parlare pubblicamente della sua sieropositività con un articolo (“Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto”) diffuso in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS.
Questo romanzo è stato incluso nella rosa finale del Premio Strega, che da cinquina è diventata per la prima volta nella sua storia, sestina per via di una clausola del regolamento che dice che se nella cinquina di nomi non compare un libro di una casa editrice piccola e/o indipendente, bisogna appunto aggiungerlo. Così è successo con Febbre, arrivato sesto e primo libro non mainstream in quanto edito dalla casa editrice Fandango.
Il libro racconta la storia di Jonathan che dopo aver accusato un malessere febbrile e aver fatto tutti gli esami del caso, scopre di essere sieropositivo. Il libro si dipana tra ricordi più lontani della vita dell'autore e ricordi più vicini, di come ha affrontato il tema della malattia quando ha scoperto di avere l'HIV.
Assistiamo ad una caduta agli inferi, anche se l'autore, ci tiene spesso e volentieri a farci sapere che non ha problemi ed è già sceso a patti con la malattia quando, andando avanti con la lettura, capiamo che il problema si trasforma in depressione e apatia. Che il problema di avere una malattia "potenzialmente" mortale, si trasferisce nell'inconscio e da lì, con una somatizzazione dei sintomi puramente psicologica.
Il racconto è lento all'inizio ma si rianima verso la fine del libro però, seppur trovando la storia degna di essere raccontata e seppur io abbia più volte provato emozioni forti durante la lettura, non ho trovato quel quid particolare che ho trovato per esempio nel libro di Daniele Mencarelli, anch'esso autobiografico e che quindi il mio voto non possa essere più di tre stelle e mezzo.
Ammiro molto Jonathan e il suo coraggio, la sua discesa e la presa di coscienza verso la sua malattia e la forza d'animo dimostrata nella risalita dal momento della brutta scoperta al momento della rivalsa, cioè l'essere in finale al prestigioso Premio Strega, il più importante premio letterario italiano e tra i più importanti internazionalmente.
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Febbre di riscatto
Jonathan Bazzi dimostra grande coraggio nello scrivere questo romanzo candidato al Premio Strega 2020. Una storia autobiografica che parla di malattia, sofferenza, dolore, capacità di reazione e di riscatto. Perché anche se l’HIV è entrato ormai da molti anni nella società umana seguendo un percorso analogo a quello che tutti stiamo vivendo in epoca di “Corona virus”, (inizialmente quindi come malattia sconosciuta e temuta e poi progressivamente grazie ai progressi della medicina e della ricerca fortemente contenuta e contrastata), la strada da fare per una perfetta integrazione delle persone colpite, sieropositive, è ancora tanta. Occorre lottare contro l’emarginazione e l’isolamento e nella scelta di Bazzi di scrivere questo romanzo (“Col virus voglio farci qualcosa…Scriverne, per esempio”) ci sta proprio questa presa di posizione: “Ho l’HIV, sono sieropositivo: cosa significa? Ti faccio paura? Ti faccio schifo? Non è importante, non mi interessa. Sono stato arruolato a mia insaputa nell’esercito degli impuri, degli appestati, dei portatori di un male speciale”.
Nell’arco di poco più di 300 pagine impariamo a conoscere Jonathan. Presente e passato si intersecano e alternano nella narrazione, un capitolo a testa alla volta. Dallo spuntare di quella febbriciattola incomprensibile inizialmente, sottovalutata anche dal medico e ricondotta ad una probabile mononucleosi; 37.3-37.4 gradi, che cominciano a diventare una fastidiosa compagnia quotidiana, che tolgono energia per lavorare ed avere una normale vita sociale, fino alla scoperta della sieropositività con tutte le conseguenze del caso. Quindi proliferazione di visite mediche ed esami, impatto negativo in termini di depressione, auto isolamento, convinzione di essere portatori di altre malattie ben più gravi rispetto all’HIV (“la mente è più pericolosa di tutto quello che la circonda., i problemi veri sono quelli che lei-artigiana, falegname, burattinaia- si costruisce da sola”).
Accanto al presente l’autore racconta sé stesso, la propria infanzia e adolescenza vissuta a Rozzano,nella periferia milanese, una sorta di Scampia fatta di casermoni popolari nella quale circolano droga e delinquenza e dove essere omosessuali ed anche balbuzienti è sinonimo di diversità e quindi di accanimento e scherno.
“Lo spirito di Rozzano sta tutto inscatolato nelle case delle famiglie che si accontentano e di quelle che invece non lo fanno, e vanno contro la legge”.
La famiglia, è l’altro grande snodo della vita di Bazzi: padre e madre che si separano presto, entrambi i genitori cercano di rifarsi una vita e di tutto questo ne risente il piccolo Jonathan sballottato tra nonni materni e paterni, alla ricerca di affetto e di una propria identità che fatica a trovare.
Un libro interessante e pieno di riflessioni coraggiose ma che allo stesso tempo, forse, presenta qualche limite a mio avviso. L’alternanza presente/passato assolutamente regolare, dopo un po’ perde di smalto ed anzi il passato, con la sua portata di dolore e contenuto, tende a fagocitare il presente. Magari una narrazione più “asimmetrica” in cui passato e presente si fossero mischiati con meno prevedibilità, e non necessariamente con la sequenzialità infanzia-adolescenza-età adulta - un po’ come avviene nel romanzo “Patria” di Aramburu per chi lo avesse letto- sarebbe risultata più coinvolgente per il lettore. Infine anche la tecnica di scrittura risulta molto diretta, senza particolari arricchimenti stilistici e per un romanzo candidato al Premio Strega l’ho trovato un po’ riduttivo.
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Il Bronx del Nord
Identificazione.
Per me è stata intensa, immediata, quasi sofferta. Il motivo è evidente: la trama contiene numerose, forti analogie con la mia storia personale. No, non soffro della stessa malattia. Eppure, quante analogie, anche nei sintomi.
Febbre.
La conosco bene. Prolungata, inesplicabile, lieve ma tenace. Non proprio febbre, ma febbricola, brace che consuma. Un nemico che non dà mai tregua, che nasconde il suo volto.
La diagnosi.
Finalmente conosciamo il nome del nemico. Finalmente, abbiamo strappato la maschera. Finalmente possiamo scegliere le armi più adatte per combatterlo. Finalmente! Come spiegare il sollievo che si prova a chi non ha mai vissuto un’esperienza simile? Ce ne vuole, di talento.
Il presente narrativo scorre senza inciampi tra passato e presente, attraverso una scrittura che brilla di aurea semplicità. Le parole scorrono come acqua di fonte, mentre le stanze quotidiane del passato e del presente si alternano si rincorrono, danzano, si palleggiano gli elementi di un puzzle a quattro dimensioni: il tempo trascina il dramma di tre generazioni su uno spazio dai limiti ingombranti.
Rozzano, "il Bronx del Nord”.
Un piccolo centro che fa paura, a dismisura d’uomo. Qui l’aria non è soltanto popolare. Qui si sente puzza di criminalità, di decomposizione, di chiuso. Qui affondano, in bella vista, le radici del male.
Passato e presente tracciano punti interrogativi pesanti, rivolti al futuro. La malattia traccia un confine preciso: prima e dopo sono lì, ben delineati. E poi? Quali segni inciderà all’interno, nella carne, e in superficie, nell’immagine riflessa dallo specchio e dagli occhi del mondo? Quali cambiamenti porterà nelle relazioni affettive, nei rapporti famigliari, nelle abitudini, nel lavoro? Quante scelte cadranno nell’impossibilità? Quante nuove porte, non necessariamente sgradite, si apriranno?
Non tutti scrivono la propria autobiografia. Tutti noi, però, ci raccontiamo, usiamo memorie, parole e immagini per costruire il nostro Sé, per diventare i protagonisti della storia che viviamo. L’opera di Jonathan Bazzi racconta una storia molto simile e molto diversa dalla nostra, ottima da leggere o da ascoltare. La consiglio a tutti. #febbre #recensione #JonathanBazzi #raccontoautobiografico #FandangoLibri
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37.3 - 37.4
«Quando si ha paura davvero, la paura anestetizza anche se stessa. Non si sente più niente.» p. 83
È l’11 gennaio 2016, trentun anni non ancora compiuti, Jonathan non si sente molto bene, forse gli sta venendo la febbre. La temperatura oscilla tra 37.4, 37.3. Non è altissima, tuttavia, persiste. Una settimana, poi due, poi tre. Non accenna a sfogare, non accenna a diminuire. La colonnina del mercurio sembra essersi incantata. Che fare? Prima di tutto trovare un medico di famiglia, il ragazzo non lo ha perché si è trasferito a Milano da Rozzano ma con questa sensazione di fiacca, questa temperatura costante, questo perpetrare di stanchezza che gli impedisce anche di lavorare, non può rimandare ancora. I primi esami, mononucleosi? Ancora esami, tra cui il test per l’HIV mai fatto. Il tempo è volato, siamo già a febbraio quando i risultati arrivano: è positivo.
«Come potrò vivere sapendo di avercelo in corpo? Come posso accettare di passare il resto della mia vita con questo parassita invisibile e ineliminabile?»
Altri esami e un altro mese di attesa prima di poter iniziare la cura. Anche il compagno Marius deve sottoporsi al test; è impossibile capire come davvero il virus è stato contratto. L’accettazione, la convivenza con questo nemico pronto ad esplodere da un momento all’altro, la necessità di ripartire. Il tutto tra un alternarsi tra “ieri” e “oggi”, tra un Jonathan bambino con le sue fragilità e le sue ricerche e un Jonathan adulto che vede crollare le sue certezze, tra un Jonathan che cade e si rialza.
“Febbre” è un romanzo autobiografico che racchiude al suo interno anche una testimonianza di quel che significa essere sieropositivi, di cosa significa ricominciare a vivere una vita che è completamente nuova e diversa da quella che era stata indossata fino a pochi mesi prima. “Febbre” ci racconta di come può cambiare l’esistenza così, da un giorno all’altro.
Un racconto che coinvolge, che smuove, che suscita perplessità, che invita ad approfondire il tema.
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Autobiografia catartica
Jonathan torna dall'università, è un giorno come tanti, è l'11 gennaio 2016. Non si sente bene, gli sta venendo la febbre. Non si tratta di una banale influenza, di una febbre che si dissolverà entro pochi giorni: la febbre di Jonathan non va più via.
Comincia così un percorso che attraversa tutto il libro, scisso su due piani temporali distinti: da una parte c'è il presente, la febbre che non passa, la spossatezza, l'incapacità di compiere le azioni della vita quotidiana che fino al giorno prima erano solo un'ordinaria routine, dall'altra c'è il passato, Jonathan bambino cresciuto a Rozzano, quartiere periferico di Milano, la sua infanzia segnata dal divorzio dei genitori, la presa di coscienza di avere un'identità sessuale diversa da quella della maggior parte delle altre persone.
“Febbre” è un'autobiografia ed insieme la testimonianza di un uomo sieropositivo. Jonathan ha l'HIV. Lo seguiamo nel racconto tra passato e presente. Un passato che ci narra di un'esistenza difficile (ma ci sono esistenze facili?), di un bambino che vive a Rozzano, un paese caratterizzato da grandi palazzoni di case popolari e dal disagio sociale dei suoi abitanti. Jonathan cresce tra il dolore per la fine prematura della sua famiglia e la consapevolezza di essere omosessuale. A lui infatti, maschio, piacciono i bambini. Fin dall'asilo si rende conto di questa realtà.
Intanto,tornando al presente, seguiamo Jonathan nei tormenti dati dall'incertezza del non conoscere da quale malattia si è stati colpiti, fino ad arrivare alla diagnosi della sieropositività. Lo vediamo naufragare in una disperazione negata, non accettata, che si trasforma in depressione, passività, incapacità di reagire, fino alla riappropriazione di una forza e di un coraggio che lo fanno emergere dal dolore.
Jonathan riesce a riprendere a vivere pienamente, ma si tratta di una vita nuova, diversa. Lui è una persona diversa, una persona che ha l'HIV ma che non vuole rimanere confinata nella vergogna e nella paura del giudizio sociale. Per questo Jonathan racconta, racconta tutto, senza veli, senza finzioni letterarie, senza artifici retorici: lui si mostra e ci mostra com'è stato, com'è, senza vergogna, senza pudore, senza paura. Un'autobiografia densa, cruda, catartica. Da leggere.
«Ho conosciuto lo sradicamento silenzioso, il vuoto della non appartenenza. Mi sono abituato all'idea che mi dovrei vergognare di quello che sono e ho capito che il patto velenoso si può spezzare raccontando tutto. Esporre il copione, il regolamento. Appropriarsi a proprio modo dello spazio dell'esclusione, introdurre una falla nel sistema e stare a vedere.»