Eravamo ebrei Eravamo ebrei

Eravamo ebrei

Letteratura italiana

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Alberto Mieli dopo settant'anni racconta per la prima volta alla nipote Ester la sua infernale esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. "Non c'è ora del giorno o della notte in cui la mia mente non vada a ripensare alla vita nei campi, a quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere." Ricorda la vita in una Roma nazifascista, le leggi razziali e il giorno in cui è stato portato via dalle SS, dopo il tragico 16 ottobre 1943. Rivive, ancora con le lacrime agli occhi, l'arrivo nei campi, l'odore acre dei corpi che bruciavano nei forni crematori in funzione tutti i giorni. Parla del lavoro giornaliero e stremante, dei corpi senza vita ammassati gli uni sugli altri, della stanchezza e della fame continua e cieca che pativa, fame che ha portato alla pazzia e poi alla morte migliaia di deportati. Fame di cibo, di vita, di libertà. "Ad Auschwitz ho visto l'apice della cattiveria umana." Con queste parole Alberto Mieli racconta, con dolore, aneddoti e luoghi, parla delle torture subite. Ridisegna volti di gente incontrata e poi persa, spiega come sia riuscito a convivere tutta una vita con questa doppia cicatrice: una alla gamba, causata da una granata lanciata dagli Alleati esplosagli troppo vicino e che a volte ancora sanguina, e una più grande nel cuore.



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Eravamo ebrei 2019-01-24 23:04:59 luvina
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luvina Opinione inserita da luvina    25 Gennaio, 2019
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Il male

L’autore di questo libro, Alberto Mieli, è stato uno degli ultimi sopravvissuti ai lager nazisti ed è scomparso esattamente otto mesi fa il 29 maggio 2018 a 92 anni. Io l’ho conosciuto negli ultimi cinque anni della sua lunga vita ed era veramente una persona speciale. Sono stata invitata alla presentazione di questo libro che è stato scritto “con” sua nipote Ester, giornalista, che in realtà ha solo aiutato il nonno a mettere nero su bianco i suoi ricordi dopo anni nei quali per pudore li aveva taciuti. Questo libro si discosta in un certo qual modo dagli innumerevoli altri scritti sul tema della shoah innanzi tutto perché non è un romanzo ma nemmeno un diario; è un lungo racconto che ci conduce per mano, piano piano, dentro l’abisso. Veniamo trasportati per mezzo di una scrittura pulita ma mai banale anzi piena di umanità e pudore dentro il MALE.
Mi sono trovata in difficoltà anche solo ad immaginare di vivere o di vedere quello che ha vissuto e visto Alberto Mieli per 16 lunghi mesi prima ad Auschwitz poi a Mauthausen; la cosa che veramente prende al cuore è la totale assenza di odio che c’è in quest’uomo che ha speso gli ultimi anni della sua vita ad incontrare ragazzi, nei quali ripone la speranza, delle scuole di tutta Italia e del mondo per portare la sua tremenda esperienza e farne monito (-l’antisemitismo si maschera di continuo, cambia colore, pelle, slogan e modo. Solo l’educazione e la cultura possono tenergli testa-).
Il racconto prende il via dall’infanzia di Alberto che fu spensierata fino a quando nel 1938 furono emanate le prime leggi razziali (che lui preferisce chiamare “razziste”); da lì in poi è una discesa agli inferi, l’allontanamento dalla scuola, il licenziamento del padre e l’umiliazione di non poter mantenere la famiglia, la prima deportazione dal suo quartiere Trastevere alla Garbatella “- dire Garbatella a quei tempi significava dire Cina, non si sapeva nemmeno bene dove fosse questo quartiere, tanto per noi era lontano”-, la guerra, la fame, fino al giorno in cui venne preso dai tedeschi e deportato ad Auschwitz. Ma Alberto Mieli fu uno dei deportati che fecero parte della famigerata marcia nella neve che portò i pochi sopravvissuti a quel delirio ad essere rinchiusi dentro un altro treno piombato fino a Mauthausen.
Dopo la liberazione scopriamo come poco a poco Mieli si riappropria di una vita quasi normale, interrotta sempre da incubi ricorrenti e ricordi strazianti e segnata da cicatrici fisiche (una scheggia nella gamba) ma soprattutto morali; mi ha molto colpito la solitudine intima dei superstiti dell’olocausto: non parlavano con nessuno di quello che avevano vissuto tranne che con loro compagni di sventura, per pudore ma anche per non dare un dolore immenso a madri, mogli e familiari.
Alberto Meli con la sua testimonianza ci lascia un altro mattone per il muro che l’intera umanità ha eretto affinchè non si perda né si disperda la memoria di ciò che è accaduto per mano dell’uomo e per fare in modo che un orrore simile non accada mai più.
“Auguro a tutto il mondo, buoni o cattivi, di non sognare mai ciò che accadde in quei lager e ciò che i miei occhi furono costretti a vedere”

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