Città sommersa
Letteratura italiana
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un uomo sommerso
Usciti dal giardino ovattato dell'adolescenza e varcate le soglie dell'età adulta, viene naturale spostare il focus da se stessi e sentire la necessità di approfondire la conoscenza di chi ci ha generato, tentando di accedere all'io più profondo per captarne similitudini o divergenze.
Questo istinto diviene ancora più radicato in coloro che sono cresciuti in prevalenza sotto l'ala
di un solo genitore, amati e confortati, ma mancanti di un pezzo portante.
Marta Barone è una giovane donna che dopo la scomparsa del padre matura la consapevolezza di non aver conosciuto veramente l'uomo che le ha dato la vita.
Le lacune, trasformatesi in vuoti, si sono prodotte prevalentemente dalla volontà dell'uomo di creare una sorta di barriera tra la figlia e l'intenso percorso della sua vita.
Una vita complicata, un uomo pregno di ideali e colmo di interessi, un uomo al contempo misterioso e sfuggente, impegnato in un'esistenza ad ostacoli che lo vede partecipe ai moti sessantottini prima e poi vicino ad ambienti temibili di quello che fu il fosco periodo degli anni di piombo.
Il testo nasce dai tanti tasselli raccolti dall'autrice per ricostruire il vero volto del padre, attraverso un laborioso lavoro di ricerca che si avvale di documenti dell'epoca e di racconti di persone che furono a lui vicine.
Una narrazione minuziosa, a tratti certosina per dare forma ad uomo, al suo pensiero e alle sue azioni. Il grande assente da queste pagine è “il giudizio”, lasciato fuori di proposito.
Tra queste pagine si cerca un uomo, non si cerca di processarne le azioni.
Una penna giovane che denota ottime capacità espressive e riesce a dare forma ad un genere narrativo dove occorre bilanciare con sapienza elementi oggettivi e soggettivi, dati di cronaca e riflessioni personali.
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Padre e Figlia
«Questa storia ha due inizi: almeno due, perché, come tutto quello che ha a che fare con la vita, è sempre difficile stabilire cosa cominci e quando, quale vertigine di casi fortuiti esista dietro ciò che sembra avvenire all’improvviso, o quale viso si è girato verso un altro in un momento del passato dando il via alla catena accidentale di eventi e di creature che ci ha portato a esistere.»
Un romanzo d’esordio molto particolare è “Città sommersa” di Marta Barone in dozzina al Premio Strega 2020. Simbolicamente, il titolo, può essere suddiviso in tre sezioni: una prima che è costituita da ricordi che si susseguono e come nelle più famose fiabe ricostruiscono mollica dopo mollica quella che è stata la memoria più remota della protagonista adesso in quel di una Milano che conosciamo per le sue vie, una parte seconda più giornalistica, ambientata per le strade di Torino e atta a ricostruire quelli che sono stati gli anni di piombo in Italia e che hanno visto partecipe il padre della voce narrante e una terza sezione che conduce a quello che è l’epilogo del testo e che tende a ricostruire il legame, che tende a far riavvicinare padre e figlia.
In perfetta conformità con quello che è il periodo storico che stiamo vivendo, l’autrice, si fa portavoce e ci fa destinatari di una storia narrata con la formula dell’autofiction, una autofiction che nel caso di specie ripercorre gli anni di vita del padre, Leonardo Barone, che nel corso della narrazione verrà semplicemente appellato con le iniziali L.B. e che battuta dopo battuta scopriamo essere stato operaio in fabbrica, poi medico e ancora esponente del partito.
«Non avevo bisogno di ricordare. Il passato era una distesa uniforme.»
Ad una esposizione dei fatti in apparenza molto lineare e anche ben scritta perché la Barone ha una penna molto bella e articolata, una penna precisa e minuziosa che non manca di sorprendere il lettore sin dall’incipit del libro, una penna che talvolta è anche troppo volutamente artificiosa e costruita, segue la persistente domanda del quale sia il punto di arrivo dell’esposto. Per tutto lo scorrere dell’esordio, infatti, il lettore se da un lato è incuriosito, dall’altro è frenato perché sinceramente non riesce a comprendere dove l’autrice voglia arrivare e, purtroppo, l’epilogo non aiuta a dare una risposta a questa domanda. A ciò, segue ancora, una mancata armonizzazione tra le tre sezioni. Perché se è vero che la Barone scrive bene, chi legge, non è però esente da difficoltà. Nella prima parte si impone di non lasciar perdere, di non abbandonarne le pagine, perché questo continuo susseguirsi di memorie per le vie della città lo sfianca, nella seconda ritrova un poco di interesse con quello che dovrebbe essere l’approfondimento storico-sociale ma mantiene la titubanza, nella terza non trova quel quid necessario a far scattare l’empatia. Si evince il rimpianto di non aver conosciuto con maggiore profondità alcuni aspetti della vita del padre, si evince il senso di perdita, ma manca qualcosa, un qualcosa che si poteva ottenere meglio equilibrando i fatti riportati, un qualcosa che è l’emozione oltre la forma.
Tra queste pagine ho rivisto molto “La straniera” di Claudia Durastanti e ho rivissuto anche emozioni simili a quelle che provai con la lettura al tempo. L’assonanza non è data tanto dai fatti narrati che hanno in comune il parlare, seppur in modo diverso, di famiglia, quanto dall’impostazione, dall’incompletezza, dalla volontà di destinare un memoir che sembra più fine a se stesso che a terzi tanto da rendere entrambi i volumi molto pesanti e in difetto del sentimento.
Una lettura che mi ha lasciato molte molte perplessità e che non mi sento di consigliare a tutti.
«[…] Per un attimo il suo viso mi sembrò distante e significativo, come se lo guardassi già in retrospettiva, come se per quell’attimo il presente, il passato e un presunto futuro si fossero sovrapposti, come se fosse già un ricordo, di quelli a cui non attribuiamo importanza nell’istante in cui si consumano a cui ripensiamo molto più tardi come una notizia di qualcosa che non riusciamo mai a capire davvero; per un attimo mia madre mi apparve nel tempo.»
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L. B.
“Città sommersa” è il romanzo d’esordio di Marta Barone entrato nella dozzina del Premio Strega 2020. Con un genere molto in voga ultimamente, quello dell’autofiction, l’autrice ricostruisce la vita del padre, Leonardo Barone, con una ricerca fra vecchi documenti e foto ma soprattutto attraverso i ricordi e i racconti delle persone che a lui furono vicine. Il romanzo è diviso in tre parti, a mio avviso non ben armonizzate fra loro; nella prima parte viene svelato il titolo del libro che si rifà al mito della città sommersa di Kitez, e scopriamo la Barone giovane ragazza alle prese con un trasloco a Milano ed è tutta una descrizione delle sue passeggiate per la città.
Ad un certo punto, per volontà dell’autrice, la figura del padre muta in personaggio e verrà chiamato L.B. per quasi tutto il libro. Questo è uno dei particolari che rendono priva di empatia questa storia, non si sente L.B. come un personaggio, non si entra in sintonia con lui pur essendo una bella figura, sempre coerente nella sua umanità. Nel dicembre del 2013, a più di due anni dalla morte del padre, l’autrice scopre in alcune vecchie carte la memoria difensiva per un processo a carico di Leonardo Barone per partecipazione a banda armata; scopre un uomo e delle persone che non conosceva e decide di ricostruire quella parte di vita del padre che non le è mai appartenuta, quella prima di lei nella quale la storia personale di L.B. si incrocia con la Storia italiana degli anni ‘70, quella degli anni di piombo. Da qui scoprirà molte cose su L.B., l’appartenenza al Pcim-l meglio conosciuto come “Servire il popolo”, il suo essere stato un medico prima ed un operaio della Fabbrica poi, l’essere venuto a contatto con elementi di Prima Linea e aver cercato di salvare giovani dalle sirene della lotta armata. La seconda parte del libro è quella più giornalistica dove viene raccontata la violenza di quegli anni a Torino, l’egemonia di Prima Linea in quella parte d’Italia attraverso gli episodi di terrorismo che ne hanno funestato le strade. In questa parte del libro Torino è protagonista nel bene e nel male con la sua bellezza, i suoi viali ma anche con l’estrema disagiata periferia e con alcuni luoghi tristemente famosi come il bar dell’Angelo.
La terza parte è quella in cui Marta Barone si avvicina alla figura paterna partendo dalle origini pugliesi di L.B. e quindi ci racconta del viaggio intrapreso per ritornare a Monte Sant’Angelo per scoprire la sua storia. Sono molti i punti di “Città sommersa” che mi hanno lasciata perplessa a cominciare dal senso che l’autrice vuole trasmettere con questo libro, non si capisce se vuole essere un memoir, un diario, un resoconto degli anni di piombo, l’impressione che ho avuto è che sia un insieme disomogeneo di ricordi, perlopiù di conoscenti o estranei, e di racconti in stile giornalistico degli anni di piombo. Non aiuta la comprensione un filo temporale non lineare che saltella tra passato e presente e nemmeno lo spostamento continuo dell’azione tra Milano, Torino ma poi anche Roma, Bologna, Monte Sant’Angelo e altri luoghi, nemmeno il finale che risulta affrettato ed incomprensibile quasi che l’autrice non sapesse come chiudere il libro. Un’altra perplessità l’ho avuta per la scelta che a me è risultata oscura, di cambiare i nomi dei protagonisti di quegli anni di piombo, degli appartenenti a Prima Linea, dal momento che ormai la giustizia ha fatto il suo corso e i fatti sono acclarati, sembra quasi che pur raccontando la cronaca non ci si voglia sporcare fino in fondo ed in questo caso si tradirebbe la vita di L.B. che quegli anni e quegli eventi li ha vissuti sulla propria pelle. Ho percepito in tutto il romanzo come un senso di colpa non apertamente dichiarato che probabilmente scaturisce dal cattivo rapporto che la Barone aveva con il padre e forse dal non aver mai voluto approfondire la sua conoscenza, dal non aver colto i segnali che a volte le mandava (ad esempio l’episodio del cinema di Via Po). C’è sicuramente del rimpianto nel non aver conosciuto i fatti della vita di L.B. dall’unica persona che li conosceva appieno: L.B. stesso, suo padre; infatti varie volte l’autrice mette in guardia il lettore (e se stessa) dal fatto che i ricordi riportati da altri non sono mai oggettivi ma plasmati e modificati dal tempo e dall’indulgenza. In conclusione devo ammettere che la lettura di “Città sommersa” per me è stata veramente pesante, un po’ per la scrittura inutilmente artificiosa, un po’ per la mancanza di anima e di sentimento di tutto il racconto.
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ALLA SCOPERTA DEL PADRE, ALLA SCOPERTA DI SE
Nel libro è la scrittrice stessa la voce narrante che ti coinvolge in prima persona nella ricerca volta a scoprire chi fosse realmente suo padre e lo fa rivolgendosi a te direttamente, chiamandoti “lettore”, il che ovviamente ha l’effetto di annullare le distanze.
La Barone, si ritrova ad affrontare il lutto per la morte prematura del padre ed inizia così a scavarne nel passato.
E insieme a lei, ci ritroviamo così a scoprire un’Italia, quella degli anni 70-80, delle brigate rosse e del terrorismo, dello sfruttamento dei lavoratori del sud nel “La Fabbrica” e dei partiti politici basati sulla lotta di classe.
Ah, siamo a Torino, quindi è facilmente intuibile di che fabbrica stiamo parlando.
Questo è il primo tema del libro.
Il secondo ci viene introdotto nella prime pagine direttamente dall’autrice che scrive a proposito del padre: “Di Lui non sapevo un granché. Oltre al fatto che quando siamo giovani ci limitiamo a constatare che i nostri genitori esistono, e non ci interessiamo molto di loro, io e mio padre avevamo vissuto in case diverse per oltre vent’anni, e in alcuni periodi di lunghezza variabile non ci eravamo parlati o ci eravamo frequentati pochissimo. Avevamo, come si suol dire, rapporti difficili”
In psicologia si parla di emancipazione dai genitori, quando verso l’adolescenza, tutto ad un tratto, si scopre che il genitore è un essere umano vero e proprio, lo si spoglia dal ruolo e ne si scoprono i limiti.
Nel caso dell’autrice, per colpa di un rapporto difficile ed intermittente, questa cosa accade postuma e già da adulta.
Inevitabilmente il viaggio nella vita del padre è di riflesso un viaggio nella sua di vita, cercando di scoprire oltre chi fosse lui anche chi è lei stessa.
Il libro si legge tutto in un fiato, se devo trovare un aspetto che ogni tanto mi ha fatto perdere tra le pagine è che gli eventi sono riportati cosi come scoperti dalla scrittrice e non seguono un ordine cronologico.
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Chi era mio padre?
Inizia con questo romanzo autobiografico la mia collaborazione con una delle Case Editrici più importanti del panorama letterario italiano: Bompiani.
Devo confessare che questa è una collaborazione a cui tengo particolarmente, perché Bompiani è sempre stata una delle mie Case Editrici preferite, ma, bando alle ciance e parliamo di questo romanzo.
“Città sommersa” di Marta Barone, mi ha colpito subito, leggendo la trama perché parlava degli Anni di Piombo, anni che io non ho vissuto sulla mia pelle, pur essendo nata proprio in quei momenti. È una parte della storia del nostro Paese che viene vista ancora oggi, nel 2020, come una cosa da tenere nascosta ai più, da conoscere ma solo come deterrente per eventuali rigurgiti. Per questo motivo, mi fa piacere che esistano dei libri come questo, che da un punto fermo come la ricerca della storia di una persona particolare, arrivino a raccontare in modo semplice e diretto, questa storia di terrorismo dall’esterno, quindi senza dietrologie politiche.
Quel crinale incerto, evanescente, faceva paura, credo. E le cose che fanno paura si ignorano.
Marta cerca di scoprire più cose possibili su suo padre. Leonardo Barone è morto da poco e Marta, giornalista e scrittrice originaria di Torino, si rende conto che negli anni in cui suo padre era in vita non ha praticamente conosciuto il genitore. Tutto nasce dal ritrovamento di un documento dell’avvocato di L. B. (come anche Marta chiama suo padre in questo libro), una memoria difensiva che venne presentata alla Cassazione per tentare di far assolvere L. B. dall’accusa di “banda armata”. Infatti, L. B. era stato un importante personaggio nell’ambito sovversivo torinese degli anni Settanta e venne arrestato per aver aiutato un terrorista ferito da un proiettile durante una rapina (che venivano fatte per trovare fondi per fare terrorismo e proselitismo). Questo il fatto scatenante che fa capire a Marta di non aver mai davvero conosciuto il padre, perché separato dalla madre quando lei era ancora una bambina, era giocoforza “sparito” dalla sua vita, pur mantenendo un rapporto padre-figlia soddisfacente ma, alla luce dei fatti, superficiale.
Marta, in un lungo flusso di coscienza, alla ricerca del passato dimenticato di suo padre, si mette alla ricerca delle persone che con lui avevano avuto a che fare durante gli anni delle lotte di classe che, dopo la metà degli anni Settanta, insaguinarono l’Italia intera. Parla con personaggi della Torino sovversiva e cercando cosa fosse stato suo padre ci racconta la storia di quegli anni. Il racconto è scevro da connotazioni politiche, perché a Marta non interessa quel frangente quindi, porta noi lettori a darci delle risposte senza averne direttamente il peso sulle spalle. Un libro che, scandagliando la storia di una persona, apre scenari nuovi e ai più sconosciuti di un mondo, quello sovversivo, che pochi conoscono.
“In un certo senso tutta la nostra esistenza è una traduzione tra quello che cerchiamo di dire e quello che poi riusciamo a dire davvero.”
Trovo che questo romanzo sia un libro assolutamente da leggere per capire, dall’interno e dalla viva voce di chi ha vissuto quei tragici momenti per questo dò quattro stelle, anche se in certi momenti, le divagazioni troppo celebrali della nostra autrice sono risultate un po’ ostiche anche a me, che mastico libri di “flusso di coscienza” come se fossero pop-corn (dico solo Karl Ove Knäusgard). Cosa che comunque non inficia la cruda bellezza di questo romanzo.