Casa Fenoglio
Letteratura italiana
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Io non ho bisogno di leggerti. Io ti conosco.
Casa Fenoglio – Marisa Fenoglio, 1995. Sellerio.
Partiamo con una doverosa premessa: ci sono due scrittori di cui mi considero una "groupie".
E sono Steinbeck e Fenoglio.
Doveroso omaggio e dedica alla mia amica Marina, che da brava collega-groupie di Beppe Fenoglio, mi ha gentilmente condotta in questo “Lessico Famigliare” in Langa.
Scritto da Marisa, la “piccola” di casa Fenoglio (minore di dieci anni, rispetto a Beppe), il romanzo è un affresco di interni delicato ed intenso allo stesso tempo.
Confesso di aver cercato, da subito, avidamente, il mio scrittore fra le righe, con un misto di curiosità imbarazzante e al contempo imbarazzata; ho un rapporto ambiguo con i miei miti, specie quelli letterari: razionalmente non vorrei sapere niente di loro, perché so che l’autore si rivela sempre – e a volte troppo – nella sua opera e insieme, data la drammaticamente breve vicenda terrena di Fenoglio, vorrei particolari e dettagli.
In realtà Lui è piuttosto sfuggente nel racconto, e si palesa quasi esclusivamente attraverso tre assenze tipiche: il fumo delle sigarette, la tosse, il battere dei tasti della macchina da scrivere.
Ma non c’è delusione di sorta, perché emergono magistralmente dettagli più importanti per una fan/groupie filologa.
Emergono papà Milcare e mamma Margherita, lui dall’imperturbabile benessere interiore, lei indomita e coriacea, costantemente protesa verso qualcosa. Il benessere della famiglia, gli studi dei figli, il buon andamento della macelleria, la fine della guerra, la lotta contro le sigarette di un figlio e le “manie” cittadine dell’altro.
Questa mamma che non legge gli scritti di Beppe perché “Io so tutto quello che tu scrivi. Non ho bisogno di leggerti, io ti conosco!” rappresenta un’affettività ruvida e scabra che non so definire altro che “ligure/piemontese” e che l’autrice rappresenta con una precisione a tratti sorprendente (o può anche essere che essendo anch’io “ligure/piemontese” abbia i recettori per percepirla e metabolizzarla, non so).
Oltre ai Fenoglio emerge il piccolo microcosmo di Alba, anzi, della piazza del duomo di Alba, dove sorge la macelleria di famiglia. Non c’è l’epica della Malora, che porta Beppe nel mio personale “empireo” con Steinbeck, ma c’è un po’ dei “Ventitrè giorni della città di Alba” nella piccola Marisa che con la zia sale fino a Mango, la vigilia di Natale, sotto la neve, per annunciare ai partigiani un rastrellamento, intercettato grazie alle rete di collegamenti tessuta da mamma Margherita, in macelleria. Ci sono piccoli ritratti delicati: vicine solitarie che amano gatti e fiori, mogli abbandonate da mariti, uomini tornati ad Alba dopo la guerra, ma che hanno lasciato il cuore in Somalia. Figure che probabilmente non mancano in nessun paese, ma che quasi mai trovano una penna pronta a metterle su carta. Per Alba le penne sono state ben due: quella di Marisa, oltre a quella di Beppe.
Evidentemente certe città sono più fortunate di altre.
Concludendo, mi sento di ringraziare umilmente Marisa Fenoglio per aver deciso di condividere i suoi ricordi, da ligure/piemontese immagino che non sia semplice.
A fine lettura posso dire che l’insieme figura/sfondo è più nitido e io sono molto commossa.
«Se ci fu un’ora, un giorno, in cui Beppe decise di prendere la penna in mano e mettere per iscritto i suoi pensieri, quel giorno nessuno di noi lo registrò, nessuno di noi si accorse di quello che gli stava succedendo. In quegli anni di precarietà economica, eravamo più che mai un ménage di ritmi fisiologici e di ricambi di biancheria. Eravamo disattenti e impreparati, ma anche grezzi, frenati da generazioni di ruvidezza langarola, da un malinteso senso del pudore, tutto fenogliesco, da una tendenza congenita a non lasciarsi andare, a preferire anche tra di noi una battuta salace e impietosa a un discorso impegnativo e serio.»