Breve storia del mio silenzio
Letteratura italiana
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L'abisso tra silenzio e parole
«L’abisso era il silenzio e le parole erano appese al filo che ci penzolava sopra. Parlare era come salire cu una funivia agganciata a questo filo: ci si lascia andare nel vuoto e via con le lettere, una dietro l’altra.»
Figlio di due genitori insegnanti in una pluriclasse nella campagna di Marotta, un edificio circondato da alberi di noci e con qualche biga di paglia a far da contorno e in cui le aule altro non erano che perenni palcoscenici in cui gli alunni “imparavano la vita”, Giuseppe Lupo ripercorre le tappe della propria formazione e in particolar modo di quel periodo di mutismo causato, all’età di quattro anni, dal sopraggiungere della nascita di una sorellina. L’arrivo di questa nuova compagna di vita rappresenta un qualcosa di sconosciuto per il bambino, è un qualcosa che con i suoi appena quattro lustri di esistenza non sa gestire e che per questo vive come un qualche cosa di inspiegabile.
«Due pedagogie, due vocabolari. In mezzo mi trovavo io.»
Il mutismo di questo primo periodo, poco a poco, viene meno e grazie a una serie di escamotage e al semplice tempo che passa portando consapevolezza, lascia il posto di nuovo alla parola che torna a far capolino tra le labbra del giovane protagonista. È figlio di maestri, il piccolo, cresce tra miti e leggende, favole ben diverse da quelle dei suoi compagni, eppure, si avvicina ai grandi romanzi soltanto quando una paura ancora più grande irrompe nella quotidianità spezzando il filo conduttore che le conduceva: la terra che trema. Una terra che scuote, spezza, disintegra, spazza via. Una terra che con il suo franare sotto ai piedi fa capire quanto la vita sia soltanto un flebile alito che può venirsi a interrompere in un qualsiasi momento e per qualsiasi ragione. Ecco perché le parole proferite dal padre assumono il sapore dell’essenziale: “ora che siamo salvi si può raccontare”. È da qui che inizia il viaggio tra le letture, partendo da “Cristo si è fermato a Eboli” e arrivando, già in anni universitari, ai “Promessi sposi” e a quella parola “sugo” che indusse alla riflessione sul come Manzoni parlasse di questo parlando di matrimoni anche se in verità si “riferiva a un altro tipo di pomodoro, quello dei fatti narrati, che sono il meglio di un libro, il suo frutto”.
Passano gli anni e da Atella, in Basilicata, la scena si sposta in Lombardia e affronta una nuova fase, quella della maturità adulta.
«Io lo capivo da mia madre che si avvicinava in punta di piedi per infilare una rosa nel portafiori e non azzardava un saluto più espansivo di una mano aperta e presto richiusa, un gesto che poteva sembrare frettoloso e invece conservava l’umiltà di non sentirsi all’altezza del mestiere.»
Giuseppe Lupo torna in libreria dopo “Gli anni del nostro incanto” con un testo autobiografico che si sposta dalla precedente esperienza con l’esplorazione degli anni Sessanta attraverso lo strumento del romanzo e abbraccia quel connubio di odori, gusti, sapori, ricordi propri dell’infanzia. Ci racconta, ancora, il suo desiderio di diventare scrittore, quel sogno fatto di tentativi, timori, cadute, certezze.
«Se proprio devo trovare una ragione per cui amo i segni delle scritture, tutti indistintamente, questa ragione io la trovo in quel tamburo che provocava il galoppo del cuore e ci avvertiva che non eravamo soli sulla faccia della terra.»
Il risultato è quello di uno scritto intenso, ricco di spunti di riflessione, avvalorato da una penna erudita e pregiata che accompagna pagina dopo pagina come un soffio leggero che solletica il cuore. Un elaborato da assaporare un poco alla volta, da vivere sulla propria pelle e da custodire.
«La considero un luogo dove ho cominciato a vivere, sia pure una vita disegnata da altri.»