Le vichinghe volanti
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
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il VIRIVIRI'
“E questa fu l’origine di tutto il virivirì che capitò appresso” con questa frase Camilleri dà il via alle danze scombinate che nell’ottavo racconto della raccolta”Le vichinghe volanti” portano ad esiti imprevedibili. In realtà nel mondo di Camilleri racchiuso nei confini di Vigata il virivirì capita sempre, anzi il vivirì è la sola categoria del reale concepibile, tanto che persino sintassi e lessico devono adeguarvisi, deformandosi e reinventandosi. Il caos non è compatibile con le regole rigide della grammatica: leggere i libri di Camilleri in italiano corretto sarebbe come sentire un' orchestra con strumenti scordati. A cercare di mettere le briglie alla follia degli accadimenti di solito c’è il commissario Montalbano, la cui assenza ne “Le vichinghe volanti” lascia libertà totale al virivirì di dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. Le sue origini sono nel cuore di uomini e donne, soggetti solo alle proprie voglie: basta l’incontro casuale su un pianerottolo, in “Il terremoto del ‘38”, la visione di un corpo nudo nell’acqua di un fiume, ne “i cacciatori”, o in un quadro, in “il boccone del povero”, per far scaturire la passione fino a farla coincidere con il deliro e con l’allucinazione come avviene al prete protagonista di “In odore di santità”. Le convenzioni sociali da sempre contrastano con il desiderio: il tempo scorre, cambiano governi e condizioni, la Vigata del 1910 non è più quella di oggi ma da questo punto di vista non vi sono mutamenti significativi. Le storie sono infatti ambientate fra l’inizio e la metà del secolo scorso, ma qualunque sia il contesto, l’eros è sempre e comunque elemento ribelle e destabilizzante. L'esplosione dell'eros incontrollabile porta al dramma talora, più spesso alla farse ridicola.Né le differenze di classe né la gelosia patologica di una madre( “Il boccone del povero”) e neppure la paura del cataclisma ( “Il terremoto del '38”) vincono del resto“Il sciaurio di giglio” della bellezza di un corpo.
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La lingua delle vichinghe è più comprensibile
Andrea Camilleri, prossimo ormai ai 91 anni, dimostra una continua e costante vitalità, con una produzione letteraria che a definire corposa sarebbe un eufemismo. Frutto di una creatività che oserei dire inesauribile i suoi libri escono a raffica, e poco importa che siano romanzi, oppure racconti, perché lui sembra avere sempre qualcosa di nuovo da dire. È ovvio che con così tante opere, nonostante la loro qualità sia mediamente buona, possa capitare che ogni tanto qualcuna sia in tono minore e secondo me è il caso di questa raccolta di racconti, a tema, in cui il tema è appunto l’amore, visto attraverso gli occhi dell’ironia che sono propri dell’autore. Il classico gallismo degli italiani, e in particolare dei siciliani, è del resto materia su cui un narratore attento e disincantato può lavorare a piacimento, con un intento ovviamente satirico-comico. Tuttavia, mi è sembrato che si siano riaffermati certi luoghi comuni che, più parecchio tempo fa che oggi, traevano un fondo di verità dalla realtà di una certa società. Direi che oggi sono anacronistici e il riproporli quindi può avere più un valore storico che una rappresentazione di una realtà immutabile che è invece ben cambiata. Certo a tratti si sorride e forse ci si lascerebbe coinvolgere maggiormente se non perdurasse, sempre più accentuata, quella caratteristica di Camilleri di scrivere in un italiano che italiano non è, ma è una italianizzazione, secondo un criterio tutto personale, del dialetto siciliano. Mi chiedo se ormai l’autore sarebbe in grado di scrivere con la nostra lingua, preso come è a coniare nuovi termini, sempre più spesso di difficile comprensione. Quando leggo mi piace entrare nel pensiero del narratore, cerco di partecipare, ovviamente in modo figurato, alla trama, ma se ogni due o tre righe sono costretto a fermarmi e a chiedermi che cosa possa significare una parola per la cui comprensione non potrà essermi di soccorso un dizionario, ecco che l’incanto che si andava formando scema vistosamente e mi trovo non più davanti alla scena, ma davanti a una pagina e, quel che è peggio, veramente incavolato. Mi chiedo allora che senso possa avere continuare la lettura di un qualcosa fatto di parole incomprensibili e rispondo nell’unico modo che è proprio di chi, oltre che deluso, é anche arrabbiato: getto il libro in un angolo. Se poi considero che per me – ma anche per ogni buon lettore - il ricorso almeno corretto alla propria lingua è essenziale, tendo allora a chiedermi come abbia potuto fino ad adesso perdonare a Camilleri questo importante aspetto. Anzi, mi sento in colpa, per avere fino a oggi sorvolato, ma tendo ad autoassolvermi con un dato di fatto certo: prima, in un ancora non lontano passato, pur scrivendo così Camilleri cercava di facilitare la comprensione, quella comprensione che ora per ben più di una parola mi è stato impossibile avere in questa raccolta di racconti. È ovvio che se il narratore siciliano si radicalizza sempre di più, non mi avrà ancora fra i suoi lettori ed è anche per questo motivo che, pur tenendo conto dei precedenti, non mi sento di consigliare questo libro.
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Il cantastorie Camilleri e la sua Sicilia
Che fantastico cantastorie Camilleri ! Quando lascia il filone dell’amato commissario Montalbano ed incanta sé stesso e noi coinvolgendoci nelle storie della sua amatissima Sicilia, terra di contraddizioni, di amori, di follie e di sole, riesce a commuoverci ed a divertirci, trascinando il lettore e tenendolo avvinto con le cadenze del suo dialetto, una vera e propria lingua, facile da capire e comprensibilissima perché ormai diventata quasi un secondo e più immediato modo di pensare e di esprimersi. Questa raccolta di racconti ci fa viaggiare a ritroso nella Sicilia della prima metà del secolo scorso, in una Vigata popolata da personaggi ameni e divertenti, poveracci e baronesse, famigliole scombinate, mogli gelose, madri possessive, giovanotti alla ricerca delle prime esperienze amorose e, soprattutto, bellissime “picciotte” ansiose di far girare la testa agli scalpitanti maschi del paese. Perché di storie d’amore si tratta, storie nelle quali Camilleri, da grande intenditore, sguazza da maestro. Sono otto godibilissimi racconti. Si parte con le disavventure familiari causate dal terremoto del 1938 e si continua con le sorprese causate da somiglianze sospette, e poi ancora con un’asta particolare organizzata da uno zio avido e viscido per lucrare sulle grazie di una giovanissima nipote; non mancano le gesta di un cacciatore dilettante, annebbiato da visioni celestiali, le scorribande notturne di fantasmi tradizionali e non che turbano assai le tranquille notti di Vigata, le smanie amorose di una bionda picciotta alle prese con un giovane confessore e, infine, certe piccanti avventure di pie dame dell’epoca, dedite più facilmente ad incontri lascivi che a fornire “il boccone del povero” agli indigenti. Ma il racconto clou, quello che dà il titolo all’opera (“Le vichinghe volanti”), è il più spassoso e mette alla gogna quattro intemerati professionisti desiderosi di una serata al di fuori dei consueti canoni familiari. I quattro incauti organizzeranno un incontro clandestino con quattro bionde motocicliste acrobati svedesi: una cena luculliana e poi chissà, ma verranno scoperti dalle gelosissime mogli con immaginabili conseguenze. E’ tutto un mondo racchiuso in un paese di cui Camilleri sa tutto o immagina tutto, con fantasia fervida e coloratissima : mariti cornuti ma prontissimi a rifarsi, mogli gelosissime ma con l’occhio sempre vivido a cogliere inaspettate opportunità, giovanissime di rara bellezza che attirano l’attenzione di procacciatrici di matrimoni, letti e giacigli sfatti in una divertente e scanzonata sarabanda di sentimenti e di tradimenti.
E’ il Camilleri più vero e genuino: la sua terra di Sicilia gli offre sempre spunti ineguagliabili.