La figlia oscura
Letteratura italiana
Editore
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Inquietante
Racconto piuttosto inquietante, che attua la demolizione dello stereotipo dell’amore materno. La protagonista, che indossa le maschere della madre di famiglia e della intellettuale di successo, è preda in realtà di uno spirito di indomabile ribellione, motivato da sentimenti tutt’altro che nobili che creano in lei senso di colpa e rimorsi profondi. Circostanze non previste la portano ad un gesto in apparenza morbosamente insensato (il “rapimento” di una bambola), che alla fine diventa però uno strumento per salvare un’altra donna dagli stessi errori commessi dalla protagonista.
Stile raffinato e ponderoso, teso all’indagine profonda delle azioni e dell’intimità del personaggio.
Si legge con piacere, benché lasci l’amaro in bocca.
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Leda e i suoi pensieri
Una professoressa universitaria è in vacanza in un posto assolato del Sud Italia e si gode serenamente le sue giornate sdraiata al sole, leggendo, facendo passeggiate e tuffi. Allo stesso tempo rimugina sulla sua vita, soprattutto sulle sue figlie ormai grandi e all'estero x lavoro, quando all'improvviso questo quadretto idilliaco viene stravolto dall'arrivo di una famiglia chiassosa e Leda la protagonista è attratta dai modi di fare questi nuovi arrivati. C'è un episodio che è la chiave di volta del romanzo, la sparizione di una bambola che era di una bimba delle famigliola di cui sopra. La bambola di Elena , la bimba, l'ha presa Leda e da questo momento in poi il libro va avanti sull'equivoco, sul depistaggio, del continuo rimandare la consegna del gioco e soprattutto sulle analisi interiori di Leda
Concludo estrapolando un passaggio che mi ha colpito:
...che stupidaggine pensare di potersi raccontare ai figli prima che compiano almeno cinquant'anni. Pretendere di essere vista da loro come una una persona e non come una funzone. Dire: io sono la vostra storia , voi cominciate da me , ascoltatemi, potrebbe servirvi...
Particolare
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iI lato oscuro della prole
Uno scenario di vita comune, una donna . Leda e i suoi quarantotto anni ben portati, un lavoro di docente universitaria, un divorzio alle spalle e due figlie adulte trasferitesi in Canada col padre.
Del distacco non soffre, si sente libera da un impegno costante trascinatosi per anni, decide di di recarsi al sud per una lunga e solitaria vacanza al mare. Di nuovo ci troviamo di fronte un palcoscenico piacevolmente ordinario in un piccolo attico che guarda sul mare, un caffe’ al bar e le tranquille giornate in spiaggia tra libri e riposo.
L’occasione vuole l’incontro con una numerosa famiglia di villeggianti napoletani con cui stringe un rapporto di muta osservazione prima e le cui esistenze si incroceranno brevemente dopo.
Nel frattempo Leda si offre in una generosa rappresentazione psicologica del suo passato, del suo presente, del persistente malessere che da tempo la soffoca.
Saranno gli anni di carriera pesantemente sacrificati alle figlie, un rapporto dove la maternita’ e’ un’oppressione piu’ che una gioia, un polipo maligno che si aggrappa alla carne e succhia strafottente il nutrimento , incurante del corpo altrui che lentamente si sgretola. Cosi’ fino al giorno in un cui decide di dire basta e scappare. Fino al giorno in cui , da donna viva, convalida la sua morte.
Se il contenuto sia riconducibile alla vera vita dell’autrice non e’ noto, certo e’ che la Ferrante riesce a instillare il seme dell’autobiografico in ogni suo scritto, tanto la penna si pregia di realismo.
Intensa prova di una scrittura che si accalca su una perturbazione di vita, alla ricerca di un varco, di una possibile via di uscita che, seppur fuggendo, a Leda sembra non arrivare mai.
Rapido, psicologico, cupo. Frustrante. Buona lettura.
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Il romanzo dell'evasione
Leda è una docente universitaria quarantottenne, separata, madre di due figlie che, ormai adulte, si trasferiscono in Canada. Rimasta sola, si scopre poco afflitta; anzi, in una certa misura, liberata. Parte per una villeggiatura col suo bagaglio di frustrazioni letterarie e sensi di colpa da emancipazione (in passato, nel tentativo di realizzarsi, aveva temporaneamente abbandonato le figlie).
L’isolamento vacanziero innesca continui flashback (più o meno autocritici) e bilanci esistenziali. Molte pagine se ne vanno così, ripercorrendo una casistica di penosi affrancamenti: la donna volitiva che si ribella alla schiavitù della maternità; l’intellettuale fine che si discosta da una rozza discendenza femminile di napoletanità casalinghe; la studiosa di letteratura inglese che lotta invano contro le sguaiataggini della sua parlata, etc. Se ne ricava una biografia che cerca riscatto nell’affinamento culturale, e, anche, nel ripudio delle origini: la costruzione, pietra su pietra, di un’identità nuova è il destino dei “diversi”?
Leda, per sua stessa ammissione, è un po’ snob.
Durante la villeggiatura si scopre attratta da Nina, una giovane mamma che frequenta lo stabilimento balneare. Dall’ombrellone, la osserva giocare con la figlia Elena e una sinistra bambola che diventa presto simbolo condiviso di femminilità in embrione. Leda è affascinata dal placido erotismo di quella simbiosi, ma al tempo stesso dal potenziale eversivo, individualistico, di Nina, in cui rivede se stessa da giovane. Inizia quindi un gioco di proiezioni. La giovane mamma, infatti, è circondata da una chiassosa famiglia “allargata”, napoletani invadenti, socievoli sul filo di una violenta aggressività che manipola, gestisce, ricatta gli altri bagnanti (e, col nome di “Camorra”, il resto del mondo). Leda, che ha la fissa dell’incivilimento, ruba la bambola e inizia a coccolarsela e a “lavorarci” nella solitudine della sua villetta presa in affitto. Vuol ripulire quella creatura di gomma, sgravarla del limaccio che ha bevuto (uno sperma sabbioso, fecondante). In verità, non sa spiegarsi l’esatta ragione di un simile comportamento, ma lo porta avanti nonostante il dramma scatenato nella piccola Elena, che, senza la sua bambola, si dà in capricci interminabili, contesta la mamma, e mette a soqquadro l’intero paese.
Il romanzo, a questo punto, vira sul thriller, con tensioni lesbiche calibrate e psicologismi ben sorretti. Nell’insieme, una buona lettura che, per quanto mi riguarda, dopo “I giorni dell’abbandono”, esaurisce il capitolo Ferrante.
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Rapporto madre-figlia (la bambola)
In questo romanzo Elena Ferrante analizza il rapporto madre figlia (la bambola).
La bambola è il centro di questo racconto per buona parte simbolico.
Con la sua scrittura algida, elegante, distaccata Elena riesce a parlare di un argomento che per lei è sicuramente doloroso e lo fa su due piani di lettura. Sul primo analizza la sua vita, parlandone in prima persona ma guardandosi con gli occhi severi di sua madre. La protagonista Leda è una donna di mezza età colta, fredda, antipatica, sola. Ha lasciato le figlie piccole per inseguire se stessa e una brillante carriera. Ma anche per quanto riguarda la carriera insinua nel lettore malizioso dei dubbi: era una borsista come tanti, che lavorava molto meno di altri. Ha scritto un unico lavoro (due paginette striminzite) che però viene citato dal luminare del settore. Lavoro brillante, geniale? Forse. Elena insinua però nel lettore il dubbio che non sia così. Il luminare le fa delle avances che lei accetta con entusiasmo. Ne diventa l’amante e la ritroviamo a 50 anni professore ordinario, sola, a ripercorrere il rapporto travagliato con le figlie, soprattutto con Bianca, quella che più le assomiglia e a spiare i vicini d’ombrellone, una famiglia come era la sua: padre-padrone,madre, figlia di pochi anni, parenti serpenti.
In realtà la famiglia descritta è proprio la sua. La bambina si chiama Elena-Lena-Lenuccia. La protagonista cinquantenne ha un nome simile, Leda. Il racconto inizia con una festa di compleanno, in cui la chiassosa famigliola invita tutti a spostarsi dagli ombrelloni vicini per fare posto ai parenti. Anche lei viene invitata a spostarsi ma rifiuta: lei vuole fare parte della famiglia pur esibendo un altezzoso distacco. Li spia ma finge di leggere sotto l’ombrellone. Il suo interesse è rivolto soprattutto alla bella, giovane madre di Elena e non alla bambina che sembra guardare con antipatia. Elena-Leda è la figlia oscura, oscurata dalla bellezza della madre. Più volte nel racconto viene citata la rivalità madre figlia: le figlie di Leda sono gelose della madre che ha un atteggiamento seduttivo verso i loro fidanzati. Leda ripropone a sua volta la rivalità sessuale con la madre-Nina flirtando con lo spasimante di lei (un ragazzo) con cui cena e a cui chiede se vuole salire in casa sua per scoprire con delusione che il suo interesse non è per lei ma per le chiavi di casa, per portarci Nina. Di fronte alla madre a qualsiasi età lei sarà sempre perdente, la figlia oscura. Come si sentono perdenti le sue figlie rispetto a lei. Forse proprio per questo, per rompere il rapporto morboso madre-figlia simboleggiato dalla bambola (sporca, piena di sabbia, con un verme dentro, con la quale la bambina sembra mimare delle scene erotiche), Leda lascia le figlie per tre anni al marito, marito che fa quello che può ma a un certo punto le porta dalla madre di Leda-rivale. Leda non si oppone. (Nel racconto Leda riporta Elena che si era perduta a Nina ma ruba la bambola). Pur lasciando crescere per un certo periodo le bambine alla nonna non riallaccia con lei un rapporto.
Interessante il fatto che la bambola viene riportata da Leda a Nina alla fine del racconto. Troppo tardi. Nina non la perdona. Sua madre (la madre di Leda) muore senza che si siano riavvicinate. (Lo spillone che la fa sanguinare).
La bambola che Leda ruba alla piccola Elena ci riporta alla bambola della sua infanzia che Leda regala a Bianca ma che Bianca rifiuta. La sporca, ci si siede sopra. Leda la scaglierà arrabbiata dalla finestra (i tre anni di fuga) in un infantile momento di rabbia.
Alla fine del racconto, Elena-Leda, la figlia oscura riceve la telefonata consolatoria di Bianca e Marta aprendo uno spiraglio in questo perpetuarsi di un rapporto malato e ombroso da cui sembrava non esserci altro scampo che la fuga o la lontananza.
Elena Ferrante è una delle nostre scrittrici più interessanti. Dietro tanta bravura, tanta cultura, dietro l’anonimato credo si nasconda una grande nostalgia della sua infanzia oscura e dolorosa e tanta fragilità.
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Il lato oscuro di ogni madre
Elena Ferrante ci ha abituati a una narrazione sofferta, difficile, spesso ostica. Non vuole parlare dei buoni sentimenti, delle frivole preoccupazioni del vivere quotidiano. E quando parla delle vite dei suoi protagonisti, lo fa sempre con l'intenzione di scoprire che cosa si nasconde dietro l'apparenza. Le donne di Elena Ferrante sono forti, dure, poco materne. Dietro di loro, aleggia il fantasma di una madre diversa, contrastante con l'ideale di dolcezza che normalmente associamo a questa parola. Leda, la protagonista di questo romanzo, non è da meno. Madre e moglie, improvvisamente si scopre disinteressata al destino dei suoi figli, non avverte quel senso di angoscia che normalmente assale il genitore all'atto di separazione dalla prole. Predilige se stessa, la carriera, la tranquillità. Sarà proprio l'incontro con una giovane mamma e la piccola figlia in villeggiatura sulla medesima spiaggia a risvegliare in Leda quella dicotomica visione di spirito e carne, ideali e necessità fisiche che spingeranno la protagonista a un gesto sciocco, eppure risolutivo.
Ancora una volta è la donna al centro dell'indagine della misteriosa Ferrante. Si potrebbe accusare la scrittrice di ripetitività, ma vorrei spezzare una lancia in suo favore. Le situazioni, i luoghi e le condizioni in cui queste donne si trovano a vivere sono sempre differenti, come diverso è l'occhio che le scandaglia. In questo romanzo affiora principalmente la figura irrisolta della moglie/madre e la fragilità con cui una vita ormai vissuta appieno può essere ridiscussa.
Assolutamente da leggere.