La cappella di famiglia
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Vita e morte a braccetto con il sorriso
Andrea Camilleri lo conoscono tutti per i gialli della serie del commissario Montalbano, ma in pochi lo stimano per i romanzi in cui parla d'altro, ricostruisce la storia e i misteri del passato.
In LA CAPPELLA DI FAMIGLIA E ALTRE STORIE DI VIGÀTA ci propone una Sicilia arcaica, legata al folklore del passato, ma sempre contraddistinta da misteri, leggende ed occasionali o premeditati misfatti.
La Vigàta di Camilleri, paesino immaginario, ma sempre verosimile, sa parlare di usanze e costumi, che la memoria storica non ha definitivamente cancellato e che sono ancora in grado di entusiasmare il lettore, attento e alla ricerca di un qualcosa in più.
LA CAPPELLA DI FAMIGLIA è una raccolta di otto racconti, più o meno lunghi, nei quali emerge una Vigàta suggestivamente intrisa di passioni, soprusi e debolezze umane. È una raccolta variegata di tipologie umane: si passa dagli uomini arroganti e pieni di sé alle vedove inconsolabili, dagli autoritari capifamiglia o padre padrone ai genitori di Luigi Pirandello. Ci sono rituali magici, usanze storiche cadute in disuso, antiche credenze popolari, ma anche sentimenti e comportamenti che con il tempo si sono trasformati un po', ma mai nella loro essenza o del tutto.
Interessante, coinvolgente e divertente, Andrea Camilleri con il suo particolarissimo stile e la sua verve comica racconta, in questo libro, una Italia passata, ma ancora in grado di insegnare qualcosa alla generazione attuale.
LA CAPPELLA DI FAMIGLIA è un piccolo gioiello, una raccolta di racconti da avere nella biblioteca privata, da leggere e rileggere per ritrovare il buon umore o per comprendere ed abbracciare la vita con nuova consapevolezza.
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Si sorride e, anche, si ride
Vien da dire che Vigata non ci sarebbe se non ci fosse Camilleri e infatti questa località siciliana è frutto di esclusiva fantasia, per quanto lo stesso narratore abbia voluto identificarla con Porto Empedocle. Certo, l’escamotage così architettato è stato un artificio che gli ha consentito di tessere una fitta trama di vicende, tutte di fantasia, partendo da un modesto, ma concreto piano di verità. A parte gli episodi del commissario Montalbano che si svolgono appunto a Vigata, è tutto un fiorire di racconti lì domiciliati. Al riguardo, mi viene in mente Gran Circo Taddei e altre storie di Vigata, ma anche Il birraio di Preston che è a mio avviso un autentico e irripetibile capolavoro. Ora, la creatività, ma anche la verve comica di Camilleri possono – e lo fanno – stupire per la genialità di alcune trovate, per una serie cospicua di trame mai uguali.
Anche in questi otto racconti ci si lascia volentieri trascinare in una Sicilia sì immaginata, ma che compendia perfettamente tutte le caratteristiche di una qualsiasi realtà abitativa dell’isola. Le avventure possono essere le più disparate e per divertire e interessare non devono essere necessariamente boccacesche, ma devono presentare un paradosso, un qualcosa spinto al limite in base al quale qualsiasi fatto di normale amministrazione deve diventare un evento unico e addirittura irripetibile. E’ questo il caso di Il morto viaggiatore, con un cadavere che non riesce a trovare pace, sbattuto di qua e di là e “ più vivo da morto che da vivo”. Ma anche Il palato assoluto pare l’esaltazione di ciò che non può essere, cioè la totale genuinità del cibo. Il racconto che però ha una valenza più generale, impietoso con un popolo che da sempre vive di piccole astuzie e soprattutto di sogni è L’oro a Vigata, un classico per certi aspetti di un modo di mettere in evidenza le nostre miserie, qui rese ancora più stridenti dall’epoca fascista. Come dicevo, sono otto racconti, qualcuno migliore degli altri, in cui a volte si sorride e altre, più raramente, in cui si ride, una risata amara , come quella che accompagna Lo stivale di Garibaldi, con il quale si comprende come la distanza dallo stato sia stata una costante dalla spedizione dei mille in poi. Lì infatti troviamo una
serie di incomprensioni, da parte di chi non vuole comprendere, che condanna la Sicilia a un isolamento senza appello e la protervia del potere centrale, rappresentata da un ottuso prefetto, non può che far sembrare simpatici quei carcerati che hanno deciso di prendere la via della libertà.
Insomma, si legge con piacere e, anche se non ci troviamo di fronte a un capolavoro, non possiamo che constatare l’apprezzabile svolgimento dei temi, pur confezionati in quel particolare siculo-italiano, che non è né l’una né l’altra lingua, ma solo il marchio di fabbrica di un sempreverde Camilleri.
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Una reliquia provoca un "miracolo" letterario.
Sono otto racconti scritti nell’arco di diversi anni, che coprono un periodo della storia italiana molto vasto: si va dall’impresa garibaldina sino a metà circa del secolo scorso. Lo stile non è sempre lo stesso: ora più stringato, quasi che la narrazione volesse giungere rapidamente a conclusione, ora più ragionato, riflessivo, quasi che gli eventi storici narrati fossero più meritevoli di un’analisi dettagliata. Sono momenti diversi, situazioni caratterizzanti epoche diverse, tutte comunque illuminate dall’arguzia e dall’ironia tipiche del Camilleri che conosciamo. Il titolo è dato forse da uno dei racconti meno riusciti, “La cappella di famiglia”, che inizia con fortuiti incontri tra un bellimbusto locale e la solita vedovella inconsolabile in visita alla cappella cimiteriale di famiglia: il prosieguo e l’evolversi degli eventi hanno un sapore tragico e surreale, tra cappelle funerarie in restauro e sparatorie tra i loculi. Gli altri racconti, sempre e come di consueto divisi in quattro capitoli, toccano eventi e argomenti tra i più disparati, dalle tragicomiche sfide a duello tra signorotti della nobiltà sicula (“Il duello è contagioso”), duelli che non avverranno mai per l’inopinata mancanza delle armi designate, alla furbizia di un’astuta picciotta (“Teresina”) che s’impossessa di un ingente patrimonio, dalla tragicomica storia di un finissimo intenditore di cibi (“Il palato assoluto”) conteso da ristoratori e mafiosi, alla doppia vita (“La rettitudine fatta persona”) di uno straordinario don Fefè, ipocrita e falso moralista ma dai comportamenti apparentemente irreprensibili….. Ed ecco, dopo “ L’oro a Vigata” (storia di un bambino dalle eccezionali capacità) e “Il morto viaggiatore” ( surreale percorso di un cadavere che sembra trovare da solo la strada per il cimitero), una parentesi storica, basata su fatti realmente accaduti, già pubblicati da Sellerio nel 2002 e rielaborati da Camilleri ne “Lo stivale di Garibaldi”. E’ forse il racconto migliore, che ricorda le disavventure del prefetto Falconcini inviato in Sicilia dopo l’unità d’Italia e costretto ad assistere, dopo averne dato pur contro voglia l’autorizzazione, alla sfilata per le vie del paese di una storica reliquia, lo stivale insanguinato di un Garibaldi sicuramente poco amato dagli occupanti piemontesi. Il prefetto è tutto d’un pezzo, non capisce la realtà in cui si ritrova catapultato ed è costretto, alla fine, a lasciare l’incarico. Ma durante la sfilata dello storico cimelio, s’incontrano per caso due giovani, Caterina, sorella del luogotenente di Garibaldi Rocco Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello: al colpo di fulmine ed al successivo matrimonio seguirà, indovinate un po’, la nascita del grande Luigi. Diamo un pizzico di merito anche al tanto bistrattato prefetto Falconcini: senza quella sfilata probabilmente non sarebbe venuto al mondo quel grande genio della letteratura italiana che è stato ed è Luigi Pirandello.