L'oro di Napoli
Letteratura italiana
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Un sogno per vivere
Il libro consta di 36 brevi racconti, degli autentici quadri in cui l’autore ritrae splendidamente paesaggi e atmosfere di una città che ogni giorno muore per poi rinascere. Credo che nessun altro libro sia in grado di descrivere così precisamente l’autentico spirito dei napoletani, legati indissolubilmente alla loro città tanto che viene da pensare che Napoli non ci sarebbe se non ci fossero i napoletani. E’ un vincolo talmente stretto che induce la gente a vivere in ristrettezza o quasi di niente per il puro piacere di vivere lì; certo ci sono racconti che sembrano ben poco realistici, tanto dall’indurre a pensare che l’autore se li sia inventati, e invece sono veri, anche laddove possono sembrare falsi, perché in questa eterna città tutto ciò che altrove pare parto di fantasia si realizza sotto gli occhi e se proprio non è esistito l’abitante di una casa bombardata che si è adattato a vivere nella buca provocata dall’esplosione della bomba, si può star certi che nell’arte di arrangiarsi i napoletani sono insuperabili. La Napoli dei miracoli, veri o falsi, in cui tanto la gente vuole credere per fuggire l’amara e dolorosa verità di ogni giorno, la Napoli delle viuzze, delle piazzette dove il sole con estremo sforzo riesce ad arrivare, questa è Napoli: miseria e splendore, intensa sofferenza interiore che esplode in quelle che riteniamo originalità, ma che di fatto rappresentano uno sfogo, come quella dimestichezza con la morte che, se serve a esorcizzarla, consente comunque di rendersi conto che non è altro che una tappa della vita. In tal senso richiamo l’attenzione su Ninna nanna a una signora, in cui Don Alfonso Corrado Mazzullo conversa con la morte e le dice queste profonde parole: “Volevo morire quando nacqui, per avvolgimento del cordone ombelicale intorno al collo, mi fu concesso? Volevo morire di emottisi a tredici anni, ne ebbi maniera? Volevo morire cento altre volte. Ora spetta a me decidere: ora sono io che non voglio.” E’ un capovolgimento dei ruoli, è l’illusione di poter diventare artefici del proprio destino e che nella sofferta condizione di predestinati fa sì che nei napoletani ci sia un filo di speranza, sempre e ovunque presente, con quel desiderio di potersi rialzare dopo ogni caduta, non disgiunto da una pazienza infinita che consente di sopportare tutto pur di non perdere questa speranza. Sono trentasei racconti, sono pagine che, oltre che appassionare, entusiasmano, anche quando si tratta di ricordi personali dell’infanzia povera dell’autore, come nel caso di I parenti ricchi, parenti serpenti verrebbe da dire nel leggerlo, ma la prosa che più di tutte spiega così bene lo spirito dei napoletani è proprio L’oro di Napoli, con Don Ignazio Ziviello che riesce a rialzarsi dopo ogni caduta della vita, che ogni volta sembra sia quella buona, ultima, definitiva, un’autentica morte morale civile, da cui tuttavia ne esce, risorge, come un’ araba fenice.
Da leggere, è più che consigliato.
Indicazioni utili
La pazienza vale oro
“La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni, e forse ne troveremo l’origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcavano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la vita umana; è l’oro di Napoli questa pazienza.”
Che grande narratore, Giuseppe Marotta!
Penna estremamente prolifica e versatile, l’autore campano tardò inspiegabilmente a riscuotere credito nell’ambiente letterario e riconoscimento di pubblico, fino alla pubblicazione, nel 1947, della raccolta “L’oro di Napoli”, opera che se non è un capolavoro, poco ci manca. Capolavoro di contenuto e, ancor più, di stile.
È la prosa, infatti, che cattura il lettore fin dalle primissime pagine, con il suo linguaggio così arguto, ricco di sorprendenti accostamenti semantici e guizzi vivaci, intriso non meno di una certa malinconica poesia. Napoli, la città dell’infanzia e della giovinezza di Marotta, è la protagonista indiscussa di queste pagine: come un grande e sconclusionato palcoscenico, essa mette in scena una assai folta e variegata umanità, quella che popola i caratteristici “bassi”, dove la vita spesso fatica a vivere e deve pertanto ricorrere alla sopraffina arte dell’arrangiarsi per sbarcare il lunario; dove il titolo di “don” non si nega nemmeno a un povero ciabattino; dove la fame si riempie la pancia coi lupini o, se si è fortunati, con il pane condito con olio e sale.
Trentasei racconti, trentasei piccole storie per un’opera corale di impeccabile neorealismo. Uno straordinario affresco di Napoli, e della sua gente dal multiforme ingegno, che prende le mosse dalle non felici vicende familiari dello scrittore stesso per poi aprirsi, pian piano, ai vicoli, alle piazze, ai quartieri della palpitante città partenopea, tra guappi, jettatori, nobili caduti in rovina, vetturini, mariti irreparabilmente in odore di corna, venditori di sberleffi e di saggezza.
Nel 1954 il grande Vittorio De Sica girò l’omonimo film a episodi tratto da questo libro: chi non ricorda il banchetto della pizzeria da asporto (“Mangiate oggi e pagate fra 8 giorni”) presso cui una giovane e ammaliante Sophia Loren era intenta a impastare pizze prima di accorgersi di non avere più al dito l’anello regalatole dal geloso marito?
“Donna Sofia trasalì, ripensando fulmineamente al marmo azzurro del comodino su cui la sera innanzi aveva dimenticato il gioiello.
«Mi sarà sfuggito mentre impastavo» disse a caso. «Ah Rosario, sarà in qualche pizza.»”