Narrativa italiana Racconti Dialoghi con Leucò
 

Dialoghi con Leucò Dialoghi con Leucò

Dialoghi con Leucò

Letteratura italiana

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Ventisei dialoghi brevi ma carichi di tensione, suadenti eppur sconfinanti nel tragico in cui gli dèi e gli eroi della Grecia classica (da Edipo e Tiresia a Calipso e Odisseo, da Eros e Tànatos a Achille e Patroclo) sono invitati a discutere il rapporto tra uomo e natura, il carattere ineluttabile del destino, la necessità del dolore e l'irrevocabile condanna della morte. Un «capriccio serissimo», unico, in cui - come scrive nell'introduzione Sergio Givone - il mito è riproposto come «qualcosa di necessario» e la poesia ad esso intimamente legata «ne rivela la cifra misteriosa e crudele».



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Dialoghi con Leucò 2022-03-22 22:35:31 topodibiblioteca
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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    23 Marzo, 2022
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Nell'Olimpo della letteratura

“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Queste le ultime parole che Cesare Pavese lascia ai posteri la sera del suo suicidio, scritte proprio sul frontespizio di questo suo libro con il quale evidentemente il legame emotivo è molto intenso.

Dialoghi con Leucò rappresenta il testamento di Pavese, un libro scritto con l’intenzione di (ri)proporre la mitologia greca nella letteratura italiana post bellica, perché secondo l’autore il mito è un linguaggio, “un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati”. Attraverso la rappresentazione sotto forma di brevi dialoghi, sempre a due, di alcuni tra i più celebri miti antichi, Pavese può permettersi così di affrontare tematiche a lui care.

A partire dalla “Nube” in cui il giovane e temerario Issione non teme di sfidare gli dei ascendendo verso il monte della loro dimora nonostante gli avvertimenti della Nube (“Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace”).

Il fascino della morte esercita su Pavese una malia irresistibile, quasi sembra anticipare il suicidio come sfida al destino, come desiderio di oltrepassare la vita, soluzione alle pene d’amore terrestri. Così viene raccontato ne “La belva” in cui lo Straniero, dialogando con Endimione gli ricorda che “Ciascuno ha il sonno che gli tocca…..La solitudine selvaggia è tua. Amala come lei l’ama. E adesso, Endimione, io ti lascio. La vedrai questa notte”.

Ancora il tema della morte ma in questo caso all’opposto, intesa come fuga dall’Ade, come ricerca di sé stessi e anelito nei confronti della vita, lo si denota ne “L’inconsolabile” che ripropone il mito di Orfeo ed Euridice. Orfeo rinuncia alla sua amata una volta giunto nell’aldilà, perché la paura della morte, di rimanere invischiato è troppo forte e considera Euridice oramai perduta per sempre (“Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso”).

Anche in “Schiuma d’onda” tornano le riflessioni su morte e destino in un dialogo tra la poetessa Saffo e la ninfa Britomarti. Entrambe suicide, entrambe in lotta col destino alla ricerca di un’autodeterminazione perché come dice Saffo a proposito del destino: “Non l’accetto. Lo sono. Nessuno l’accetta”.

Sono solo alcune citazioni dei Dialoghi con Leucò, o Leucotea, divinità femminile che appare più volte come dialogante e sotto le cui spoglie si cela l’ultima donna amata dall’autore. Un testo che fa dello stile poetico la sua ragione d’essere. Tuttavia stile e contenuto sono talvolta criptici, non sempre di facile comprensione, tanto da richiedere più riletture e approfondimenti. Questi elementi rappresentano forse il vero limite di una lettura capace di svelare l’intimità più profonda dell’autore ma che allo stesso tempo la pone distante dalla prosa più nota e accessibile di opere quali “La luna e i falò” o “La bella estate” ad esempio. Sono proprio queste difficoltà nell’apprezzare pienamente un libro così complesso, e sicuramente imputabili a miei personali carenze, a non permettermi di dare voto pieno a un lavoro che visti i temi trattati si colloca in ogni caso, e a pieno diritto, nell’Olimpo della letteratura italiana del novecento.

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Dialoghi con Leucò 2022-03-20 15:14:05 siti
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siti Opinione inserita da siti    20 Marzo, 2022
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Tutto è vita

Nel frammento di un dialogo, nella portata devastante di un intenso scambio di parole, nella eccelsa carica espressiva che le anima, nella musicalità di un quasi verso, nel loro significato più recondito, ma che appare immediatamente intuibile, è riposta tutta la forza e la malìa di quest’opera. Nella pagina che si anima di presenze ancestrali, tutto è logos, parola e pensiero insieme, verità e menzogna, sicuramente mistero e insieme finitezza. Impongono un limite, i dialoghi: alla ragione, al pensiero, alla struttura formale stessa della quale si nutrono. Vivono di una concisione perfetta e in essa si moltiplicano, ogni significante rimanda a eterni significati. Parlano gli dei. Parlano gli uomini. Dialogano tra di loro. Ricordano i primi un tempo che fu, loro che “non esistono; sono”; loro che sconfissero i Titani, loro che temono gli uomini che uccidono gli dei e che per “esprimere un fiore distruggono un uomo”. E gli uomini ambiscono a essere più che mortali nella loro impossibilità di vivere, combattono la noia, convivono con la propria sorte dalla quale non possono sfuggire, hanno paura degli dei e quando non li temeranno più li uccideranno, ma non sarà questo il loro destino perché come ricorda Circe ”l’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Netta è la separazione tra umano e divino, l’uno non raggiungerà mai l’altro perché il primo ha costruito il secondo e se ne nutre e vi si aggrappa ma “tutto quello che gli uomini toccano diventa tempo” e lì finisce l’immortalità. La ricchezza degli uomini è la morte, l’attimo che vivono e che non sanno cogliere nell'imprevedibilità preziosa dell’istante. Tempus fugit e “si daranno un passato per sfuggire alla morte” e ricorderanno la felicità vissuta.

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Dialoghi con Leucò 2019-03-13 22:22:18 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    14 Marzo, 2019
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L'ultima, lunga poesia, di un uomo

Il cielo d’Occidente è il vuoto degli dei fuggiti, il tempo della povertà estrema, lo smarrimento del sacro. L’anima di Pavese è il turbamento dell’uomo, il disorientamento della vita, la lotta prometeica alla verità. Lo stesso cielo da cui, Nefele, la nube, parla a Issione nel primo dei ventisette, meditatissimi dialoghi del libro, e ci avvisa: “C’è una legge, Issione, cui non possiamo sfuggire”. La legge è “la bufera”, si affretta a corregge lui, ma Nefele non cede, “tu sei tutto nel gesto che fai, ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga”. Pavese è di una geometria assoluta, di un rigore elementare, perché sa che solo nella struttura e nella coerenza un libro tanto frammentato ha senso. E allora la dicotomia atroce si esprime subito, la vita in sé, che trionfa nel suo stesso essere, e il destino, la morte, appiattita come “una serpe”, in ogni istante. Un’altra mano governa, ma c’è davvero qualcosa oltre le nubi?

All’uscita, questo libro così rarefatto, così cristallino e silenzioso, questi dialoghi tanto ellittici da sfiorare l’incomprensione, apparirono a molti niente più che uno sfoggio d’erudizione, una raccolta di esempi moraleggianti cari all’autore, quasi un esercizio di stile. Anzi fu accolto con tanta freddezza da ferire Pavese, che anzi su questo libro scriverà le sue ultime parole prima del suicidio. Credo sia necessario un certo ottundimento critico per non percepire questi dialoghi come la storia di un’anima, di una vita, lo struggimento, il dibattimento, la corsa a un infinito affossato nei tortuosi labirinti della mente. Pavese scortica i miti, non per ritrovarne l’intimo significato, per scrostarli dalla frenesia interpretativa, no, piuttosto li spoglia fino all’essenziale, fino alla più criptica associazione di senso per indagare i fondamenti del destino dell’uomo, il senso della vita, la morte, l’amore. I personaggi che si alternano, in una meravigliosa, placida, rapsodia di toni, da Saffo che si suicida per un rifiuto, a Orfeo, il poeta-Pavese, che deve scendere all’inferno per scoprire la sua arte e che, vinta la morte, si accorge che tutto è null’altro che ombra, passando per Odisseo, colui che sa dare il nome alle cose, che porta l’isola, la felicità, nel suo cuore, e che per questo non invidia gli dei, fino a Demetra, il grano e Dioniso, il vino, carne e sangue, anelito di resurrezione. E sopra di tutto la poesia, la Musa, che sa risolvere le contraddizioni della realtà nella pace del cielo, nella forza nuda della roccia, una natura che si ama di un amore puro, rarefatto, vergine. La poesia che sa preservare il silenzio dalla parole, che sa nominare le cose, risolvere il caos, in un gioco raffinatissimo di controcanti, rimandi, sospensioni estatiche che percorrono tutte le note di un pentagramma ristrettissimo, coerente, concreto. Pavese parla di nubi, roccia, montagne, laghi, boschi, belve, mostri e mentre tocca con mano il mondo, vola in realtà lontanissimo dalla nostra capacità di comprendere.

Non mi è possibile, se non analizzando uno per uno questi dialoghi, rendere conto della ricchezza del libro, una ricchezza certo difficile da capire. Non basta una prima lettura, non è sufficiente una seconda e probabilmente non saranno utili infinite letture, perché abissali e cocciutamente inesprimibili sono i problemi che affronta Pavese, in una resa dei conti col il caos, con gli dei, con gli uomini. Volevo solo invitarvi a leggere questi Dialoghi, ad amarli come Pavese ha amato il sole, il vento, la bufera, a non leggerli di seguito, come fosse un rosario, ma a lasciarli sedimentare, dialogare in voi. Permettetevi di stupirvi. Forse questo libro davvero non porta da nessuna parte, perché non c’è alcun luogo da raggiungere: sentieri erranti nella Selva del pensiero, tra i rami del tempo, tra le sinuose curve dello spirito. Sentieri che incrociano una vita che non vuole incontrarli.
Questi dialoghi sono il testamento di Pavese, e, per quanto di lui ho letto, sono infinitamente più belli di altre sue opere, perché in ogni parola, in ogni istante, bruciano di un fuoco contratto, come l’arte classica che nell’equilibrio delle forme tenta di domare il caos della realtà. Pavese scriverà di aver bruciato la candela solo da una parte, “la cenere sono i libri che ho scritto”. Chi scrive muore, chi legge, si salva.

“EROS Dal tempo del caos non si è visto che sangue. Sangue di uomini, di mostri e di dèi. Si comincia e si muore nel sangue.
TÀNATOS Che per nascere occorra morire, lo sanno che gli uomini. Non lo sanno gli olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprime un fiore distruggono un uomo.”

Questo libro, questo fiore che è costato la vita di Pavese, davvero meriterebbe più attenzione, anche solo una giustizia postuma. Da parte mia, uno dei libri più intensi e belli che mi sia capitato di leggere e che avrei voluto trasmettervi con molta più passione. Ma ahimè, posso solo chiedervi di fidarvi.

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Camus, Caligola
Leopardi, Operette morali
Frazer, Il ramo d'oro
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Dialoghi con Leucò 2013-03-14 10:49:46 vitolorenzodioguardi
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vitolorenzodioguardi Opinione inserita da vitolorenzodioguardi    14 Marzo, 2013
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Le radici del mito nell'animo di ogni uomo...

Libro eccezionale di un autore eccezionale. Cesare, in quest'opera, trova quello che ha sempre cercato. Il suo dialogo con le figure della classicità, ninfe, eroi antichi, miti e figure mitologiche, dimostra la grande conoscenza e il grande amore per la storia antica (greco-romana) ma anche l'intensità della riflessione filosofica del Novecento con un marcato bisogno di capire le radici dell'essere umano che proprio il dialogo con Leucò potrebbe svelare. Comunque è un libro che o semplifica certi passaggi mentali o li drammatizza. Indifferenti non lascerà nessuno, la loro portata è veramente stravolgente. Da leggere assolutamente!!!

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Tutti gli autori del Primo Novecento (se non altro per rilevare il "contrasto") e in particolare Pasolini (per rilevare l'affinità di laico affascinato dalla fede - come teologia e filosofia, come Vangelo, come messaggio) - e non dall'Istituzione).
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