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Un risorgimento non retorico
Non è facile per uno scrittore che va controcorrente ritagliarsi una collocazione nell’olimpo letterario e ancor di più lo è stato per Luciano Bianciardi, con quella visione critica, frutto dello spirito anarchico, con la quale osservava il mondo circostante.
Amava il Risorgimento, ma non quello falso e retorico che ancor oggi si insegna nelle scuole, ma la parte più scomoda di questo, cioè quella garibaldina, mazziniana e rivoluzionaria.
Questo gioiellino, che ho appena terminato di leggere, ne è un chiaro esempio ed è costituito da due racconti lunghi che hanno come tematica, rispettivamente, le cinque giornate di Milano e la spedizione dei mille.
Concepiti come un sogno, giacché ovviamente gli eventi non furono vissuti dall’autore, mescola sapientemente elementi dell’epoca ad altri più attuali, con una vena ironica che non potrà che stupire.
Sì, perché nel raccontare del passato, descrive anche il presente, che non può accettare, circostanza questa che l’ha sempre reso inviso al potere.
Scrive, a proposito delle cinque giornate di Milano “In questi cinque giorni di disordine ha regnato in città un ordine nuovo, spontaneo, entusiastico. Basti pensare che non è stato segnalato un solo caso di furto. Milano stava vivendo un clima morale del tutto nuovo. I ladri han ricominciato a rubare non appena è stato ristabilito il rispetto della proprietà".
Il concetto è tanto più evidente quando osserva che, cacciati gli austriaci, le istituzioni ripreso sovrane, con una progressiva disaffezione dei milanesi, che al ritorno di Radetsky ne furono contenti, tanto più che questi non fece rappresaglie, limitandosi intelligentemente a sanzionare grosse ammende ai più facoltosi, circostanza che indusse il popolo a credere che fosse ripristinata un po’ di quella giustizia ed eguaglianza che era stata presente solo durante le cinque giornate, cioè fino a quando era durata la rivoluzione.
Bianciardi non nasconde una spiccata simpatia per Garibaldi, visto come un’idealista e fautore della rivoluzione permanente, e nello scrivere della spedizione dei mille fa emergere chiaro il suo disprezzo per la dinastia sabauda, già approcciato nel racconto delle cinque giornate, con una descrizione di Carlo Alberto e dell’entourage piemontese del tutto impietosa.
Ripercorriamo così le storiche vittorie dell’eroe dei due mondi, da Calatafimi al Volturno, su cui aleggia però sempre l’ombra sinistra dei Savoia.
E, anzi, in occasione dell’incontro di Teano, procede ad un’acuta osservazione, ribaltando tutta la storiografia ufficiale e trovando una logica spiegazione non solo dell’attuale arretratezza economica del meridione, ma anche della sfiducia di questo nelle istituzioni.
Tengo a precisare, peraltro, che in questo non dice nulla di nuovo di quanto già gli storici non allineati non sappiano, ma è come lo dice, evidenziando la stortura secondo la quale il Regno delle Due Sicilie, più progredito rispetto al Piemonte, in breve tempo si vide depauperato, burocratizzato e, diciamo pure la verità, schiavizzato. Ai meridionali non restò che la ribellione, fatta passare per brigantaggio, e che scatenò una repressione generalizzata, in pratica un vero e proprio genocidio.
E’ un libro che si legge con immenso piacere, che fa meditare e che consacra, qualora ancora qualcuno avesse dei dubbi, la grandezza letteraria e umana di Luciano Bianciardi.