Narrativa italiana Racconti di viaggio Napoli. Nostalgia di domani
 

Napoli. Nostalgia di domani Napoli. Nostalgia di domani

Napoli. Nostalgia di domani

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Napoli è uno di quei luoghi che ciascuno crede di conoscere anche se non li ha mai visti. Un immaginario spesso ideologico, fatto di stereotipi, di racconti ossificati, di un'infinita aneddotica. La città si giudica continuamente e viene continuamente giudicata. Sconta il pessimismo indulgente che non di rado gli stessi «nativi» si cuciono addosso e sconta la lontananza culturale, arcigna o paternalistica, di chi la osserva dall'esterno. Di Napoli, Paolo Macry tocca le nervature profonde, ripercorre i segni di un tessuto urbano bimillenario, i comportamenti di lungo periodo della popolazione. Insegue le fratture drammatiche della sua storia, le esperienze politiche che l'hanno segnata, fino alle vicende di tre sindaci-sovrani, Lauro, Bassolino e de Magistris. Ci trasmette la suggestione di una città difficile e mai rassegnata. Napoli, per chi voglia conoscerla, capirla, ritrovarla, continua a essere un mondo. Un mondo da pensare. O forse un modo di pensare.



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Napoli. Nostalgia di domani 2018-12-02 11:42:57 lego-ergo-sum
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    02 Dicembre, 2018
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NAPOLI OLTRE LA NAPOLETANITA'

Lo sguardo di Macrì è quello di uno storico che non esita a dichiarare il suo amore per la città, alla quale approdò da giovane ricercatore per poi subirne, come tanti, il fascino: nella parte iniziale e in quella conclusiva, infatti, la autobiografia si innesta sulla narrazione storica, esemplificandola e arricchendola con notazioni personali.
Uno sguardo che mira a sfatare, attraverso una efficacissima sintesi, il cliché di una Napoli fuori dal tempo, fissa nei suoi stereotipi, e a sostituire il concetto astratto e fuorviante di “napoletanità ” con la graduale stratificazione storica da cui la città ha mutuato le sue specificità. E vale la pena sottolineare che alcuni interventi recenti, come quelli di Raffaele La Capria e di Antonio Polito, si muovano nella stessa direzione, fino a manifestare un fastidio per la categoria della “napoletanità”, che tende ad incasellare scrittori e giornalisti napoletani e a sottoporli ad una omologazione che cancella i tratti distintivi della loro personalità e i caratteri “universali” della loro opera.
Già l’esame delle “pietre”- i palazzi, i conventi, le strade che ciascuna epoca ha lasciato in eredità- fornisce utili indicazioni al riguardo. Il “padre tufo” delle mura greche di piazza Bellini o dell’antro della Sibilla, che si ripropone in epoche successive, segna un primo tratto identificativo dell’immagine urbana. Ancor più determinante il “marchio greco-romano”, con il suo intersecarsi di decumani e cardini sul modello greco, che impone, fin dalle origini, la persistenza degli spazi stretti e della vicinanza abitativa come costanti urbanistiche e, di riflesso, antropologiche. Su questa preesistenza va a collocarsi, senza sostanzialmente turbare l’antico impianto urbano, la schiera delle costruzioni angioine, mentre tra Cinque e Seicento, con l’avvento del vicereame spagnolo in particolare, si avvia quel disordine edilizio, quella “corale opera di sfruttamento e di infittimento del tessuto urbano” che condizionerà da allora tutta la storia partenopea, con forme, pur diverse nel tempo, di congestione urbana e di quello che oggi chiamiamo “traffico”. Si assiste così alla trasformazione di una metropoli spontanea e sregolata, costretta, per far fronte alla emergenza demografica, a svilupparsi in dimensione verticale, a convivere con l’abuso edilizio, tacitamente consentito, e con una più generale cultura della illegalità, destinata a protrarsi fino ai nostri giorni.
In questo corpo malato, ma vitale, il popolo non è affatto assente, ma anzi protagonista, sia pure contraddittorio e imprevedibile. Esso vive alternando, come il suo vulcano, fasi di silenzio e di torpore solo apparente, a bruschi e drammatici risvegli, che lo vedono ora protagonista attivo con la rivolta del 1647, la controrivoluzione antigiacobina del 1799, le Quattro giornate, ora soggetto passivo -ma per nulla inerte- in altri trapassi storici, come quello realizzatosi tra regime borbonico e stato unitario. E’ un popolo, quello napoletano, che sa trovare infatti, negli interstizi di una storia drammatica e di uno sviluppo economico inadeguato, modi e strumenti peculiari per sopravvivere, pur nella povertà di risorse, nella distanza incolmabile con le élites cittadine, nella carenza di senso civico e nella debolezza e/o assenza di classi dirigenti all’altezza. Una via d’uscita è, ad esempio, la “giostra”, come la definisce Macrì, cioè quella struttura economica che percorre la storia cittadina e ancora perdura ben oltre l’unità e la fine di Napoli capitale, resa ancor più necessaria dalla cessazione dell’assistenzialismo borbonico e dal venir meno dei vantaggi derivanti dall'avere una corte. Si tratta di quel piccolo, talora infimo commercio, attraverso il quale le poche risorse disponibili comunque girano, passano di mano in mano, si redistribuiscono. Ancora nell’Italia giolittiana e prefascista Nitti avrà modo di notare che “ i napoletani vivono sui napoletani”.
In questo grande mercato che si protrae attraverso epoche diverse, tutto può essere oggetto di scambio e lo stesso credito si parcellizza in microcredito, scivolando talora nell’usura, e facendo dei napoletani un popolo di “tutti debitori”, dove il padrone di casa dilaziona l’affitto agli inquilini e il bottegaio vende la sua merce tenendo in sospeso il conto. Situazioni destinate a diventare “topoi” della commedia o della farsa napoletana, dalla visita del proprietario in Miseria e nobiltà, al quaderno sul quale la coppia di pizzaioli de L’oro di Napoli annota le pizze prese a credito dagli abitanti del quartiere ("qua si mangia e nun se paga"...): scene di comune “napoletanità”, arte minuta di arrangiarsi, economia del vicolo, realistica misura delle risorse disponibili e solidarietà tra tutti coloro che sono attaccati a questo “scoglio” che è la città. Si tratta di soluzioni estemporanee e a loro modo creative, che si esasperano nelle fasi di crisi più profonde, come la caduta dei Borboni o il secondo dopoguerra, disegnato splendidamente da Macrì con i suoi tratti drammatici, infernali, ma sempre vitali in virtù di uno stile che, senza sacrificare nulla alla oggettività del racconto, non nasconde sentimenti di umana condivisione e sa distendersi in pagine di godibile intensità. L’autore ha il merito di aver ricondotto l’oleografia e il colore partenopei ad una radice socialmente identificabile e storicamente interpretata, restituendoli al grande mare della storia, e cogliendo quel delicato equilibrio tra persistenza e trasformazioni, continuità e innovazione, tradizione e modernità, su cui la città tuttora si regge.
Un intero e illuminante paragrafo viene dedicato al “microcosmo” della fortuna: le carte, i dadi, soprattutto il lotto che, importato nel 1692, finisce col divenire parte non solo della vita sociale e dell’immaginario collettivo, (una commedia per tutte: “Non ti pago” di De Filippo), ma anche della stessa economia cittadina, determinando la perdita di grosse fortune, ma anche riflettendo le stesse pratiche creditorie presenti in altri settori del commercio, come la puntata minima legale divisa in carature tra più giocatori o le puntate a credito, saldate solo in caso di vincita. Non mancano cenni al mercato sommerso, che sfugge, in parte volutamente, al controllo legale e fiscale, o riferimenti alla mediazione a pagamento effettuata tra gli uffici dello stato e la gente, attraverso la quale il diritto si trasforma in favore personale, il cittadino in suddito e sottoposto, in un quadro di corruzione e di latitanza di regole e leggi.
In questa giostra si incunea la camorra che, prelevando denaro da qualsiasi transazione, riesce ad estrarre, alle sue origini, “l’oro dai pidocchi”.
Con le dovute prese di distanze, Macrì non può evitare di notare come la criminalità organizzata, dai magliari e contrabbandieri alla camorra moderna, abbia costruito reti economiche e finanziarie che oggi si direbbero “glocal”, attraverso le quali la merce e le ricchezze navigano tra la città e alcuni suoi quartieri da una parte, e la mafia siciliana, o la 'ndrangheta, o la criminalità marsigliese dall’altra. Lo storico inserisce queste descrizioni e queste osservazioni illuminanti nel capitolo sulle intelligenze della città, sottolineando come lo stesso versante criminale, in forme ovviamente inaccettabili, sia capace di precorrere alcune caratteristiche della modernità, fondendo la dimensione strettamente locale con quella globale e multinazionale: “Sia pure in versione diabolica, torna l’immagine di una città tenacemente concentrata su se stessa e altrettanto tenacemente attratta dal mondo”.
Ma anche se ci si sposta sul versante politico più strettamente contemporaneo, la città sembra sempre ben radicata, sia pure a suo modo, nella grande storia e nelle trasformazioni epocali e di “lunga durata”, fino ad anticipare addirittura i tempi.
Illuminante al riguardo il capitolo sui “sovrani repubblicani”, i sindaci della città che sembrano rinnovare, nelle forme della democrazia locale, l’attaccamento storico del popolo napoletano alla figura del “monarca”, dall’armatore Achille Lauro all’ex comunista Antonio Bassolino, fino all’attuale sindaco De Magistris, con il quale Napoli sembra precorrere la ventata populista destinata di lì a poco ad investire l’intero paese (ma anche la sindacatura del “comandante” precorreva forme di populismo molto vicine a quelle che oggi si vanno affermando).
Molto stimolante anche il capitolo sulla “identità debole”, quella miscela di insicurezza, refrattarietà all’autocoscienza delle proprie debolezze, inadeguatezze e insufficienze, che spinge spesso la città, con ricorrenze puntuali, a condannare ed avversare gli intellettuali che “ne parlano male”, da Matilde Serao a Curzio Malaparte, da Annamaria Ortese a Roberto Saviano. Un atteggiamento che salda popolo e settori consistenti delle classi dirigenti, in nome di un orgoglio di appartenenza, di un patriottismo malinteso, che impediscono un’analisi severa e inficiano o rallentano la possibilità di un riscatto. Ed ecco un’altra consolidata ricorrenza del carattere napoletano, che oscilla tra l’autocritica autodistruttiva e il disfattismo da una parte (che poi finisce per fornire argomenti per la costruzione di una città solo “immaginata” e tutta al negativo) e dall’altra il rifiuto delle voci critiche che si levano dal suo seno, ora alimentandone una visione surreale e deformante (“La pelle”), ma altre volte cogliendone i nodi cruciali dell’illegalità, cui consegue l’impossibilità di un sano sviluppo socioeconomico (“Gomorra”).
E’ singolare come appena un anno fa il saggio su Napoli di Paolo Frascani, con il suo “viaggio nella città reale”, si muovesse in una direzione non dissimile, pur privilegiando il fattore economico e il periodo storico contemporaneo, per sottolineare come Napoli possegga gli anticorpi con i quali essa sa reagire alla propria fragilità e alla inadeguatezza delle sue classi dirigenti. Anche lì un’analisi dalla quale emergeva una città bifronte, ma comunque capace di soluzioni innovative, in grado potenzialmente di proiettarla nel futuro, attraverso una sintesi tra tradizione e innovazione. In quel “potenzialmente” avrebbero un ruolo dominante la politica, le classi dirigenti, le élites culturali e le loro capacità di fare sistema e sfruttare nel modo migliore l’oro di Napoli. Il vero oro di Napoli.
Saggi dunque costruttivi, utili a coloro che ambiscono a guidare una realtà difficile e complessa, ai quali si dovrebbe richiedere una ricognizione culturale, economica e storica che sia Macrì che Frascani sarebbero in grado di fornire, consentendo loro di operare in base ad un progetto e ad una visione che invece tardano a manifestarsi.

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Paolo Frascani, Napoli, viaggio nella città reale, ed. Laterza
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