La montagna nuda La montagna nuda

La montagna nuda

Letteratura italiana

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Il Nanga Parbat, ovvero la Montagna Nuda, è alto 8125 metri ed è da decenni il sacro Graal dei migliori alpinisti. Negli anni '30 Willy Merkl tentò la salita e morì. Il suo fratellastro, Karl Herrligkoffer, ne fu ossessionato e tentò più volte di "conquistare" la montagna in nome del fratello. Nel 1970 programma con i fratelli Messner di raggiungere la cima dal versante Rupal. E la storia si ripete: Reinhold e Gunther Messner sono i primi a salire lungo quella via ma sono costretti dal maltempo a scendere lungo il versante opposto, il Diamir: Gunther perderà la vita travolto da una slavina. I tragici ricordi non abbandoneranno mai Reinhold che, dopo trent'anni, decide di raccontare la sua versione dei fatti.



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La montagna nuda 2017-09-01 07:58:54 Vincenzo1972
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    01 Settembre, 2017
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Il sacro Graal dell'alpinismo mondiale

Reinhold Messner: credo non abbia bisogno di presentazioni e ritengo lo si possa considerare senza ombra di dubbio il più grande alpinista di tutti i tempi, protagonista di imprese titaniche al limite di ogni capacità umana e vissute sempre con incomparabile determinazione e con profondo rispetto del suo grande e maestoso rivale: la montagna.
Oltre ad essere l'unico alpinista, sinora, ad aver tentato e completato con successo la scalata dei '14 ottomila', ossia le 14 montagne che superano gli 8000 metri sul livello del mare, è l'unico ad averlo fatto con uno stile di arrampicata libera che prevede un equipaggiamento ridotto al minimo indispensabile, senza ossigeno supplementare, e spesso anche in solitaria: solo lui e la montagna, Davide contro Golia.
Ma probabilmente pochi sanno che Messner è anche scrittore, direi anche molto prolifico, avendo pubblicato più di cinquanta libri ovviamente tutti accomunati dalla sua grande passione per l'alpinismo di alta quota.
'La montagna nuda' risale al 2004 ed è forse il migliore tra i libri di Messner perchè lascia trasparire anche le debolezze di un uomo dalla tempra granitica, dalla personalità decisa ed irremovibile come la roccia su cui si arrampica.
Penso che la montagna sia talmente importante per Messner da rappresentare per lui non solo una sfida continua ma una vera e propria compagna di vita: è come se vivesse in simbiosi con la montagna, un legame indissolubile che ha forgiato il suo carattere più di quanto abbiano potuto fare le sue origini altoatesine.
E, chissà, forse anche per questo motivo i suoi libri trovano largo seguito solo tra gli appassionati del genere: non sono certo opere che brillano per la loro valenza letteraria, il suo stile di scrittura è sobrio, rigoroso, spesso farcito di tecnicismi che lo rendono quasi impersonale, freddo come l'aria in alta quota.
E' come quando un bambino scalpita dal desiderio di raccontare l'avventura straordinaria che ha appena vissuto e con le immagini ancora negli occhi cerca di descrivere quelle emozioni con parole che non riescono a seguire la velocità dei pensieri, dei ricordi che si susseguono nella mente: e il risultato è una sorta di cronaca accelerata, nomi di sentieri e pareti rocciose si alternano a nomi di compagni di scalata, campi base e piani di attacco mentre si procede giorno dopo giorno, passo dopo passo, verso la meta, e quanto più la vetta si avvicina tanto più il corpo sembra cedere stremato dalle condizioni ambientali proibitive.
Non sono romanzi quelli che scrive Messner, non c'è una trama da inventare o personaggi da costruire, sono diari di viaggio, scritti quasi di getto raccogliendo dalla memoria tutto ciò che è rimasto impresso di quei giorni trascorsi al di sopra delle nuvole, a pochi passi dal cielo.
Tuttavia, 'La montagna nuda' si distingue dagli altri libri di Messner perchè stavolta non è solo il grande alpinista che ci racconta la sua ennesima vittoria contro la montagna ma c'è anche l'uomo Messner che su quella montagna perde il fratello, il suo compagno di cordata e l'uomo con cui sin da piccolo aveva condiviso la passione smisurata per l'alpinismo.
"La traversata del Nanga Parbat nel 1970, da sud a nord-ovest, è stato per me molto più che un passaggio in senso geografico. E' stato come il superamento del confine, dall'al di qua all'al di là, dalla vita alla morte, dalla morte alla vita."
Il Nanga Parbat, 8125 metri sul livello del mare, 'il sacro Graal dell'alpinismo mondiale', chiamato con diversi nomi tra cui la Regina delle montagne o la montagna del destino, a causa della sorte tragica di coloro che ne avevano tentato la scalata; persino le popolazioni indigene che popolano le sue valli ritengono sia la sede di divinità maligne ed ostili all'uomo.
Ma come dirà Reinhold: 'se è diventata la montagna del destino, non è perchè sia dominata da un demone, ma perchè è infinitamente più grande di noi uomini'.
Nel maggio del 1970, Reinhold Messner e suo fratello Günther vengono convocati insieme ad altri alpinisti di grande esperienza per la spedizione al Nanga Parbat organizzata dal tedesco Karl Maria Herrligkoffer.
L'obiettivo è quello di raggiungere la vetta attraverso la parete Rupal, sino ad allora inviolata.
Una parete rocciosa che impressiona anche solo guardarla nella foto di copertina. Ecco come la descrive Messner:
"La parete Rupal! Bisogna immaginarsela: la parete est del monte Rosa con sopra la parete nord dell'Eiger e piazzato sopra tutto il Cervino. La parete Rupal non è immaginabile, non lo è per quelli che non l'hanno vista! Fin dall'inizio questo versante gigantesco ha impressionato tutti coloro che gli sono arrivati vicino."
Dopo diversi giorni di preparativi, resi estenuanti a causa delle avverse condizioni atmosferiche che non consentivano l'inizio della scalata partendo dall'ultimo campo base allestito ad oltre 7000 metri, fu proprio Reinhold che a pochi giorni dall'ultima data utile prima del rientro della spedizione decise di iniziare l'impresa in solitaria, essendo il più esperto tra i suoi compagni.
Gunther, tuttavia, animato dalla stessa risolutezza del fratello, riuscì a raggiungerlo percorrendo in sole quattro ore la via che Reinhold aveva aperto, potendo così stringergli la mano mentre entrambi gioivano per quella strepitosa meta conquistata: la vetta del Nanga Parbat.
E sono rimasto meravigliato per le poche parole, poche righe, che Messner ha dedicato alla descrizione di quel momento, l'unico istante di esultanza e felicità, rispetto alle pagine seguenti del libro in cui l'autore rivive con minuzia di particolari le difficoltà incontrate dai due fratelli nella discesa della parete, la scelta obbligata ma poco prudente di un percorso alternativo sul versante Diamir che ha vanificato ogni tentativo di soccorso da parte degli altri componenti della spedizione, sino al tragico epilogo con la morte di Gunther sepolto da una valanga di neve.
Sono pagine che si leggono con trepidazione, impossibile non percepire la sofferenza patita prima per il freddo, per la mancanza di aria, per la progressiva ipotermia che rendeva arduo ogni minimo movimento, poi la disperazione, il senso di smarrimento, la paura di rimanere abbandonati nella sconfinata solitudine di quella parete di ghiaccio e roccia.
E quando sembrava che quell'incubo fosse finito, quando la via del ritorno sembrava più vicina, più raggiungibile, ecco la consapevolezza di aver perso il fratello.
Reinhold, con i piedi ormai congelati (gli verranno poi amputate sette dita), in preda ad allucinazioni e quasi completamente disidratato, riuscì a salvarsi miracolosamente grazie all'aiuto di alcuni indigeni, appena giunto nella vallata ai piedi del versante Diamir.
Tralasciando le varie polemiche che hanno preceduto la pubblicazione di questo libro e le accuse infamanti che taluni hanno rivolto a Messner colpevolizzandolo di aver sacrificato il fratello spinto dall'ambizione personale e dalla volontà di portare a termine quell'impresa ad ogni costo, non posso che rimanere affascinato dal coraggio e dalla fermezza di quest'uomo che sembra voler arrendersi solo dinanzi alla morte.
Sono molto intense le pagine finali del libro, quelle che descrivono la tragica discesa lungo il versante Diamir, e la descrizione di quei momenti è così sofferta che è inevitabile divenire partecipi di quel disagio fisico e mentale, la coscienza di aver raggiunto il limite delle proprie possibilità, uno stato di precario equilibrio tra la vita e la morte così accentuato da percepire una parte di sè che si estranea dal corpo stremato e lo osserva dall'alto mentre arranca nella neve, strisciando, centimetro dopo centimetro.
E tutto ciò in totale solitudine, su un paesaggio che di terrestre ha ben poco, senza colori se non il bianco e il nero, bianco per la neve e nero per l'oscurità che avvolge la vista quando la nebbia si dirada da quella gigantesca parete rocciosa mostrando il vuoto assoluto:
"Ogni risveglio è come uno sguardo in una profondità senza fine: sotto di noi, come un risucchio, un'unica parete a strapiombo. Che baratro!"

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