L'albero del riccio L'albero del riccio

L'albero del riccio

Letteratura italiana

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Questo libro contiene storie delicate e avventurose insieme che parlano di briganti e di animali, di ricci, di volpi, di cavalli, di passeri, di struzzi e di pappagalli. L'autore, Antonio Gramsci, le scrisse per i propri figli mentre si trovava in carcere dove era stato rinchiuso dal regime fascista: non si voleva - fu detto - che una mente tanto fervida come quella di Gramsci potesse comunicare al popolo i propri pensieri. Sono storie narrate non direttamente, ma lettere, inviate ai figli o alla moglie o alla cognata. Sono in pratica affascinanti racconti che narrano episodi di vita, molti veri, adatti ai ragazzi e ai giovani lettori.



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L'albero del riccio 2015-02-10 22:02:14 siti
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siti Opinione inserita da siti    11 Febbraio, 2015
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Un insegnamento prezioso

Con il linguaggio semplice della fiaba, con la sua istintiva e recondita anima pedagogica, con il suo insegnamento per la “brava gente”, alternando lettere ai figli a storie della sua infanzia sarda e a racconti di grandi autori, Gramsci parla.
Parla anche se qualcuno sentenziò che fosse meglio farlo tacere mandandolo prima al confino e poi in carcere salvo scarcerarlo, malato, poco prima della morte.
Nel libro sono raccolte molte lettere scritte ai figli Delio e Giuliano, alcune alla cognata e alla moglie, altre alla sorella e alla madre. Le lettere sono intervallate da preziose letture: racconti di Puskin, Kipling, Tolstoj e altri.

Nonostante sia lui in carcere, è palpabile in ogni riga la preoccupazione per i suoi cari: la famiglia in Russia e quella originaria a Ghilarza, in Sardegna. È una preoccupazione che non è mai autocommiserazione ma sempre, seppur velata da dispiacere e disappunto, la preoccupazione di un babbo.
Trapela in ogni missiva la volontà di tenere agganciata la sua famiglia e soprattutto di trasmettere ai figli, lui bambino figlio di un carcerato percepito come assenza, la sua presenza. Si firma per lo più Antonio: il primogenito lo ha conosciuto per brevi periodi , il secondogenito non lo ha neanche mai visto di persona. Ma lui è il babbo, a lui spetta la loro educazione e le lettere testimoniano oltre alla difficoltà a mantenere una reale corrispondenza, la volontà ferma di essere la loro guida.
Si comporta come un grande educatore. Invita i figli a “non guaire come un cagnolino da latte”, a non cedere ai lamenti ma di forzarsi a stare seduti e a pensare per maturare un vero senso di responsabilità grazie allo studio. Comunica questo ai figli progressivamente restituendo loro un padre bambino e fanciullo con una storia personale non semplice ma con una forza d’animo invidiabile. Un bambino che già da piccolo, provato dalla vita, nascondeva le sue lacrime alla mamma, donna capace di instillare in lui un credo pedagogico valido e universale che lui ha cercato di trasmettere ai suoi figli.
Noi abbiamo solo il dovere, tramite Gramsci e questa lettura, di instillarlo anche nei nostri ragazzi per perpetrare l’idea di un’educazione votata al rigore con se stessi, alla tenerezza amorevole, alla guida autorevole.

“...ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore di bene o di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo...”

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