Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Letteratura italiana
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Un ritorno, tante illusioni.
Il commissario Ricciardi della Squadra Mobile della regia questura di Napoli è uno dei personaggi preferiti di Maurizio De Giovanni ed è il protagonista di questo "Volver", quindicesimo giallo della serie. Ricciardi è preoccupato, e non a torto. Siamo nel 1940, in estate, ed i tempi sono oltremodo difficili. La guerra è alle porte, è stata dichiarata a Francia e Gran Bretagna, sulle ali di un illusorio entusiasmo da parte di Mussolini. Ma il nostro commissario è preoccupato soprattutto per i suoceri, di religione ebraica, passibili di persecuzioni: mette allora in atto una via di fuga, trasferendoli, con l'adorata figlia Marta, a Fortino, tra i monti del Cilento, dove ha residenza e possedimenti e dove è ancora stimato e riverito. Lascia quindi il lavoro mentre altri eventi si susseguono. Un'artista italiana trasferitasi in Argentina, Livia, sente nostalgia per il paese natale dove è sepolto suo figlio e, lasciando amici e lavoro, torna, accompagnata dalla nostalgica melodia di una celebre canzone, "Volver" (ritornare), che parla di un vecchio amore da ritrovare, di ricordi e di nostalgia: la donna, infatti, vuole rivedere Ricciardi, sua antica fiamma, ma non avrà molta fortuna. Intanto fallirà un attentato ad un gerarca nazista in visita al porto, e verrà messo in salvo il volontario attentatore, un medico offertosi come autore ma sicuramente candidato a morte certa. Ma ecco l'evento narrativo principale: Ricciardi vuole fare luce su un delitto di alcuni decenni prima, avvenuto proprio nei suoi possedimenti. Vuole svelare un mistero irrisolto, scoprire un dramma irrisolto da trentaquattro anni: l'uccisione di un giovane da parte di un marito, convinto che la moglie ne fosse l'amante. Molti sanno, pochi parlano, reticenti o smemorati, ma a poco a poco Ricciardi , indagando e interrogando personaggi vissuti all'epoca con pazienza e cocciutaggine, verrà a scoprire un'altra verità, del tutto inattesa e sconvolgente.
Il romanzo, nonostante gli eventi bellici terribili e la narrazione di un delitto avvenuto in un tempo che fu, segue il ritmo melodico di una canzone struggente e nostalgica: il tema è quello del "ritorno", un ritorno che non è mai quello che si vorrebbe. Un ritorno e l'illusione di cambiare le cose in meglio, l'illusione che è insieme nostalgia e speranza.
C'è l'illusione di Livia che torna in Italia sperando di ritrovare una casa, un amore perduto, una vita nuova. E ancora l'illusione del medico attentatore che vuole dare, immolandosi, un segnale di rivolta, l'illusione dello stesso protagonista, il commissario Ricciardi, che sperando di trovare tra i monti del Cilento pace e serenità, si troverà invece a scavare in un passato insidioso e pieno di imprevisti. E c'è anche, in sottofondo, la guerra dichiarata da Mussolini, che illuderà un popolo stremato a sperare in vittorie rapide e mirabolanti.
E poi, come secondo filone, il tema dell'amore. Un amore che, come sempre, non ha regole precise, andamenti regolari e prevedibili: l'amore, che viene rivelato alla fine del romanzo, ha unito in modo struggente e impetuoso, due personaggi tanto lontani e diversi, abbandonatisi al sentimento senza calcoli nè paure. Un amore che, forse, è stato solo illusione. "Chissà se si può davvero tornare...O se quello che ci illudiamo essere un ritorno è soltanto una triste, patetica illusione. L'ultima illusione". Così finisce il romanzo di De Giovanni, una conclusione amara, condita da tanta nostalgia.
Lo stile è ricco di annotazioni psicologiche, che scavano nei personaggi e li rendono vivi e ben calati nella realtà dei momenti vissuti, intrisi di risvolti drammatici ma aperti sempre alla speranza.
Sullo sfondo, il tango "Volver" (ritornare), fa da colonna sonora al romanzo, dramma e speranza si intrecciano, sottolineando l'intensità di una storia intrisa di emozioni ed illusioni.
Indicazioni utili
A conti fatti
Maurizio De Giovanni con “Volver” torna a incantare i lettori con il suo inconfondibile stile di novelliere, con penna agile, snella, potente e intensa, variabile secondo i fatti. La sua è scrittura inconfondibile, unica, tanto semplice e raffinata, intima ed elegante, comica e appassionata, deliziosa per ogni sentimento, azione e considerazione che descrive. Ci offre ogni volta un prodotto che sembra identico ai precedenti, un format consolidato e consueto, ma invece è sempre nuovo, lo rinnova e lo ricicla, non lo modifica mai nei caratteri essenziali. Ci invita invece all’osservazione di nuovi profili, ci incanta con storie sempre diverse e dai finali sorprendenti e imprevedibili. Come è noto ai lettori che lo seguono da anni con fedeltà e passione, e sono tantissimi, fidatevi, il particolare che meglio caratterizza l’agire di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario di polizia in servizio presso la Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista, è il “fatto”. Il giovane è provvisto, suo malgrado, di una spiccata sensitività e percettività, tali che avverte distintamente, e lui solo, un’aura, una luminescenza, lo spirito degli ultimi momenti di vita delle vittime di atti violenti, siano queste accidentali o compiute per mano criminale. In più, recependo distintamente, anche qui solo lui tra tanti che gli sono d’intorno, le ultime parole pronunciate dalla disgraziata vittima, l’ultimo pensiero non sconnesso prima dell’esito fatale. Come sempre accade quando si è destinatario di simili poteri non richiesti, non è un dono, ma una maledizione, di cui avrebbe volentieri fatto a meno, e che almeno agli inizi lo ha fatto più volte dubitare della propria sanità mentale. Tutta l’esistenza del giovane commissario ne è stata influenzata, nel bene e nel male, nel lavoro e negli affetti, fin dal suo primo manifestarsi quando era appena un bimbetto di pochi anni. Ricciardi se ne è fatta, durante il trascorrere di anni angoscianti, laceranti e dolorosi, se non una ragione, almeno una tolleranza, a conti fatti, con il “fatto” viene a una specie di tregua, di accondiscendenza, di paziente per quanto dolente sopportazione. Ad accettarlo no, è una pena a cui non si abituerà mai, non sarebbe umanamente possibile; tuttavia, anche con le inevitabili difficoltà e i tormenti che un simile “fatto” comporta, Ricciardi non può volgere lo sguardo da un’altra parte, non può ignorare la stortura che come un film ininterrotto si snoda continuamente davanti ai suoi occhi, non gli è possibile passare oltre, deve raddrizzare la scena, ricostruire quanto successo perché la vittima in qualche modo ritrovi la propria pace incrinata con violenza, riceva giustizia, e il suo spettro gradualmente affievolirsi. Luigi Alfredo Ricciardi è quello che diremmo un eroe positivo, ma non un uomo eccezionale; è persona buona, aperta, disponibile, comprende come pochi le difficoltà, i giri tortuosi e maligni, e le spirali in cui spesso, troppo spesso, l’animo umano finisce per involversi per i motivi eterni, sempre gli stessi, della fame, della miseria, e poi per il motore più potente di tutti, l’Amore. L’Amore che è un “fatto”, quello sì, assurdo, per cui si vive, si sopravvive, ci si salva, e ci si ammazza. Ricciardi in “Volver” è al termine di un cammino che, iniziato all’alba del giorno dopo il dolore più grande della sua vita, si snoda attraverso un trio di titoli, prima “Caminito”, poi “Soledad” e infine in questo il cui titolo significa ritornare. L’ormai ex commissario ha dato una svolta alle sue abitudini e alla sua esistenza, ha lasciato Napoli per trasferirsi nei suoi possedimenti nel Cilento, il suo è un viaggio a ritroso, anche nel tempo, se vogliamo, un ritorno che lo riporta alle sue origini, si sveste dei panni di poliziotto, indossa quelli che erano già del suo papà, di ricco nobile dell’epoca, agiato possidente di beni e poderi, un gentiluomo di campagna. Il ritornare, il “Volver”, è decisione forse sofferta, e però resasi indispensabile dallo sconcio dei tempi: prima l’abominio delle leggi razziali, poi l’entrata in guerra dell’Italia, il fascismo dilagante con le sue violenze e le sue efferatezze. Ed è un “Volver” alla grande, sono ritornati tutti, sono qui tutti presenti, come in un grande affresco su uno sfondo rurale, i soliti protagonisti di questa azzeccata e deliziosa saga di De Giovanni, tutti insieme appassionatamente: dal Brigadiere Raffaele Maione, che in combutta con l’ umanissimo Bambinella, il “femminiello” arguto, comico, brioso e divertente, si industria a modo suo per salvare la pelle al dottor Bruno Modo, tanto valente come medico competente ed empatico, quanto romantico e impacciato oppositore al regime, militante nelle file dell’antifascismo dalla prima ora. Poi le donne: certo, il suo cuore batte esclusivamente per l’eternità per l’incantevole Ernica Colombo; tuttavia, è sempre nei sogni e nei pensieri dell’ex cantante e diva del regime Livia Lucani vedova Vezzi, ora riciclatasi come Laura, affascinante cantante delle melodie argentine. Nonché la nobildonna Bianca Borgati dei Marchesi di Zisa, contessa Palmieri di Roccaspina, che ha allevato come, più e meglio di una figlia propria la piccola Marta, la deliziosa figlioletta di Ricciardi. Poi i Vaglio, le donne colonne portanti e reggenti dell’immensa tenuta cilentana, zia Rosa e l’ineffabile nipote Nelide seguita da presso da Scuotto Gaetano detto Tonino o’ Sarracino, il suo spasimante, splendido e bellissimo giovane, martire e tribolante, perso dietro il suo incredibile amore per una donna di cui tutto si può dire, tranne che è bella e aggraziata. Ancora, i suoceri di Ricciardi, Giulio Colombo e la moglie Maria, fanno la loro comparsa finanche gli scomparsi genitori di Luigi Alfredo, Marta e Giovanni. E tutta la varia umanità napoletana, sempre presente nei suoi libri, De Giovanni non dimentica mai di citare la sua città e i suoi abitanti, il popolo verace dei vicoli e dei quartieri, sofferente e tribolante per le folle decisioni di Mussolini. Insieme a loro, altri personaggi nuovi, altrettanto intriganti e funzionali alla storia. L’ex commissario si imbatte in quello che oggi diremmo un cold case, un omicidio avvenuto proprio nei luoghi dove bimbetto ebbe diretta rivelazione per la prima volta della sua ambigua e sconcertante capacità. Luigi Alfredo non vuole ombre sul suo passato, inizia a indagare, incontra perciò strada facendo Teodoro Angrisani, maniscalco, fedele fittavolo, preciso e puntuale nei pagamenti, dedito al lavoro e ai figli; la sua sventurata madre Annina, massacrata di botte dal marito per motivi di onore e presunto adulterio, l’ex medico amico di famiglia Pasquale Persico, la maestra Giovanna, l’incredibile vecchissima zia Filomena, sordomuta, che in splendida sintonia comunicativa, si intrattiene in lunghi, logorroici racconti con la piccola, ineffabile Marta. “Volver” è un ritorno all’antico, Luigi Alfredo Ricciardi torna da dove era partito, perché vedete, fa parte di quei personaggi talmente riusciti, di tanta felice intuizione, che oramai vivono di luce propria, non si fanno più raccontare, raccontano loro in prima persona. Perché quello che li muove, è l’Amore: l’amore di chi li scrive, di chi li legge, di chi li segue, di chi li ama. L’amore che quando arriva, arriva: non guarda in faccia a nessuno. Per cui, chissà, anche Luigi Alfredo Ricciardi nel suo ritornare ha ritrovato l’Amore. Per una donna, certo, anche se con altre sembianze. È un fatto.