Una stella senza luce
Letteratura italiana
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Invito al cinema con delitto
Settembre 1935, Torino: Anita Bo, la procace e vulcanica dattilografa della casa editrice Monnè (che pubblica il mensile Saturnalia di polizieschi americani) è ancora eccitata per essere riuscita a scoprire l’autore dell’ultimo crimine in città. Assieme al suo capo Sebastiano Satta Ascona, dopo aver individuato il colpevole, ahimè protetto del regime, ha denunciato il crimine sulla rivista in un racconto a firma dell’immaginario J.D. Smith. Quasi senza soluzione di continuità ora le si offre una nuova emozionante occasione; inaudita. Il famoso regista Leo Luminari, autore del film “Cirano”, premiato al festival di Venezia qualche anno prima, è tornato a Torino per girare una pellicola che metta in risalto la sua amata città. Ma la cosa stupefacente è che ha chiesto a Satta Ascona di fargli da sceneggiatore. Di più: forse Anita potrebbe pure avere la parte della protagonista.
Ma questo è un romanzo giallo e, inevitabilmente, ci scappa il morto. Per la sfortuna di Sebastiano e Anita, a essere assassinato è proprio colui che tutti loro vorrebbero vivo. Così il duo si trova nella necessità di avviare una nuova indagine “sotto traccia”, per scoprire come siano andate effettivamente le cose e, se possibile, per togliere dalle peste coloro che la troppo spiccia indagine di polizia, influenzata dai gerarchi, rischia di incolpare ingiustamente.
Questo è il terzo romanzo dell’improbabile coppia di investigatori che, invece di assicurare alla giustizia i colpevoli, cerca di denunciarli raccontando i loro crimini in novelle poliziesche, spacciate per storie tradotte dall’inglese. La formula, di per sé, continua a funzionare. Lo stile della Basso è fresco e arioso e se, nel suo procedere scanzonato e colloquiale, può apparire magari eccessivo e troppo informale, è comunque un marchio di fabbrica che contraddistingue la narrazione e la rende divertente e spiritosa. La storia, quindi, alla fine risulta di piacevole e scorrevole lettura; distensiva. Buona, come al solito, l’ambientazione storica in una Torino vintage, ancora centro vitale e dinamico del Paese, piena di iniziative e di una media borghesia operosa e attiva. I personaggi, poi, ormai pienamente definiti nelle loro peculiarità, sono ben scelti e tratteggiati. Non guasta neppure quel lieve sentore di romanticismo
che fluisce sotto la trama principale.
Tutto bene, quindi? Purtroppo no. Più che nelle precedenti storie, in questa appare maggiormente lo stampo naïf della trama che risulta eccessivamente ingenua e banalmente scontata: molti, troppi sono i luoghi comuni sfruttati e i cliché adottati in modo acritico.
Inoltre il ruolo da “primula rossa” rivestito da Anita e Sebastiano appare assai poco credibile, forzato o semplicistico. L’importanza che i due attribuiscono ai loro scritti anti regime mi sembra decisamente sovrastimata, ma se anche fosse davvero così disturbante viene da chiedersi come mai la tanto temuta censura continui a ignorarli.
In generale sembra improbabile che molte delle vicende narrate potessero realmente verificarsi (siamo a Torino non a Topolinia!). Anche i vari comportamenti dei personaggi appaiono artefatti. La schematicità e prevedibilità che Sebastiano imputa alle storie del commissario Bonomo (che lui è costretto a scrivere per compiacere il regime) sembra essersi trasfusa in quelle dell’A.: i buoni sono tutti scaltri, ricchi di inventiva e fortunati nelle loro iniziative, i “cattivi” tutti ottusi, irreggimentati e scontati nelle loro reazioni pletoriche. Non posso scendere, per ovvi motivi, nell’esemplificazione pratica. Basta dire, però, che non si comprende come, se certe intuizioni vengono a coloro che parteggiano per il duo investigativo, nessuno di quelli che dovrebbero controllare e, se del caso, reprimere le “deviazioni” dalla linea di condotta autorizzata, ci arrivi vicino, neppure per caso fortuito. Insomma i fascisti appaiono come i personaggini delle Sturmtruppen di Bonvi e ciò, alla lunga, disturba e irrita un poco. Inoltre l’A. sembra ignorare che anche sotto il ventennio la pubblica amministrazione (in tutte le sue ramificazioni) aveva continuato a funzionare regolarmente anzi in maniera ancor più efficiente.
Mi rendo conto che in un romanzo dai toni leggeri della commedia esistano delle convenzioni non scritte che proteggono i protagonisti a danno degli antagonisti, ma altri autori hanno saputo destreggiarsi meglio in situazioni simili.
Il finale, poi, assurge a un climax di incredibile inattendibilità. Le “trovate” di Amelia e Sebastiano semplicemente non avrebbero potuto funzionare mai, in nessuna epoca e nessuna situazione; anzi, con ogni probabilità, si sarebbero ritorte contro gli autori stessi. Anche in questo caso una esemplificazione rischierebbe di “spoilerare” la conclusione della storia, ma l’happy end prefabbricato e appiccicato sbrigativamente è inverosimile e, sotto molti aspetti, insoddisfacente e un po’ fastidioso.
Precisato quanto sopra, se chi legge sospende totalmente ogni senso critico e si fa trascinare dalla storia in modo pedissequo, allora il romanzo resta del tutto gradevole e divertente, con quel sagace miscuglio di thrilling, umorismo, romanticismo e nostalgia. Ideale per una distensiva lettura in poltrona staccando la spina.
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Aggiungo una postilla indirizzata, soprattutto, all’A. (che quasi certamente mai leggerà queste righe!). Come d’abitudine la storia si conclude con una postfazione che cerca di fornire qualche riferimento storico a chi vorrebbe approfondire gli argomenti trattati e che vorrebbe spiegare alcune situazioni e le strizzatine d’occhi che punteggiano la narrazione.
Pazienza per il primo scopo; può effettivamente essere utile a chi non ha altre fonti di ispirazione per la ricerca, anche se le bibliografie fornite non sono certo risolutive. Decisamente negativo il secondo motivo: per chi ha compreso la battuta, il riferimento o la citazione, l’esito finale della precisazione ha lo stesso gusto di un piatto di spaghetti restato in acqua cinque minuti di troppo. Agli altri probabilmente sembrerà come la spiegazione di una barzelletta: insoddisfacente e, comunque, tardiva.
Quindi, per il futuro, meglio evitare: il lettore non desidera essere guidato come un bimbo sulle strisce pedonali. La strada da percorrere preferisce scegliersela di persona. A proprio rischio e pericolo.
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Il fascino del cinema
Alice Basso torna con il suo personaggio di carta, la dattilografa Anita, in un libro intitolato Una stella senza luce. Un bel giallo, ricco di atmosfera d’antan.
Siamo a Torino nel 1935. Anita lavora per “Saturnalia”, una rivista che pubblica racconti gialli, ed è una dattilografa. Un giorno in redazione arriva Leo Luminari, un grande regista del momento, che propone di trasporre uno dei racconti firmato da loro sul grande schermo. Anita ne è entusiasta, lui è un mito, anche se è:
“un ometto magro , altezza nella media, peso sotto la media, fronte più alta della media. Facendo la media di tutti i suoi tratti fisici, è un tipo medio. Eppure, qualcosa nell’atteggiamento di Monnè fa subito capire ad Anita che l’ometto di aspetto medio non debba essere un mediocre, ma al contrario qualcuno di una certa importanza.”
Tutti nutrono qualche perplessità, a causa del regime, e del pericolo insito alla censura. Ma il problema viene presto risolto perché il regista viene trovato morto in una camera d’albergo, poco dopo il loro incontro. Chi è stato? La censura ha forse deciso di metterlo a tacere per sempre? O vi è dell’altro? Anita indaga, ma è presa tra mille problemi: perché sogna sempre di sposarsi in abito nero? Il suo inconscio le sta parlando, forse? Inoltre il suo periodo di prova lavorativa di sei mesi sta per scadere e lei dovrà far fronte alla promessa fatta al suo futuro marito e abbandonare il lavoro. Come farà?
Un bel giallo, che ci riporta indietro nel tempo. L’autrice si rivela particolarmente abile e capace nel descrivere tempi, modi, usanze in voga negli Anni Trenta, e il lettore non può che restarne affascinato. Come si dimostra altrettanto abile nella descrizione di Torino e il cinema:
“Non è un segreto per nessuno che Roma abbia ormai strappato a Torino il titolo di capitale del cinema. Voi siete troppo giovani per ricordare cos’era Torino prima della guerra, ma avrete sicuramente sentito parlare di quando questa città era un grande teatro di posa a cielo aperto, e le case cinematografiche facevano a gara per accaparrarsi gli scorci paesaggistici migliori in cui montare le piattaforme, i terreni migliori per erigerci i capannoni per le riprese. Cabiria, Maciste, le comiche di Ridolini … tutto, dal capolavoro internazionale al cortometraggio d’intrattenimento, nasceva e sbocciava all’ombra della Mole. Qui erano gli attori, i registi e i produttori. Dall’arte al soldo all’attrezzatura ai divi, tutto ciò di cui v’era bisogno per fare un film, lo si poteva trovare fra la Dora e il Po.”
Unico neo è la narrazione un po’ troppo prolissa, che spesso si dilunga troppo con il rischio di vagare nell’incommensurabile. Per il resto una lettura di genere precisa e prolissa, che immerge il lettore in atmosfere di altri tempi, neanche troppo lontani. Nel complesso una bella storia con personaggi dipinti con sapienza narrativa.