Una sirena a settembre
Letteratura italiana
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Ancora una volta Napoli è padrona e prima attrice di questo romanzo a firma Maurizio De Giovanni, opera che vede quale protagonista delle avventure Mina Settembre, personaggio nato dalla sua penna che riporta il lettore ad affrontare temi di maggiore aspetto sociale e introspettivo.
Ed è quello che proprio accade tra queste pagine che sin dalle prime battute ci mostrano una realtà che può far storcere il naso essendo questa tutto tranne che rosea o fiorita. Emerge da queste una profonda povertà, non solo economica ma anche d’animo, un profondo senso di disillusione e anche amarezza per quella società circostante che tutto sembra tranne che pronta ad accogliere per il futuro.
E Marco, tra questi, ne è il rappresentante più forte. A cosa serve lavorare e studiare, impegnarsi e lottare per un domani migliore, se anche dopo che hai fatto mille sforzi e hai preso quel foglio di carta tanto desiderato da tua madre, finisci con il fare un lavoro come un altro pur di portare a casa quello stipendio necessario alla tua più cara prossima parente Ester? Costretta, quest’ultima, a casa a causa di un trauma invalidante che non le consente nemmeno di dedicarsi alle attività minime e ancor meno di uscire. Vivendo all’ultimo piano e senza ascensore, come potrebbe d’altra parte, uscire? E allora eccolo il suo canto da quel terrazzino dal quale innalza la sua voce verso il cielo. Come una sirena, come la sirena.
Ci si può accontentare di sopravvivere? E se davvero la strada della criminalità, del guadagno facile, fosse quella giusta? Sembra chiedersi anche questo, il giovane.
Ed è da questi brevi assunti che ha inizio l’ultimo romanzo dell’autore, uno scritto che non brilla forse particolarmente per sviluppo e trama quanto per contenuto empatico. La linea narrativa proposta è infatti quella più consona e nota del narratore, la trama si delinea in modo logico e consequenziale, l’epilogo si raggiunge con facilità dopo esser passati anche per una serie di situazioni piacevoli che vedono quali eroi principali i protagonisti che già abbiamo conosciuto tra cui l’affascinante ginecologo. A far la differenza è questo aspetto sociologico che guida tutta la narrazione e che salva un romanzo che altrimenti avrebbe rischiato di finire con l’essere un po’ troppo sullo stesso filo dei precedenti tanto da perdere di intensità e coinvolgimento.
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Fatti, misfatti ed antefatti
Quali che siano i suoi personaggi più noti, quelli ricorrenti nei suoi romanzi seriali, che insieme all’indubbia abilità di narratore gli hanno conferito giustamente successo e popolarità, comunque lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni se ne serve, in definitiva, per narrare, in un modo e nell’altro, di diritto e di straforo, di una ed una sola realtà: Napoli.
La sua città natale, le sue origini, il suo substrato formativo, ove risiedono le sue radici di uomo e di scrittore, che mai come in questo caso sono sovrapponibili.
Napoli non è solo il luogo dove il nostro autore vive, è ben di più, è la linfa vitale da cui lui assorbe gli umori nutritivi che danno sostanza ai suoi racconti, è la fonte di ispirazione che alimenta il suo raccontare, che gli fornisce quotidianamente idee, supporto e spunti narrativi, gli presenta di continuo, a lui come a chiunque altro sappia coglierli, fatti, misfatti, soprattutto antefatti su cui basarsi per fornirci delle buone e piacevoli letture, talora buonissime.
I libri, i romanzi, le storie, tutte e non solo quelle a firma dello scrittore napoletano, perché risultino gradevoli, attraenti, efficaci, non possono essere solo uno sterile riportare avvenimenti belli o brutti, fatti e misfatti, ma soprattutto, perché assai più importanti, ne vanno felicemente resi gli antefatti, direi anche evidenziati sottolineandoli, o con note a piè di pagina.
Gli antecedenti, i precedenti, i retroscena delle storie vanno delineati in corsivo, con tratto sottile e font più lieve del resto della trama, offerti in forma quasi subliminale, suggeriti e sussurrati.
Alla resa dei conti, solo così ne deriva un prodotto compiuto, esauriente ed esaustivo, in sintesi gradevole e avvincente, e in fondo di questo parla “Una sirena a Settembre”, l’ultimo romanzo di Maurizio de Giovanni: dell’importanza e della irrinunciabilità di basarsi su buoni antefatti come requisito indispensabile per offrire a chi ascolta, e di converso a chi legge, belle storie, buoni libri.
L’autore allude già nel titolo al termine Sirena, personaggio mitico nota da sempre per la voce melodiosa con cui incantava i naviganti, utilizzato in realtà con altra accezione, come affettuoso sinonimo di Signora, colei che racconta una storia incantando chi l’ascolta.
La prima storia bella che abbiamo letto in vita nostra è stata tale proprio perché raccolta dalla voce incantevole della Signora, tutti noi lettori abbiamo ascoltato, abbiamo letto il primo libro, in genere una raccolta di fiabe, per interposta persona, quello della Signora per eccellenza, la nostra mamma.
Chi di noi non ricorda il primo racconto ascoltato dalla voce incantevole della propria mamma, la Signora, il canto irresistibile della nostra personale Sirena della buonanotte, non a caso lo scrittore dedica il libro alla propria mamma, con profondo affetto, imperitura gratitudine, nostalgia e tenerezza.
Tante sono le Signore che raccontano, e anche Napoli è una Signora, quotidianamente la città propone fatti e antefatti, apparentemente slegati tra loro, a chi desidera porsi in ascolto.
De Giovanni certamente non è l’unico che ha occhi e sensibilità per tastare il polso alla sua città, fatti, misfatti e antefatti sono in evidenza per chiunque sappia coglierli.
Il nostro però, a differenza della maggioranza delle persone, napoletani compresi, è tra i pochi che ne avverte nella loro pienezza tutti gli intimi costituenti: suoni, rumori, stridori, luci, colori, odori, e non soltanto li percepisce appieno, ma sa utilmente riportarli su carta, direi anche molto bene.
Nei suoi libri si susseguono, accattivanti perchè ben scritte con stile fluido e scorrevole, situazioni uniche, originali, talora paradossali, anche incongruenti e contraddittorie, a volte crudeli, spesso struggenti, ma sempre intensamente reali. La realtà supera sempre ogni fantasia, e questo assioma vale soprattutto per la città partenopea, e per i suoi abitanti, il loro vissuto, la loro quotidianità.
La realtà napoletana non è misera e miserevole, folkloristica, teatrale ed esagerata, nemmeno improntata ad una comicità macchiettistica fine a sé stessa, come troppo spesso certi stereotipi ancora si ostinano a riportarla. Quanto riguarda Napoli, città di mille contraddizioni, dove splendore e miserie convivono tranquillamente, alternandosi talora senza soluzione di continuità, è qualcosa non di inverosimile, nemmeno verosimile, è realtà vera, concreta, tangibile, l’emblema di un modo unico di concepire e vivere la propria esistenza, basando tutto ed il contrario di tutto su un unico parametro: il sentimento. Perciò Napoli è città di sentimento, cioè di anima e cuore, ma questo vale solo per fatti e misfatti, sia per le buone azioni empatiche, sussidiarie, solidarie con i propri simili senza distinzione alcuna, così come per quelle cattive, stupefacenti per malvagità, stupida, stolida e disperata furbizia.
Gli antefatti, invece, nascono dalla mente, sono sempre frutto non di passione e di istinto, o di puro sentimento, quello verrà dopo come detto, gli antefatti sono prima di tutto antecedenti di pura logica, intelligenza e buon senso, sono retroscena che nascono da riflessioni profonde, i precedenti vengono da un pensiero elaborato, quindi sono razionali, dagli antefatti originano poi a cascata gli eventi passionali, i fatti, questi ultimi sì esplicati “anema e core”, ma sono gli antefatti il cuore della storia, ragionevoli, sottili, limpidi ed essenziali, da loro derivano i sentimenti dell’agire in diretta conseguenza con intensità di sentimento.
La Signora, voce narrante del romanzo, porge tali considerazioni, tali antefatti, allo scrittore, che si limita a riportarle pari pari, semplicemente di suo aggiunge un cucirle tra loro con un invisibile, sottile filo di seta che intesse un’unica trama. Tali antefatti rimandano ad una unica, univoca immagine, quella di una Sirena.
Il tatuaggio di una Sirena segna in tutta la sua estensione il braccio di Marco, un giovane ventenne, il prototipo del bravo ragazzo, povero ma onesto, privo di mezzi ma volenteroso, industrioso, attivo e capace. Un rappresentante della meglio gioventù napoletana, quello che benché indigente ha studiato a forza di sacrifici, intelligente e volenteroso si è diplomato a scuola col massimo dei voti, per bisogno non prosegue gli studi ma si spacca la schiena scaricando casse di merci ai mercati generali dalle prime luci dell’alba, arrabattandosi poi con altri mille faticosi mestieri precari per assicurare onestamente un minimo di sopravvivenza a quanto resta della sua famiglia.
Il tutto in una realtà sociale degradata dove l’alternativa delinquenziale è offerta normalmente, con irrisoria facilità, dal contesto ambientale in cui si vive, come l’escamotage esistenziale risolutivo più breve, assai più remunerativo, quasi fosse opportunità usuale, ineluttabile e unilaterale.
Non altrimenti si può definire che: come quello di una Sirena, il canto potente, cristallino, incantevole, di Ester, una fanciulla a dir poco bellissima, costretta in casa da un trauma invalidante, letteralmente reclusa ed impossibilitata a muoversi perché la sua abitazione è sita all’ultimissimo piano di un vetusto palazzo senza ascensore.
Non per questo rinuncia a levare al cielo da un piccolo terrazzino la sua voce, a delizia di chi ha la ventura di ascoltarla, il suo è sempre un canto argentino, adamantino, allegro, gioioso, tonico, corroborante, altro non è che un magnifico inno alla vita, vivo, palpitante, energico.
Malgrado le sue condizioni, la giovane Ester è un magnifico esemplare di Sirena, le sue gambe splendide ma inerti non sono tramutate in nessuna coda di pesce, ma è provvista di una voce incantevole, e di un’anima limpida, il suo canto si innalza puro e sorgivo non ad uso di volgere al naufragio i naviganti, ma di guida e di esempio, come faro luminoso nella foschia delle difficili condizioni di vita.
Una emittente televisiva locale, “TeleSirena”, conta nel proprio palinsesto una fortunata e lucrosa trasmissione di pseudogiornalismo di inchiesta, denominata “Il canto della Sirena”, anche a causa dell’indubbio fascino e bellezza di Susy Rastelli, giovane giornalista conduttrice, una sirena del piccolo schermo. Si tratta di uno di quei diffusissimi rotocalchi televisivi che offrono fatti e misfatti della città in maniera a volte fin troppo scandalistica ed eclatante ai soli fini di audience.
Questa volta la trasmissione non si limita a fare un usuale servizio spazzatura sull’ennesimo ripresentarsi del problema della raccolta dei rifiuti in città, o sul proliferare delle discariche abusive. In una puntata ad alto richiamo di pubblico la telecamera va letteralmente a rovistare tra i rifiuti riprendendo Geppino, un bambino di pochi anni, sporco misero, lacero, che tra i rifiuti si contende avanzi di cibo con i cani randagi:
“…la produzione aveva realizzato un servizio che metteva in risalto il grado di disperazione, abbandono e fatiscenza raggiunto nel centro della città…”
Il classico video che pare girato nei paesi del terzo mondo e non nel cuore della terza città d’Italia, e che muove a sdegno non solo la platea televisiva locale e nazionale, ma l’intero furibondo quartiere dove il servizio è stato girato.
Questi ed altri fatti narrati sono tutte evidenze sociali, lo sfondo civile su cui si muove la protagonista assoluta di questo romanzo, l’assistente sociale Gelsomina Settembre detta Mina, lei stessa una Sirena, dato l’evidente sex appeal di cui è dotata, in particolare nei piani superiori del suo fisico invidiabile, per quanto inutilmente la giovane cerchi di mistificarlo con un look più appropriato al suo ruolo professionale.
Mina Settembre rappresenta la forma di scrittura declinata in chiave meno drammatica e più in commedia dei libri di Maurizio De Giovanni, ma anche l’assistente sociale, in fin dei conti, racconta di Napoli, i fatti, i misfatti, gli antefatti della città, come nelle intenzioni dell’autore. Altri fortunati personaggi, che il comune fan dello scrittore, ma non solo, certo conosce, si muovono infatti diversamente: il commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, che agisce nella Napoli del ventennio fascista, è colui che letteralmente vede i vivi, e anche i morti, coloro che sono frutto di fatti e misfatti, e indaga per capire gli antefatti all’origine delle loro storie; ed il “fatto” che lo caratterizza risalta drammaticamente anche perché risente inevitabilmente della buia, e tragica, costruzione artefatta della realtà politica dei tempi in cui vive. Niente come gli antefatti, la motivazione dell’agire, il “cui prodest”, la genesi di una esistenza guida meglio nel loro lavoro i “Bastardi di Pizzofalcone”, una moderna squadra di operativi di polizia, che solo così, risalendo a ritroso, provvedono ad aggiustare i malfatti ricostruendo gli antefatti. Lo stesso fiuto per gli antefatti guida nell’esercizio delle sue funzioni l’insospettabile, trascurabile e insignificante vecchina Sara Morozzi, ex agente speciale dei Servizi Segreti. Equilibra il tutto un tono di scrittura più leggero, ma non meno intenso, lo fornisce appunto Gelsomina Settembre, assistente sociale originaria dei quartieri alti della sua città che paradossalmente, per libera scelta di vita sodale con i suoi concittadini, esplica la sua attività nel consultorio dei Quartieri Spagnoli, agli antipodi del suo ambiente di origine.
I Quartieri Spagnoli sono un quartiere vasto, antico e popolare sito nel cuore stesso della città, a tratti è un territorio anche problematico, densamente popolato, degradato ed infiltrato dalla criminalità spicciola e organizzata, e però mai come altrove emblema della schietta napoletanità di cui De Giovanni è cantore. Napoletanità che è sinonimo di canto, di inno alla vita, dove le note richiamano l'allegria, l'amore per la vita nonostante tutte le miserie, le difficoltà e le privazioni che la stessa riserva a chiunque, giovane e vecchio, ricco e povero, il tutto nella cornice di una splendida natura, fosse pure quella di una architettura urbana svettante ripida verso l’alto, e priva di ascensore.
E di un canto unico, e corale, Maurizio De Giovanni si fa portavoce: perché una città così grande, e così densamente popolata, con un’umanità così coesa e sodale, è una città che di antefatti abbonda.
Quando gli antefatti abbondano, tendono inevitabilmente prima poi a incontrarsi, scontrarsi, inframmezzarsi: nasce così una storia che ne contiene altre, ognuna ha il suo decorso e finiscono per convergere come tanti affluenti nel fiume unico del narrare, ed è questo che compie De Giovanni, fa quanto fa una Sirena, racconta. Narra di Napoli, e dei suoi abitanti:
“…Perché in questa città, e in questi quartieri, nessuno si tiene niente per sé.”
Narrare è arte antica, una volta il narrato era diffuso sotto forma di canto, ed in vari canti la Sirena era descritta unica e diversissima, una sola voce in un corpo di donna bellissima, e però diversamente delineato, per alcuni con attributi di uccello, per altri pesce, un’essenza sempre contraddittoria.
L’antefatto stesso della nascita di Napoli è una canzone che si perde nella notte dei tempi; è una storia sentimentale, quella di una Sirena dalla voce celestiale, chiamata Partenope, che fu battuta in una gara di canto da Orfeo con la sua cetra. Allora pensò bene di togliersi la vita per la vergogna, aveva l’aspetto di donna giovane e bella nella parte superiore del corpo e di uccello nella parte inferiore.
Secondo altri invece Partenope era una delle Sirene che, secondo una versione di una tarda leggenda, morì gettandosi in mare con le sorelle per l’insensibilità di Ulisse al loro canto. Quindi, visto che stavano sugli scogli, e vivevano in mare, la tradizione cominciò a immaginarle e raffigurarle con l'aspetto di belle fanciulle con la coda di pesce al posto delle gambe.
In sintesi, l’aspetto esatto della Sirena è contraddittorio, come è contraddittoria Partenope, l’antico nome di Napoli. Da un antefatto simile, sorgono mille e mille storie: la Signora le racconta.
Maurizio de Giovanni le raccoglie, e ne scrive. Molto bene.
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Ancora un libro che ne richiama altri
Premetto che tra i libri di De Giovanni quelli della serie che hanno protagonista Mina Settembre non sono certo i miei preferiti. Premetto anche che non mi è piaciuta la serie televisiva tratta da questi libri. Ed allora vi chiederete perché ho deciso di leggere questo libro? Sadismo forse o necessità di avere una ulteriore conferma? Boh, non saprei. Sta di fatto che questo libro è stato per me una piacevole sorpresa. Sarà un po' perché racconta varie storie dapprima slegate ma che poi vanno a ricomporsi in un disegno unico ma variegato. Sarà perche la figura di Mina non è tanto in primo piano ma è affiancata da vari altri personaggi che nei libri precedenti erano meno caratterizzati e marginali a partire dall'ex marito per finire con Susi, la sua nuova compagna. Sarà perché mi piacciono i libri che mi richiamano alla mente altri libri e questo lo fa con due letture abbastanza recenti. Il primo richiamo è con Flora di Alessandro Robecchi per l'analisi spietata di un certo tipo di programma televisivo e di giornalismo; anche se Flora e Susi si comportano decisamente in maniera opposta riscattando la seconda la sua intenzione di fare del giornalismo serio e correndo anche i rischi di venire emarginata, mentre la prima agisce sotto la paura del rapimento. L'altro richiamo è con L'ottava vita di Nino Haratischwili per la descrizione delle storie come fili di un medesimo tappeto di cui si riesce a capire il disegno solo alla fine, così come per De Giovanni le storie delle stradine dei Quartieri Spagnoli sono, secondo la descrizione della Signora, tutte collegate tra di loro " piene di connessioni invisibili, fili di nylon che legano ogni persona ad un'altra, e camminando a zig zag, salendo e scendendo per queste stradine strette, salendo affannosamente dai piani bassia a quelli alti e poi scendendo a rotta di collo per le scale, diventa tutta una rete di nylon cosi stretta e inestricabile che puoi raccontare tutto quello che vuoi".