Una rabbia semplice Una rabbia semplice

Una rabbia semplice

Letteratura italiana

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È una primavera malinconica per il commissario Arcadipane. Ogni strada, ogni bar, ogni osteria della città sono un ricordo. Lui che dove gli altri crollano ha sempre trovato «terra di conquista», ora si sente stanco; la sua intelligenza, tanto umile quanto ostinata, pare essersi assopita. A destarlo dal torpore è un episodio di violenza come ce ne sono molti. Dietro cui, però, si nasconde un male così insensato da spegnere le parole in bocca. Vincenzo Arcadipane ha cinquantacinque anni, un matrimonio fallito alle spalle e un futuro che non promette granché. In più, negli ultimi tempi, si è convinto di avere smarrito l'istinto che lo guidava nelle indagini. Ma quando una donna viene picchiata fuori da una stazione della metropolitana di Torino e il colpevole rintracciato in poche ore, è proprio l'istinto a suggerirgli che qualcosa non torna in quel caso dalla soluzione elementare. Decide quindi di approfondire, con l'aiuto di Corso Bramard, vecchio capo e mentore, e dell'irrequieta agente Isa Mancini: una squadra collaudata cui si aggrega uno strano ex poliziotto dai tratti ossessivi. Insieme si troveranno a scoprire le regole di un gioco folle e letale, una discesa nel mondo sotterraneo della Rete che, girone dopo girone, li porterà là dove «si sbrigano le faccende che non hanno bisogno di occhi».



Recensione della Redazione QLibri

 
Una rabbia semplice 2021-02-15 12:24:53 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    15 Febbraio, 2021
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La banalità della rete

Al centro di questo romanzo, il terzo della serie di racconti seriali che lo vede protagonista principale, è il commissario di Polizia Vincenzo Arcadipane, in servizio presso la questura di Torino.
Un poliziotto singolare, sia nell’aspetto che nel vissuto, diversissimo nella sua normalità piccolo borghese da altri suoi colleghi investigatori romanzati, sparsi per la penisola letteraria italiana. Arcadipane è un piemontese sabaudo e savoiardo, di quelli di una volta, per così dire, di quando cioè la FIAT a Torino e dintorni era letteralmente fiat lux: faro, luce e richiamo per il colto e l’inclita, ma da quando il colosso delle auto, e non solo, si è trasferito altrove, la città pare aver acquisito solo tinte crepuscolari; in realtà Arcadipane che la conosce bene lo sa, i chiaroscuri sono sempre stati insiti sia nella città che nella gente.
In sintesi, trattasi di un romanzo che ricorda, e non poco, nella descrizione di luoghi ed atmosfere, tanto Cesare Pavese con le sue langhe, che i due Fenoglio, lo scrittore Beppe dei gloriosi giorni di Alba, e il maresciallo dei carabinieri Pietro, presente nei romanzi di Gianrico Carofiglio.
Con qualcosa, nello stile di scrittura, che richiama il Simenon prima maniera, d’altra parte è inevitabile l’influenza della vicina Francia, manco a farla apposta le ultime pagine di questo libro di Longo sono ambientate in una malga piemontese per l’alpeggio di bovini, poco distante dal confine.
Insomma, un Montalbano versione piemontese, meno mare e piatti di pesce e più nebbia, agnolotti e tinte esoteriche, e però come quello vero, sanguigno, e radicato nel profondo nel suo territorio.
Arcadipane è un uomo del suo tempo, che il suo tempo, quale che fosse, lo ha vissuto ed impiegato al meglio; ora però il tempo è passato facendo il suo corso, oggi è un ultracinquantenne stanco, infiacchito, fuori forma, spossato da come sta andando la sua esistenza, se non a rotoli, certo in discesa ripida e con l’impianto frenante bisognoso di sostituzione in toto e non più di saltuari rabbocchi del liquido dei freni. Niente di tragico o particolare, come tutti, risente dei colpi che la vita non gli ha risparmiato nella professione, delicata e deprimente insieme quando ci si occupa di delitti e delle relative miserie umane, mestiere esercitato sempre con scrupolo, puntiglio ed applicazione, e una quantità inesauribile di buon senso pratico. Soprattutto, avvalendosi delle sue doti naturali, la tenacia, e un istinto infallibile per imboccare la pista buona, un istinto non da cane di razza, ma da mulatto da strada, che una volta convinti di aver individuato le orme giuste, seguono il sentiero fino in fondo, senza farsi fuorviare, incuranti di qualsivoglia elemento sviante le indagini, casuali o sistemati invece a bella posta per depistare le indagini.
Un uomo normale, che affronta la normalità dell’esistenza, e il male, il delitto, è cosa normale, fa parte della vita. Non dovrebbe, ma è così, e Arcadipane si dispone in campo per affrontarlo al meglio.
Se la vita è una partita di calcio, Arcadipane sa benissimo qual è il suo ruolo e la sua posizione in campo, quella di mediano settepolmoni, in mezzo al campo, in posizione mai statica, su e giù per aree e perimetro azzannando le caviglie degli avversari di maggior classe, senza mai perderli d’occhio, anticipandoli se riesce o asfissiandoli quando in possesso di palla.
Una vita da mediano, perché nato senza i piedi buoni, destinato giocoforza ad un ruolo fuori dai riflettori, e però essenziale e delicato, il centro nevralgico del gioco di squadra: se così lo ha cantato Ligabue, deve essere vero. Solo che, dopo aver calcato con onore l’erba o la terra battuta di tanti campi, ora Arcadipane ha meno entusiasmo, articolazioni meno forti e muscoli sfibrati, vorrebbe stare qualche turno in panchina, se non in tribuna, a riflettere sulla sua esistenza professionale, e di riflesso anche su quella privata: una recente separazione dalla moglie ancora nei suoi interessi sentimentali, e che invece ha già un altro compagno, il rapporto pressoché formale malgrado tutti i suoi sforzi almeno di apparire in presenza nelle loro vite con i due figli, che vede poco, male e di sfuggita, una ragazza di cui dimentica sempre cosa studia all’università ed un ragazzo, che tra l’altro calciatore lo è per davvero, militando nel Carpi in serie C; con tutta quanta la famiglia il solo legame che pare gli sia rimasto è il cane Trepet, un botolo di razza indefinibile. Che lo rappresenta bene, se è vero che un cane finisce per assomigliare al padrone: l’ineffabile Trepet è quieto, paziente, cocciuto, ed ha solo tre zampe. Incompiuto come il suo padrone, quindi. Tutta questo suo essere incompiuto, Arcadipane lo estrinseca in una sua ubbia: è un consumatore smodato di sucai. Le compra in quantità industriale, le distribuisce sfuse nelle tasche, sta sempre a portarsele in bocca senza neanche accorgersene, ne ha una dipendenza compulsiva e ossessiva, e certamente non hanno una funzione sostitutiva di altri vizi, dato che il nostro continua anche ad indulgere nel tabagismo. Per chi non le conoscesse, le sucai sono delle caramelle gommose alla liquirizia ricoperte in superficie da granelli di zucchero, insomma non proprio il massimo di una alimentazione sana e corretta, ma tant’è, il nostro commissario è un essere umano con tutte le manchevolezze della specie, tant’è che si fa aiutare da una specialista in supporto psicologico che egli affettuosamente considera una psicopazza, che insiste perché il commissario ponga fine alle proprie carenze affettive all’origine di tutte le sue mancanze e imperfezioni ed all’uopo si dia da fare ad allacciare interazioni sociali sui siti di incontri.
Davide Longo in questo suo romanzo e nei due precedenti ha il merito di aver creato un personaggio nuovo, simpatico, accattivante, umanissimo, diverso dai soliti investigatori di carta, normale e originale insieme. Un uomo qualunque, all’apparenza, ma è questo suo essere comune che lo rende positivo, gradevole a leggersi, Vincenzo Arcadipane, e le storie in cui agisce, non sono eroi o vicende straordinarie, sono persone e cose di tutti i giorni, ed il loro fascino sta in questo, rappresenta ciò che è noto e che si presenta comunque in modo ogni volta diverso.
La normalità che fa notizia, anche se più spesso la notizia tende a divenire normale.
Il commissario è tanto insolito quanto ordinario, appare banale ma prende, affascina, si fa seguire, ci sembra estremamente fragile ed invulnerabile, ed invece è semplicemente un uomo che non si nasconde, non maschera le proprie debolezze, sconfitte, insoddisfazioni, ma appunto questa consapevolezza ce lo rende gradito, lo rende forte, reale, vincitore.
Il suo acume investigativo sta in questa sua normalità, Arcadipane ha l’efficacia di colui che non da nulla di scontato, non ritiene di essere un genio che tutto risolve, ma ha bisogno di vedere, di soppesare, di andare a fondo alle sue intuizioni ed delle proprie sensazioni, darle un ordine ed un senso, senza lasciare che le cose scorrano in una e in una sola direzione, perché è proprio la sua esistenza che gli comprova che le cose prendono talora vie nuove, impreviste e all’improvviso, e non per questo prive di logica e verità.
Una povera badante straniera è brutalmente attaccata a calci e pugni e ridotta in fin di vita all’uscita della metropolitana; tutta la violenza è ripresa dalle telecamere di sicurezza, ed il ragazzo colpevole facilmente identificato e arrestato, oltretutto anche dato l’eccentrico abbigliamento con il quale si era vistosamente camuffato. Il giovane è uno che:
“Ti piace menare le mani, andare in curva, frequentare posti dove qualche volta si fa rissa e hai anche due arresti per spaccio da minorenne. Per non farti mancare niente la seconda volta hai pure rotto il naso ad uno degli agenti”.
Insomma, un caso plateale, un colpevole senza ombra di dubbio, date le prove televisive.
E però, il ragazzo non lo ammette. Nega di essere il responsabile. Consente solo all’abbigliamento vistoso, a suo dire indossato per tenere fede ad una scommessa, niente più che un gioco.
Ma non ha commesso alcun pestaggio, lo nega con tenacia e convinzione.
Nessuno gli crederebbe, è un caso eclatante, un caso chiuso, il solito balordo che ne ha commessa una più grave del solito. Un ragionamento che vale per tutti, ma non per Arcadipane.
Che dà retta al suo fiuto, manda in giro i suoi uomini con precise direttive, e di verità ne appronta un’altra. Forse altrettanto malevola, altrettanto assurda, incredibilmente mediocre, il male per il male senza altro movente, un male banale, come è sempre banale il male, come lo definì Hanna Arendt.
Questione risolta? Affatto: Arcadipane non desiste neanche da sé stesso, basta un’indecisione nel nuovo sospettato per farlo dubitare ulteriormente anche della sua stessa seconda opzione.
Poiché non è un eroe solitario, poiché sa perfettamente i propri limiti, le proprie imprecisioni, la propria assoluta normalità, e quindi può sbagliare e sbagliarsi come chiunque, Arcadipane che è uomo da sport di squadra la sua squadra ricostruisce, chiede cioè supporto ai fidati compagni di percorso professionale, da cui ora i casi della vita lo hanno separato. Si consulta con i suoi colleghi del cuore, il suo vecchio capo Corso Bramard, ora in lotta con un tumore che lo deteriora lentamente, e con l’agente Isa Mancini, ragazza irruente ora dislocata alla stradale per motivi disciplinari dettati proprio dalla sua aggressività, per quanto giustamente motivata. A loro si aggiunge un ex collega, Luigi Normandia, una figura preoccupante da tratti ossessivi, tormentosi, mistici, direi ascetici, una figura inquieta e inquietante. E grazie a loro, si trovano nuove tracce. E le tracce portano al:
“ Il dark web è tutta un’altra storia. È la parte ultima dell’iceberg, quella profonda, una striscia non troppo grande, dove le acque sono sempre buie e la luce non arriva…un posto dove si sbrigano le faccende che non hanno bisogno di occhi.”
Ecco, qui sta il valore di questo “Una rabbia semplice” di Davide Longo, ed è un bel valore, questa è veramente una bella lettura, non solo deliziosa e rilassante, ben scritta e ben presentata, ma anche in grado di suscitare delle belle riflessioni sull’oggi, sul nostro presente, sul nostro vissuto.
Il che vuol dire sulla tecnologia informatica che in tutto oggi ci pervade e ci invade: che non è una scienza per pochi eletti. Certo, siamo tutti convinti che gli esperti dei computer e dell’informatica sono tutti dei cervelloni, dei geniacci, una specie di scienziati pazzi persi tra numeri ed algoritmi, l’esperto informatico per eccellenza lo immaginiamo come un:
“un uomo tra i trenta e i quaranta, colto, creativo, intelligente, introverso, che sa le lingue e legge molto” In realtà, l’informatica e il web non celano alcun mistero insormontabile, li maneggiano efficacemente soprattutto i ragazzini, figuriamoci, e comunque tutta la tecnologia si riduce al fatto essenziale che ci fornisce solo una cosa banalissima come il web, l’enorme mare che tutti ogni giorno navighiamo con piacere e senza timore, o quasi, che tutti conosciamo o presumiamo di conoscere e padroneggiare, quando invece quasi tutti in effetti di esso non sappiamo che la punta dell’iceberg.
Certo, poi almeno per sentito dire abbiamo un’idea anche del deep web, quello davvero pericoloso che non vediamo facilmente, ma sappiamo che esiste, dove si trovano trafficanti di armi, di droghe, di esseri umani, di cose abominevoli come la pedofilia e la pornografia e altro.
Questo deep web provoca il nostro sdegno, la nostra condanna, il nostro biasimo, la nostra censura.
La rabbia…la rabbia no. Quella è riservata ad altro, al dark web
Il dark web è il fondo assoluto, appena un centimetro sopra la melma del fondo.
Esattamente come sul fondo degli oceani, su questo altro fondale vivono figure e creature di cui non abbiamo conoscenza diretta, pesci dagli occhi enormi che occupano la totalità del muso per cercare di carpire inutilmente una stilla di luce, che a quelle profondità non arriva mai.
Creature cieche, che però sanno muoversi, sono nel loro habitat.
Ci appaiono mostruosi, ma sono semplicemente adattati all’ambiente.
Anche noi appariamo mostri ai loro occhi. Essi sono come noi: se l’ambiente è nocivo, sono nocivi. Se sono grandi, mangiano il piccolo. Se sono bambini, giocano: perché è il gioco che insegna le cose della vita, i bambini giocano alla guerra perché imitano, ma non sono consapevoli di quanto male e quanto dolore arreca la guerra. Ecco, succede questo nel dark web:
“Lo sai che in Siberia si sono formati dei buchi di centinaia di metri nel terreno? Voragini di cui non si vede il fondo. Le chiamano le porte dell’inferno…quei buchi sono dovuti al surriscaldamento. La temperatura si alza, lo strato di permafrost si scioglie, la terra che lo ricopriva non ha più sostegno…lascia perdere il buco…cerca di capire perché la temperatura si alza.”
Vincenzo Arcadipane nella sua normalità, con il banale buon senso lo capisce, non gli interessa il dark web in sé e per sé, comprende nella sua interezza che ciò che accade nel dark web è una semplice conseguenza dei guasti fuori del web.
“…è colpa della noia, della rete, o del fatto che abbiamo buttato tutto?”
Sono queste storture esterne quelle che portano i cacciatori a risalire in superficie per dare prova di sé, mettersi in gioco, accumulare punti che diano un senso al loro ingegno.
Tuttavia, la vita non è un gioco, e Arcadipane sa quello che deve fare, è inutile gettare le reti a strascico per setacciare il fondo, il suo compito, il suo dovere, è dare la caccia e fermare una volta per sempre il gioco nefasto, bloccare i “ surface hunters”, i cacciatori di superficie.
Lo fa con calma, con efficacia, al meglio che gli riesce, assaporando un sucai, ha zucchero in superficie, dolcifica e quindi semplifica un po' le cose, tuttavia lo fa con rabbia, quella è necessaria, sempre le vittime innocenti suscitano rabbia. Una rabbia semplice, anche se è proprio quella più letale, però semplice. Una rabbia semplice, adatta alla banalità del male. E della rete.

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Davide Longo e Vincenzo Arcadipane
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Una rabbia semplice 2024-08-30 15:23:47 Lonely
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Lonely Opinione inserita da Lonely    30 Agosto, 2024
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Arcadipane non sei solo

Il commissario Arcadipane è solo e malinconico, la moglie lo ha lasciato, non ha un gran rapporto con i suoi figli, Corso Bramard si è eclissato e Isa Mancini è finita, per il suo carattere irascibile, alla stradale.
Il commissario dunque è solo ad indagare sull’omicidio di una donna all’uscita della metro, pestata a morte. Sorprendentemente però l’assassino viene subito identificato ed arrestato.
Ma Arcadipane non è convinto, il suo intuito, che credeva di aver perso, gli dice che qualcosa non torna.
Così con l’aiuto di un ex poliziotto semi psicotico, si inoltra in questa indagine alquanto oscura , che lo porta nel dark web, in giochi a premi pericolosi e letali, in un mondo “nascosto” che offre di tutto a chi sa come muoversi.
Ma il commissario è in crisi, e nonostante lo pseudo aiuto di una psicoterapeuta disabile, più pazza dei suoi pazienti, non riesce a sbrogliare la matassa.
Quindi si rivolge ai suoi vecchi amici, Bramard e Mancini, che nonostante anche loro siano profondamente cambiati dagli eventi della vita, forniranno un sostegno fondamentale per la risoluzione di un caso a dir poco complesso.
Questo romanzo è l’ultimo di una trilogia di Davide Longo, dopo Il Caso Bramard e Le Bestie Giovani.
Longo è innegabile, ha uno stile particolare, divisivo, scrive gialli non canonici, senza suspense o colpi di scena, pochi indizi e pochi fatti, tutto gioca sulle intuizioni e le deduzioni di chi indaga. I dialoghi tra i personaggi sono spesso riflessioni mai niente che ti riporti alla trama o che segua un filo logico,e il lettore spesso si perde, e se cerca di svelare il mistero, qui gli è praticamente impossibile. Se cercate un giallo semplice e lineare rivolgetevi altrove, non è questo il caso. Qui si va oltre, se si riesce a starci dentro, si toccano le corde della natura umana, nel bene e nel male. Un romanzo con una struttura complicata, una scrittura a tratti ostica e un messaggio profondo.
Non mi ha convinto fino in fondo, ho trovato certi personaggi, come la psicoterapeuta sui generis o l’ex poliziotto, che parla in versi biblici, un po’ troppo sopra le righe, tanto da non essere credibili. Se l’intento era quello di alleggerire, personalmente il risultato è stato l’opposto. Ma la trilogia nella sua interezza vale la pena di essere letta.

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a chi ha letto i primi due della trilogia
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Una rabbia semplice 2023-05-14 09:32:09 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    14 Mag, 2023
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Sucai & Web-killers

Nel marzo 2013, mentre a Roma si tiene il Conclave che porterà all’elezione di Papa Francesco, il Commissario Vincenzo Arcadipane è alle prese con un brutto caso d’aggressione xenofoba. Una signora, badante colombiana di mezza età, è stata selvaggiamente picchiata in una stazione della metropolitana torinese. Ora è in coma tra la vita e la morte. I rilievi e le testimonianze sembrano confermare che il colpevole sia un giovane con indosso il kimono di una palestra d’arti marziali cittadina e, sul viso, una maschera horror molto comune. Nella sala interrogatori il giovane Luca Apostolo riconosce di aver fatto la bravata di muoversi nella metro con quel travestimento per scommessa con la sua fidanzata, ma rifiuta ogni addebito per l’aggressione. Tutto, però, concorda per inchiodarlo all’accusa.
Arcadipane, nonostante desideri chiudere al più presto l’indagine, ancora non è convinto completamente che le cose siano andate come sembra: c’è qualcosa che al suo istinto di poliziotto, che lui pensa appannato e, invece, è ancora acutissimo, non torna affatto. Si consulterà con il suo amico e mentore Corso Bramard. L’ex commissario più giovane d’Italia gli darà solo pochi suggerimenti, ma questi saranno sufficienti a svelare un complotto a carico di Apostolo e a individuare il vero responsabile dell’accaduto.
Tutto bene, allora? Non proprio, perché, seppure il puzzle dell’indagine sembri perfettamente ricomposto, ad Arcadipane avanza ancora in mano un pezzo che non s’incastra da nessuna parte. Così, con la sua tipica testardaggine meridionale, continuerà a scavare, con l’aiuto (reticente) di Bramard – che, in questo momento, ha ben altri problemi per la testa – di Isa Mancini – la geniale e ribelle agente che, adesso, trasferita alla Stradale di Vercelli, sembra aver trovato un suo equilibrio, e non vorrebbe essere nuovamente coinvolta – e di un surreale individuo, tal Luigi Normandia, un ex poliziotto che sembra tutt’altro che una persona sana di mente.
Quello strambo connubio, alla fine, porterà alla luce un brutale, assurdo “gioco giovanile” nel quale il premio per le morti causate è solo una buona posizione in una insensata classifica priva di scopo pubblicata in un sito del dark-web.

Terzo romanzo dell’accoppiata Bramard-Arcadipane, dove il primo fa solo brevi comparse, quasi da spirito-guida per il sempre più depresso, confuso e scorato Arcadipane il quale deve combattere, più che in passato, con i propri fantasmi e turbamenti interiori.
Come e più del precedente, è proprio l’aggrovigliata psiche del commissario a essere il nucleo attorno al quale si sviluppa la narrazione: Vincenzo, marito ormai allontanato da casa, padre che non riesce a comprendere e parlare ai propri figli, poliziotto che dubita delle proprie capacità, uomo che ha paura della morte perché teme di aver attraversato la vita come una meteora inutile, lotterà comunque, contro tutti, a cominciare da sé stesso in nome del suo innato senso di giustizia. Perché, in fondo lui si danna proprio per le cause perse, per i disperati senza alcun santo in paradiso, i disadattati, come il suo cagnetto Trepet con solo tre zampette. Come lui…
La trama poliziesca è particolarmente arruffata e, forse, al limite della credibilità. Ma la cronaca ci ha mostrato che possono esistere cose ben più assurde, ma purtroppo, tragicamente reali come ci ricorda la follia della “Blue Whale”.
Dopo un avvio abbastanza convenzionale delle indagini, con i classici interrogatori sfiancanti e le perquisizioni di routine, si incanalerà in contorti percorsi che si inoltreranno nel dark-web, in luoghi ove tutto sembra lecito.
Divertente, ma anche tantino inquietante, la figura di Normandia, un uomo che parla più come un predicatore invasato che come un individuo raziocinante. Come al solito credibili e molto umani sia Bramard che Isa. Comunque il giallo resta solo una scusante per analizzare l’animo dell’uomo Arcadipane, disperatamente fragile e contraddittorio (tanto simile a noi, verrebbe da aggiungere), pieno di complessi e ansie che cerca malamente di placare ingollando un sucai dietro l’altro (le caramelline gommose alla liquirizia ricoperte di zucchero). Co-protagonista invisibile, ma onnipresente come una minacciosa ombra di Banquo, quella rabbia giovanile che – anche per colpa delle devianze di questo nostro mondo troppo trasparente e inumano – partorisce piani di assurda ferocia con la stessa banale noncuranza con la quale i ragazzini sterminano alieni nei videogiochi: con insensata indifferenza per il male causato che non viene neppure compreso come tale.

Lo stile di Longo è sempre particolarissimo e, come al solito, può affascinare o risultare indigesto. Talvolta è pedante nelle descrizioni con le varie scene che vengono descritte nel loro svolgersi quasi fotogramma per fotogramma, come in un rallenty. Talaltra sbrigativo al punto da lasciare al lettore il compito di completare nella sua mente il quadro della situazione. Non di rado risulta pesantemente, cinicamente volgare e sgradevole mentre, forse, alcuni concetti, alcuni stati d’animo potrebbero essere resi espliciti in modo meno rozzo, meno infarcito di parolacce. Tuttavia, vista nel suo complesso, la storia non potrebbe essere raccontata in modo differente. Soprattutto perché, così, è innegabile, la narrazione riesce a dar vita a quel nesso empatico con i personaggi che, alla fine, sentiamo pure nostri, come personificazioni ed esternazione dei nostri sentimenti.
In conclusione un ottimo romanzo, forse il migliore di questa prima trilogia grazie principalmente all’umanissimo, tenero, disperato Vincenzo Arcadipane.

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... i due volumi che precedono: "Il caso Bramard" e "Le bestie giovani".
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Una rabbia semplice 2021-04-06 08:03:10 ornella donna
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    06 Aprile, 2021
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La malinconia di Arcadipane e il dark web

Torna il commissario Arcadipane ne Una rabbia semplice di Davide Longo. Lui è un commissario di lungo corso, con uno speciale predecessore, conosciuto nei romanzi precedenti ne Il caso Bramard e Le bestie giovani, che corrisponde al nome de il commissario Bramard:
“In Barriera dove è successo quasi tutto quello che ha reso Bramard l’uomo che poi è diventato, se si escludono le colline dov’è nato e chissà come cresciuto, e quelle fottute montagne dove ha cercato di ammazzarsi per anni senza grandi successi. Il Bramard commissario che l’ha plasmato nelle infinite ore di servizio. Il Bramard che vedere il suo cervello in funzione era uno spettacolo. Il Bramard silenzioso, il Bramard presuntuoso, il Bramard che i colleghi non lo capivano, il Bramard che leggeva perfettamente dove gli altri non vedevano nemmeno una scritta, il Bramrd con la sua mania dei cani specchio degli uomini, il Bramard che perde moglie e figlia, il Bramard che insegue l’unico assassino che non riesce a prendere, il Bramard nella disgrazia, il Bramard da cercare nel solito bar, il Bramard che il poliziotto non lo può fare più e gli consegna l’ufficio, la sedia, l’onere, l’orrore, l’onore. Il Bramard amico, il Bramard mistero.”
A lui Arcadipane deve molto, anche una amicizia consolidata dai molti anni, fatta di poche parole, ma di sguardi che dicono tutto. E’ a lui e ai suoi insegnamenti che il commissario sta pensando quando deve affrontare il suo ultimo caso. Una donna viene gravemente picchiata all’uscita della stazione metropolitana a Torino, da un ragazzo vestito in modo eccentrico. Si fa presto ad individuare il colpevole. E’ un ragazzo con precedenti, che però afferma di stare per cambiare vita con una ragazza di buona famiglia, che lo aiuta e che conferma le sue dichiarazioni. E’ tutto vero. Come ci è finita così devastata questa donna? Raggiungere la verità non sarà semplice, perché incastrata in quei giochi folli della rete, inaccessibili ed inespugnabili di per se stessi.
Un giallo di grande attualità, che affronta grandi temi: quale sia la condizione giovanile, il loro rapporto con internet, il pericolo del dark web che è così definito:
“Immaginate un iceberg. La parte che galleggia è il web che usiamo tutti. Grande, se la guardi da una nave, ma tutto sommato piccola se pensi a quello che ci sta sotto: la parte sommersa dell’iceberg. Quella parte nella rete si divide in due mondi digitali: il deep web, molto vasto, forse il 90 per cento dell’intero web, dove trovi il riflesso dei siti della parte emersa. (…) Non dovete pensare necessariamente a roba illegale, nel deep ci trovi anche articoli di dissidenti politici, giornalisti, blogger, gente che vive sotto una dittatura. Chiunque voglia mettere in rete senza essere individuato. “
A sovrastare il narrato la personalità di Arcadipane, qui abilmente dipinto. Un uomo che sente il peso dei suoi anni, un matrimonio fallito, il rifugio in una specie di psicoterapeuta che gli organizza incontri su internet che non portano a nulla. Un uomo con difficoltà, con una stanchezza e una malinconia che gli gravano addosso con profondità. Un libro ben scritto, con una prosa raffinata e curata, che affronta con precisione e sapienza narrativa temi moderni che trascinano il lettore con intrigo e malia. Veramente una lettura che merita per amanti del genere e non. Una nuova avventura per un personaggio molto umano, ma di grande astuzia e bellezza intrinseca.

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Consigliato a chi ha amato i precedenti di Davide Longo: Il caso Bramard e Le bestie giovani, tra l'altro tutti i volumi ripubblicati in occasione di questa uscita editoriale.
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Una rabbia semplice 2021-02-27 10:42:59 cardillac
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Opinione inserita da cardillac    27 Febbraio, 2021

Fasullo

Lo compro e lo leggo invogliato da Baricco che ne parla in modo entusiastico: “scrittura di cui si è persa la chiave... un cocktail due parti di Fenoglio, due di Simenon, una di Paolo Conte e 5 di Longo”.
Bah! Non ci sento Simenon (che è asciutto, volutamente piatto, mai ironico) non ci sento Fenoglio, un po’ di Paolo Conte sì. Debbo dire che lo trovo stancante. Cioè: quel modo di scrivere colloquiale, ironico e fantasioso pieno di immagini non banali all’inizio ti prende, poi man mano che diventa ripetitivo risulta poco a poco sempre più pesante; Se trovi una metafora intrigante o un'iperbole ogni tre o quattro pagine è un conto, se sono sparse a manciate ogni cinque righe è un po' troppo. Quando poi arrivano dialoghi che vorrebbero essere spiritosi e sono privi di ogni credibilità (la seduta con la terapeuta) ne hai abbastanza.
Insomma un romanzo fasullo. Il plot non è realistico nonostante sfrutti realtà esistenti (il dark web, i giochi pericolosi on line dei minorenni, già visti nella cronaca e nei film genere Nerve); i personaggi sono inverosimili, talmente poco credibili da essere ridicoli (l’ex-poliziotto che parla con citazioni bibliche, il piccolo genio del computer, figlio di un allevatore di vacche che vive in alpeggio, la psicoterapeuta handicappata); i dialoghi sono falsi come il piombo (quelli con la psico terapeuta, quelli degli incontri con le donne della chat, quelli con la ragazzina bene prima in classifica, ma quando mai un’adolescente si esprime in quel modo?).
I personaggi di Simenon (per stare ad uno degli autori citati a paragone) sono assolutamente “veri”, credibili, perfettamente inseriti in una realtà “reale”; diciamo che qui siamo piuttosto dalle parti della Vargas, non un “giallo” o un “poliziesco” ma un fantasy con un vestito pseudo-giallo.
Perché allora è piaciuto a Baricoo? Qualcuno ha malignamente osservato che Baricco ha fatto una pura e semplice “marchetta” a favore di un ex-allievo della scuola Holden, ma secondo me c’è qualcosa di più per avergli fatto dire “vorrei averlo scritto io”. E quel di più, oltre alla fissa della “rete”, è il respiro che hanno le frasi, le sospensioni, le iterazioni, i salti improvvisi della narrazione, tutto così simile al modo di “narrare” di Baricco da farmi pensare addirittura che ci sia un po’ il suo zampino. E se non c’è vuol dire che Baricco ha riconosciuto il suo stile ed ovviamente gli è piaciuto.
Ancora un'osservazione: Longo ricorre all’uso costante del tempo presente, che generalmente viene utilizzato quando si intende dare un un taglio cinematografico al racconto; è al cinema infatti che lo spettatore “vive” al presente quello che avviene sullo schermo (salvi i flash-back); ma il ritmo della narrazione di Longo non è cinematografico, è piuttosto lento, dispersivo... però... però... anche Baricco quando racconta usa il presente....

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