Tempi d'oro per i morti
Letteratura italiana
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Hoke legge Harold Robbins. Ora tutto si spiega
Comprato lo scorso anno con la promozione Feltrinelli dell'acquisto combinato di due titoli, "Tempi d'oro per i morti" era quello che mi interessava meno ma ho dovuto prenderlo per approfittare dell'offerta. A questo punto mi sento solo di sperare che con l'altro romanzo vada meglio.
Secondo volume della tetralogia dedicata al detective Hoke Moseley, questo romanzo può essere tranquillamente letto come un autoconclusivo: i retroscena dei vari personaggi ci vengono spiegati con chiarezza e le vicende completano il loro arco narrativo con l'ultimo capitolo. La storia di fondo vorrebbe essere un mystery, in particolare un romanzo noir, incentrato su cruenti delitti risolti brillantemente dal protagonista; uso il condizionale perché vengono inserite moltissime sottotrame -a dispetto della brevità del volume- che limitano molto lo spazio dell'indagine principale, tanto da costringere poi l'autore a ricorrere a degli espedienti debolucci per dare un senso alla risoluzione finale.
All'interno del libro seguiamo principalmente Hoke, mentre è impegnato a fronteggiare svariati problemi: sul piano lavorativo deve indagare sulla morte sospetta di un giovane per overdose e risolvere dei casi vecchi di anni per ordine del suo superiore, mentre nella vita privata è angosciato per le ristrettezze economiche, la necessità di trovare una casa a Miami e l'arrivo inatteso delle figlie in città. In sottofondo troviamo le vicende quotidiane di altri personaggi, in particolare i suoi colleghi della Squadra Omicidi.
Voglio parlare subito dei pochi aspetti positivi di "Tempi d'oro per i morti" perché, come avrete forse capito, non è stata una lettura entusiasmante. La prosa di Willeford è davvero incalzante e, pur non brillando per originalità, risulta nel complesso valida. Mi sono piaciute anche le intuizioni inaspettate di Hoke nella prima parte della storia, in uno stile molto sherlockiano; inoltre ho apprezzato particolarmente il personaggio di Ellita Sanchez, partner del detective, per la forza di volontà e la convinzione nei suoi princìpi.
La mia coscienza ora è a posto: mi posso sfogare! Pur tenendo a mente che questo titolo ha più di trentacinque anni, bisogna ammettere che è invecchiato malissimo da ogni punto di vista; probabilmente era lo scopo dell'autore risultare politicamente scorretto, ma c'è un limite tra il descrivere in modo oggettivo una realtà degradata e l'esagerare ogni carattere, ogni battuta, ogni stereotipo solo per il gusto di scioccare il lettore. Di conseguenza anche i personaggi sono tutti scritti in un'ottica fortemente negativa: violenti, ottusi, avidi, opportunisti o molesti, non c'è un individuo degno di essere "salvato"; quello che Willeford ottiene non è però un cast credibile, ma un amalgama di personaggi talmente sopra le righe da suscitare una risata isterica.
Le indagini, che dovrebbero corrispondere al cuore pulsante della storia, danno l'impressione di essere quasi elementi di contorno; questo perché la risoluzione dei casi avviene sempre in modo troppo semplice, quasi senza alcuno sforzo da parte di Hoke e i suoi colleghi. E cosa dire dei dialoghi? mi sento di definirli per lo meno surreali per il modo in cui i personaggi passano da un argomento all'altro nell'arco di una sola frase. Allucinante (e contradditorio) anche il modo in cui Willeford parla del matrimonio, attraverso le parole di Hoke: il detective indica in più occasioni alle figlie che devono pensare a sposarsi, ma ogni coppia vista o nominata nella storia dimostra come quest'istituzione sia il male in Terra, tra omicidi, violenze domestiche, tradimenti e ricatti economici o emotivi.
E poi c'è la scena del cane. Ma per preservare almeno la vostra, di sanità mentale, soprassederò.