Se son rose moriranno
Letteratura italiana
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In requiem di Baciccia
Quinta indagine per la coppia formata dal vice-questore Bartolomeo Rebaudengo e dal medico legale Ardelia Spinola. Inizialmente le indagini per la polizia partiranno a rilento per il casuale ritrovamento di un pacchetto contenente cinque chili di cocaina purissima nel tronco di un vecchio olivo. Ovviamente, però, arriveranno pure gli assassinii (sennò che giallo sarebbe?). Tuttavia sulle prime sembreranno solo decessi naturali di anziani non più in perfetta salute. Certo che la loro morte, così repentina, apparirà strana, perché, in fondo, non erano così malandati da far temere per la loro vita. Ma nulla instraderà subito le indagini anche perché la firma del serial killer (perché di questo si tratta) dapprincipio passerà inosservata.
Tuttavia il romanzo, per i due protagonisti, esordisce con un altro mistero. Il primo, lungo, straziante capitolo è dedicato al micio di Ardelia, Baciccia, avvelenato da mano ignota. L’attenzione del medico legale è tutta assorbita dalla ricerca del colpevole e dal piano per fargliela pagare in modo concreto e duraturo. Poi verranno gli altri guai: il dott. Steiner, il quasi-zio di Ardelia, si fratturerà una caviglia cadendo dalle scale, e cominceranno i vari decessi, via via sempre meno plausibili.
Ma è proprio la morte di Bacciccia a marcare un’impronta duratura su tutta la narrazione. Nessuno che possegga o abbia posseduto un animale da compagnia e, soprattutto, abbia dovuto affrontare il dolore per la sua morte, può restare insensibile a queste prime pagine e ai ragionamenti successivi che farà Ardelia. Ragionamenti che possono apparire esagerazioni a chi non è mai vissuto in simbiosi con un cucciolo, ma che toccano, invece, corde ben sensibili in tutti i gattofili (e cinofili). Il racconto è così ben partecipato e sentito che viene il sospetto si tratti proprio di una pagina autobiografica della Rava che personalmente è stata colpita da una perdita simile. L’A., quindi, prima di affrontare la trama poliziesca in cui a morire sono gli esseri umani (talvolta, a suo dire, meno degni di compassione del micio) gioca abilmente con i sentimenti del lettore suscitandone l’empatia e la commozione. La storia, poi, prosegue come usuale: con l’alternanza tra i resoconti sulle indagini, inizialmente parallele, di Bartolomeo e Ardelia e quelli sulla vita quotidiana, fatta di tanti perché e di un susseguirsi di gesti ordinari e piccoli ostacoli da superare o solo aggirare. Peraltro la trama poliziesca, in questa occasione più ancora che in passato, è solo la scusa per raccontare le vite di Ardelia e Bartolomeo, al punto che l’elemento topico e risolutivo del giallo principale viene messo in disparte e raccontato solo a posteriori; e pure alcuni “fili” secondari dei vari enigmi non verranno annodati e resteranno senza risposta. Tutto ciò per porre in primo piano il resoconto di un’altra storia, quella del rapporto sentimentale tra i due protagonisti, vero fulcro di tutto il romanzo.
Le vicende ci vengono narrate personalmente dalle due voci di Ardelia e Bartolomeo che si avvicendano a riferire delle loro giornate. Questa dicotomia, forse, è l’unico difetto del romanzo. Mentre il flusso dei pensieri dell’anatomopatologa è congeniale all’A. e ormai ben rodato, quindi i suoi soliloqui e le sue elaborazioni mentali sono ben strutturati e scorrono fluidi, risulta assai meno convincente il tentativo di dar voce al Commissario. Forse l’A. ha incontrato difficoltà nel pensare da uomo e nel immedesimarsi “nell’altra metà del cielo”, forse il carattere che dovrebbe avere Rebaudengo (taciturno e “sabaudo”) mal si concilia con le elucubrazioni che gli vengono imposte, ma nei capitoli a lui dedicati non si nota una concreta diversità nei toni e nei ragionamenti rispetto a quelli della dottoressa. Sembra quasi di sentire i pensieri della donna che cerca calarsi nella mente dell’uomo, peraltro, senza riuscirci appieno. Ne risulta, dunque, una lettura “scazonte”, meno coinvolgente e convincente quando a parlare è Bartolomeo. Complessivamente, però, si tratta di un buon libro, piacevole e divertente. La storia poliziesca non è certo insolubile, né esistono quella suspense e azione tipiche del genere, ma i ragionamenti fatti dai due protagonisti, siano essi seri o meno seri, le vicende, vuoi spassose o drammatiche che siano, avvincono e interessano, e non fanno mai calare l’attenzione del lettore.
Piccola tirata d’orecchi conclusiva sull’espediente (che ovviamente non rivelo) usato come firma dal killer. Non solo l’idea non è originalissima, anzi sfiora quasi il plagio pur se trapiantata in contesto diverso, ma soprattutto rischia di rivelare, con eccessivo anticipo, gli sviluppi successivi della storia. Per chi, come Ardelia (e i suoi più affezionati fan), si sciroppa romanzi e telefilm polizieschi in ogni occasione utile, è una traccia troppo palese e diventa uno spoiler involontario.
Vorrei concludere, però, con la citazione di uno degli ultimi pensieri di Rebaudengo che, ora, mai come prima, mi sembra estremamente significativo e attuale.
“Negli anni in un certo senso mi sono rassegnato al male, però mi stanca constatare che qualsiasi atto violento, che sia un calcio in uno stinco durante la partita o una guerra, con uno sforzo di volontà e d’intelligenza si potrebbe evitare ed invece non accade mai. Difendersi bisogna, ma chi comincia è sempre un coglione, che sia un ragazzino o un capo di stato.”