Primo venne Caino
Letteratura italiana
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Il Tatuatore
Mariano Sabatini, dopo il suo esordio narrativo due anni orsono con L’inganno dell’ippocastano, torna ora con Primo venne Caino, che vede protagonista assoluto il giornalista del Globo (testata fittizia), Leonardo Malinverno. Leonardo è un giornalista d’assalto, di grande intuito e di ottime conoscenze, ha un ottimo fiuto investigativo, una forte inadeguatezza sentimentale, tendente alla negazione di sé e alla non raggiungibilità,
“da tutto e da tutti, come in una pausa tra una nota musicale e l’altra.”.
Un uomo onesto e consapevole dei difetti insiti in una professione che si nutre:
“dell’attrazione del pubblico per i particolari sanguinolenti e trasforma gli studi televisivi in telecamere ardenti”.
Primo venne Caino è un titolo alquanto indicativo dell’intera narrazione, poiché:
“Caino è stato il primo tatuato dell’umanità, se ne parla nella Genesi e poi in Levitico, il testo da cui si evince l’avversione del cattolicesimo per il tatoo. (…) “non vi farete incisioni nella carne, né vi farete tatuaggi addosso, io sono il Signore.” (…) Anche l’Apocalisse fa riferimento al marchio della bestia, il famigerato 666 su cui si sono fatte migliaia di illazioni millenaristiche, esoteriche, massoniche… “
Così un serial killer sta mietendo numerose vittime a Roma, e per questo suo modus operandi è detto: “Il Tatuatore”: stordisce i malcapitati, le soffoca con un sacchetto in testa, e poi li scuoia, portandosi via i trofei-tatuati. Il maggiore dei Carabinieri, Walter Sgrò, uomo dal passato torbido, oscuro e poco felice, brancola nel buio ed è costretto a rivolgersi al giornalista Malinverno, contando sulla sua ottima capacità di sollevare un polverone mediatico, senza creare panico tra le persone. Malinverno accetta, e il circo
“dell’horrortainment si è messo in moto e il dolore palpitante si è trasformato in intrattenimento televisivo.”
Mentre il Tatuatore prosegue tranquillo la sua collezione di macabri ornamenti tatuati, Malinverno lo insegue a fatica , aiutato dalla colta dottrina dell’antropologo Paolo Marziale, in grado di conoscere l’arte e la simbologia del tatuaggio fin dai suoi esordi biblici.
Ambientato in una Roma che:
“esisteva soltanto più per i forestieri. Gli unici che la guardavano con riverenza, lo stupore, la riconoscenza che merita quasi esclusivamente per la sua storia. (…) La città era orami diventata un enorme set con grandi e maestosi fondali, dietro i quali nascondere di tutto.”
Un romanzo dal solido e perfetto intreccio narrativo, che avvince ed intriga il lettore, colpito anche dai dialoghi vivaci e dalle caratterizzazioni, precise e puntuali, dei personaggi, tutti ottimamente descritti. Non da meno i personaggi di contorno, comprimari o figure secondarie, che l’autore descrive con abili tratti. Ecco che la fidanzata giovane Eimì splende “della consapevolezza di secoli e secoli di letteratura, di mitologia, di gesta eroiche”; il padre Arrigo entra in scena “nel modo improvviso, fastidioso, e invasivo di un raffreddore”; il direttore ad interim Tommaso Lembo descritto come “piccolo in tutti i sensi, rincalcato, di un’asciuttezza malsana, e sembra sempre volersi scusare d’esser nato”; Luigia Citran, che a dispetto di “una figura gracile domina lo spazio al pari di una sovrana, prodiga di fierezza e di sprezzo”.
Un romanzo, a tratti crudo, ma ricercato e di alta qualità. Un’ottima lettura.