Ossigeno
Letteratura italiana
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Ossigeno, ossigeno.
«Il giorno in cui hanno liberato lei hanno rinchiuso me. Da cinque anni a questa parte Laura è la vacanza che di tanto in tanto mi concedo, nonostante le ore di macchina e le spese. Boccate d’ossigeno che mi dicono quello di cui ho bisogno: e non solo.»
È il sei ottobre del 2013 quando il Professor Carlo Maria Balestri è accusato di rapimento, tortura, omicidio e occultamento di cadavere. Suo figlio aveva ventisette anni, lui cinquantanove. È questo il momento in cui Luca comprende di essere rimasto solo.
Sin dalle prime battute la sensazione che viene provata dal lettore è quella di un vuoto senza scampo che richiede ossigeno. Ossigeno come dal titolo, ossigeno che tra queste pagine manca e che è richiesto a polmoni pieni. Perché è prima di tutto questo quel che domandano i vari protagonisti dell’opera.
Lo chiede Luca che ha visto la sua vita sgretolarsi di fronte alla consapevolezza che quel padre non era chi aveva sempre creduto potesse essere e che non passa giorno senza chiedersi quanto quell’essere mostro possa essere contagioso, quanto possa essere radicato in lui, quanto l’azione dell’uno possa avere conseguenze anche sulle vite degli altri. Vicini e lontani. Come sopravvivere a quell’ombra che suo padre ha gettato su di lui?
E poi abbiamo Laura che di anni ne avevano otto quando in quel 12 di agosto del 1999 diventa vittima e preda del suo carceriere. Una data, questa, collegata a Luca per quel che quel giorno egli stesso visse. E allora scopriamo della sua prigionia, della sua dipendenza da quel container che l’ha ospitata per 15 anni, da quelle sigarette sinonimo di boccata d’aria e ossigeno. Come gestire adesso tutto quello spazio? Come convivere con quel cielo sovrastante e con così tanta gente quando negli anni la tua unica compagnia è stata lui con i suoi silenzi e il tetto di quella struttura che ti ospitava? Come convivere con quei sensi così acuti che reagiscono a tutto? Come mantenere la propria facciata quando la maschera è sempre più sul punto di cedere a quelle crepe che la solcano?
Come convivere, ancora, con quella donna che è quasi una sconosciuta e che è tornata dopo una così lunga assenza e con ferite incomprensibili? Come chiamarla figlia quando di lei non conosci alcunché anche se sei la madre? Come convivere, tu madre, con la consapevolezza che sarebbe stato meglio se non l’avessero mai riportata? Una terza voce e narrazione, quella di quest’ultima, che ben si alterna alle due precedenti ricostruendo un quadro completo di volti, voci e situazioni che marchiano sottopelle.
Se non puoi riconoscerti, puoi almeno accettarti? Puoi imparare a conoscere?
«Insomma, mi si chiede di rompere quel ponte che dura da secoli. Non ho più un prima. L’asfalto è crollato, nella strada che mi lega a tutto c’è un buco: porta il nome di mio padre. Lo stesso che mi ha formato, istruito, protetto, consigliato, guidato, vestito. Amato. Ma mio padre non è un evento qualsiasi. Ho un mignolo che parla chiaro.»
“Ossigeno” di Sacha Naspini è un titolo caratterizzato da una penna acuta, asciutta, priva di fronzoli, emotiva e capace di catapultare il lettore tanto in quel container quanto nella vita e nella mente di ogni attore principale. È un titolo che tiene alta l’attenzione del conoscitore senza mai perdere di intensità e che si prefigge di trattare tematiche importanti che non si limitano al prima ma anche al dopo. Perché cosa succede dopo un fatto cruento che per una ragione o per l’altra incombe nelle nostre vite? Cosa succede a chi viene catturato nel prima e nell’ipotesi successiva in cui riacquisti la libertà? Chi subisce davvero gli effetti di quanto accaduto? Cosa accade a quei loro che perdono quell’affetto e che inaspettatamente lo ritrovano? E cosa accade a chi è legato al mostro? Cosa succede a chi si porta dietro quell’ombra?
Un titolo intelligente, ben strutturato, capace di catturare e suscitare emozioni che scuotono e che non si dimenticano. Che scava dentro e interroga. Da leggere.
«Forse gli avrei aperto il viso a unghiate se si fosse presentato nel bilocale in cui mi stavano ospitando. Eppure una parte di me cercava il suo abbraccio; era uno schifo doverlo ammettere: spettava a lui tenermi, stringere con più forza. Avevamo ricevuto un colpo di vento che aveva buttato giù tutto. Camminavamo su macerie impossibili. […] Eravamo ignoranti; apprendevamo l’amaro del vivere della sofferenza, senza linguaggio. Impugnavamo alfabeti miseri che portano a scelte misere: io andare, lui lasciare che lo facessi. Ci sono casi in cui liberare qualcuno è un peccato mortale, ti segna per sempre.»