Narrativa italiana Gialli, Thriller, Horror Mille giorni che non vieni
 

Mille giorni che non vieni Mille giorni che non vieni

Mille giorni che non vieni

Letteratura italiana

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Dopo sei anni di reclusione in un istituto di pena, a causa di lunga condanna per omicidio, Antonio Caruso una mattina viene inaspettatamente scarcerato. Sembra che la vita voglia offrirgli una seconda occasione. Ha solo 27 anni e la consapevolezza di aver commesso molti errori; ora quell'occasione vuole sfruttarla. Vuole recuperare l'amore e la stima di Maria Luce, l'adorata moglie che l'ha lasciato non appena ha scoperto che lui aveva ammazzato un uomo. E poi c'è Rachelina, la figlia di sette anni che Antonio ha incontrato solo una volta. Può bastare il desiderio di riconquistare una donna e l'affetto di una figlia che non si è visto crescere, a riscattare una vita sbagliata? O invece il destino di Antonio è quello di perpetrare il male, perché nelle sue vene, come gli ha detto sprezzante il direttore del carcere, scorre solo sangue delinquente? Il destino di Antonio è quello degli eroi, spesso negativi, dei grandi romanzi noir, forse condannati alla sconfitta ma pronti sino alla fine a correre ogni rischio e a combattere qualunque battaglia. Segnato da un personalissimo sentimento della giustizia, da una rabbia in cui convivono il bene e il male, "Mille giorni che non vieni" è un romanzo teso fino all'ultimo respiro, dalle sorprendenti svolte narrative. È il ritratto di un personaggio che insegue se stesso in un labirinto da cui è possibile uscire, ma solo per trovarsi nuovamente al punto di partenza. La tensione che segna ogni pagina non abbandona il lettore neanche a libro finito. Longo mantiene per tutta la narrazione un sentimento puro che incanta, che fa a pugni con le scelte del suo personaggio dettate da quello stesso sentimento.



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Mille giorni che non vieni 2023-03-16 15:54:57 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Marzo, 2023
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Delitto e castigo

Una legge morale dall’alba dei tempi recita che ad ogni delitto segua il giusto castigo.
Concetto introdotto già da Beccaria, poi Dostoevskij ne trasse anche un bel romanzo.
Nella società civile, la privazione della libertà personale è una misura estrema, volta certamente non a punire ma al recupero del reo, lo prevede la Costituzione, tramite un percorso di consapevolezza, di crescita e maturazione seguita da evidente ravvedimento, ed infine un utile ed operoso reinserimento nel vivere comune, in sintesi il carcere serve a conseguire la libertà attraverso sanzione e rimedio.
Sarà; certamente non è questo il caso di Antonio Caruso, protagonista del romanzo “Mille giorni che non vieni” di Andrej Longo, scrittore ischitano di nascita e napoletano d’elezione.
Caruso da un giorno all’altro si ritrova rilasciato, posto in libertà, senza nemmeno conoscerne i motivi effettivi: nessuno, tantomeno il suo legale, sono al corrente del provvedimento di sospensione immediata del castigo. Per quanto concerne il delitto, invece, Caruso sa benissimo di essere colpevole, e di un reato tra i più gravi, oltretutto, un omicidio.
Non è reo confesso, o pentito del suo gesto: ha fatto fuori Skorpio, un malavitoso suo pari se non pure peggio, magari avrebbe anche preferito evitarlo ma certamente non poteva esimersi, sentiva di doverlo fare. E lo ha fatto.
L’assassinato a colpi di pistola era un infame, secondo il codice deontologico a cui Caruso aderisce dalla nascita, lo aveva colpito nei suoi affetti più sacri, ben oltre i legami di sangue, prima ancora che nei suoi affari. Come a dire, Skorpio se l’era cercato, ma soprattutto era un viatico obbligato nel mondo di Caruso. Malgrado sconti già da diversi anni la sua colpa, e tanti altri ne ha davanti, Caruso tuttavia accetta lo scorrere della reclusione quasi con compostezza, senza speranza ma neanche senza particolare avvilimento, perché la disperazione in carcere è pericolosa, il detenuto Caruso conosce le statistiche di suicidi nelle carceri meglio di un operatore del sociale.
“…il passato è un’ombra scura che ti viene a cercare ogni sera”.
Non può permettersi alcun scoramento, per quanto sia conscio della sua avvilente condizione, fuori dalle sbarre ha una moglie, che per quanto ancora innamorata di lui è triste e non lo aspetta più, ma soprattutto l’amatissima figlia, che invece vorrebbe tanto rivederlo, almeno quanto lui.
La piccola non ha ancora strumenti e coscienza per intendere perché il suo papà, di cui pur recepisce in pieno l’amore smisurato che porta alla sua bambina, lascia trascorrere tanto tempo, tanti momenti, mille giorni che non viene a trovarla.
Antonio Caruso è un figlio del suo tempo, dell’habitat e delle condizioni in cui è nato e cresciuto.
Viene dalla strada, quelle di vie, viuzze, vicoli, piazze e quartieri degradati: la sua formazione è, di necessità, per pura sopravvivenza, di natura delinquenziale.
Non vive, Caruso, neanche studia o lavora, a quelli come lui scuola e lavoro sono negati quasi per dettato costituzionale, semplicemente si arrangia.
Vale a dire che trova, racimola, mette insieme quanto serve per sostenersi, e poi sostenere la fidanzata in stato interessante, nel solo modo che la vita gli riserva: fuorilegge.
Come fanno tutti, ad iniziare dagli amici con cui cresce che sono la sua unica, vera famiglia: Tyson, Polpetta, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone, Mezza Recchia.
“…eravamo immortali. E ci mangiavamo la vita a morsi, più in fretta che ci riusciva”.
Non sono macchiette, sono per davvero la sua famiglia, le persone che ha più care al mondo, per cui si farebbe uccidere…e uccide.
Pertanto, una volta rimesso in libertà, Antonio prende la cosa nell’unico modo giusto che una persona intelligente come in effetti è, e anche ricco di umanità, malgrado i trascorsi delinquenziali, può fare: come una seconda chance. Una via d’uscita dal suo passato che il caso, la fatalità, la vita intende offrirgli, una pista di scampo, una svolta, una nuova direzione.
Tutte buone intenzioni…che rischiano di rimanere tali.
Perché Caruso si industria, si ingegna, si sforza per rifarsi un’esistenza priva di sbarre e palpitazioni, intende procedere su una retta via per amore sia della moglie Maria Luce che della piccola Rachelina.
Si rivolge allora per un aiuto al cappellano del carcere, per suo tramite viene assunto per guidare i camion…salvo poi accorgersi che al peggio non c’è mai fine.
Antonio Caruso vorrebbe semplicemente passeggiare al braccio di sua moglie sul lungomare, giocare con la figlia e poi regalarle un gelato, ritirarsi la sera dopo una lunga giornata di lavoro faticoso e mal pagato, solo questo, e non più delinquere: ma il suo destino sembra essere un fine pena mai.
Perché i camionisti devono ingurgitare pasticche e intrugli osceni per sostenere viaggi dai ritmi impossibili, ignorando come muli con i paraocchi quello che trasportano.
Dietro merci comunissime come verdure e pomodori vengono celati esseri umani, ancora più disgraziati dello stesso Caruso, perché utilizzati non tanto come forza lavoro, sempre il termine “lavoro” suona come chimera in certe situazioni, bensì nell’espianto di organi.
Inoltre, armi, droghe, rifiuti tossici. Con il corollario del bisogno perenne, il ricorso costretto agli usurai, le pretese pedofile di queste.
“…ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati”.
Antonio Caruso allora decide di riprendersi la sua esistenza, torna a mettersi in gioco, a rischiare in proprio, questa volta però dalla parte giusta: questo sì, il solo modo di rieducare un reo, recuperarlo alla società civile, molto più di come potrebbe farlo un qualsiasi carcere.
Pagando il prezzo che deve.
Andrej Longo non ci offre un romanzo di guardie e ladri, di buoni e cattivi.
Con la scrittura scarna, essenziale e incisiva che lo contraddistingue, Longo induce a riflessioni, per quanto amare. Lo scrittore ha una prosa scorrevole, agile e disinvolta; si fa leggere e seguire con facilità, comprensibile a chiunque anche quando indulge nelle forme dialettali, la sua è una attenta disamina sociale che illustra una certa realtà degradata a spirale, dove sui bordi permangono i buoni, certo, e però nel vortice chiunque può finirci, mancando appigli sicuri come il lavoro, la scuola, la cultura, i libri, ancor di più se nessuno si muove di quelli che potrebbero venire in soccorso.
Forse il finale non soddisfa pienamente il lettore, ed è l'unico limite del libro. Ma quello che Longo intende sottolineare, è altro: che serve che i derelitti imparino in fretta a sottrarsi al vortice, perché il fondo, questo Longo lo dice chiaro e tondo, è un inferno. A cui un buon padre, per quanto delinquente, per amore sa sottrarsi, la piccola Rachelina anela solo mille giorni con il suo papà.

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Andrej Longo
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Mille giorni che non vieni 2022-10-13 15:14:28 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Ottobre, 2022
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La libertà perduta

«Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare.»

Antonio Caruso sa bene di averlo commesso l’omicidio di Skorpio, sa bene di meritare la condanna, sa bene di non aver comunque fiatato al tempo e nemmeno ora sul suo possibile complice ma anche su come andarono i fatti. E sono sei anni che sta scontando, e sette quelli che gli restano, per questa sua pena che cela dietro la facciata perché lui pentito non è del gesto fatto, il fetente se lo è meritato di passare a miglior vita dopo quel che è stato fatto al compare suo. Eppure, proprio in uno di quei giorni che, come tanti, scorrono in carcere, ecco che Antonio si ritrova libero. Scarcerato. Libero. Scarcerato. Scarcerato perché il vero colpevole ha confessato il reato. Com’è possibile, si chiede, se appunto è consapevole di essere lui il vero artefice? Ben presto scopre chi ha confessato della morte ma scopre anche della sua fine. Torna in libertà, cerca di riconquistare la sua Maria Luce, bella come non mai seppur con quel suo parlare con i segni che manco sempre comprende se lei è particolarmente arrabbiata e quindi troppo veloce nel compiere, non vede l’ora di riabbracciare la sua Rachelina che gli ripete che sono mille giorni che non viene. Ma cosa può fare un ex galeotto con alle spalle una condanna per omicidio per tornare a una vita normale? Quale lavoro potrà mai trovare? A quali condizioni? E soprattutto, chi mai si fiderà di lui? Si rivolge a padre Vincenzo conosciuto in carcere e che un effetto su di lui, scopriremo, lo ha avuto.

«È vero, Caffeina sapeva come trattare i fantasmi degli altri. Perché i fantasmi lui li conosceva bene: ci combatteva giorno e notte. I suoi erano implacabili e non riusciva a domarli. Ogni tanto me ne parlava, e durante le nostre chiacchierate non mi chiedeva mai una consolazione o un facile perdono, piuttosto scavava nel profondo delle sue angosce per cercare di scacciarli quei fantasmi. Ma l’impossibilità di non poter rimediare a ciò che aveva fatto e al dolore che aveva causato, lo tormentava più di ogni altra cosa…»

Tuttavia, Antonio, sembra chiamarsele. Tante le circostanze che si trova ad affrontare, da un lato vi è il desiderio di riconquistare la moglie e mantenere l’affetto della figlia, dall’altro vi è il desiderio di sentirsi utili, lavorare, portare a casa i soldi che la compagna guadagna rovinandosi le mani, dall’altro ancora il desiderio di non tornare più dentro a un carcere. Ma cosa può fare? Tubi non ne sa aggiustare, imbiancare non è capace, muratore nemmeno, giusto un po’ con le macchine si arrangiava da giovinetto. Ed è qui che, per vie traverse, si ritrova a guidare camion. Gli viene procurata pure la patente. Sembra anche un cerchio che si chiude stante che, anni orsono, tutto è iniziato proprio con lui che aveva trovato lavoro come autista di questi mentre poi è finito in gattabuia. Gli offrono anche un lauto compenso, ad Antonio. Ottocento euro, poi dimezzati, per guidare il camion sino a un paesino della Calabria. Tanti soldi per una notte, tanti, troppi, soldi. Ma Antonio deve lavorare, deve pagare gli occhiali alla figlia, deve aiutare la moglie. Parte. Davanti è scortato da una macchina, dietro ha Gennaro, lo scagnozzo del mandante Tony. C’è qualcosa che proprio non gli torna in quel viaggio. Un qualcosa che lo convince sempre più di essersi cacciato in un gran bel guaio ma anche in una situazione losca ai danni di un qualcosa che nemmeno immagina.

«Ma per me era una frase tanto per dire, che non significava niente. Perché nella vita succedono cose piene di dolore che non puoi evitare e prima o poi ti toccano, e in quelle occasioni è giusto piangere, è un diritto che all’uomo spetta.
Però ci sono situazioni come queste, che sei stato stesso tu a creare. E allora, se ti metti a piangere, vuol dire solo che nella vita hai sbagliato tutto. E pure se ti sforzi, pure se cerchi di lottare, quello che hai sbagliato continua a stare là, come un’ombra nera che ti aspetta, e che quando meno ci pensi salta fuori, ti acchiappa per un braccio e ti ringhia sulla faccia.»

Arriverà il momento in cui Antonio scoprirà della verità e dovrà agire. Si dirà di farsi i fatti suoi ma poi non potrà tirarsi indietro perché a farne le conseguenze saranno persone innocenti, vite innocenti. Ci sarà un prezzo, come per tutte le cose. Ma ci sono anche momenti in cui la coscienza, la morale, la giustizia, vanno oltre e tu semplicemente devi fare quello che è giusto perché non puoi portarti il peso di non aver fatto.
Avrà inizio da qui una narrazione serrata, che trattiene il lettore attaccato alle pagine. Tante le tematiche che vengono trattate e che ruotano sì attorno al diritto carcerario, al reo, alla rieducazione del condannato, alla realtà carceraria, al reinserimento sociale con annessa e connessa fallacità del sistema ma che toccheranno anche la criminalità, l’immigrazione, il diritto di vivere, il diritto di avere una seconda occasione, la possibilità di auspicare a una vita dignitosa, all’umano trattato come oggetto utile in ogni sua parte e componente e poi buona a essere gettata dopo l’utilizzo.
Andrej Longo pone in essere una perfetta fotografia della realtà detentiva ma anche sociale del concreto vivere. Realizza un’opera che sa toccare il lettore nelle corde più profonde e sconvolgerlo. In appena 298 pagine offre a questo molteplici spunti di riflessione che non mancano di sollevare domande a cui è necessario dare risposte. Un libro dal quale non ci si riesce a staccare, si finisce in una notte. Un sincero ringraziamento, dal cuore, per questo regalo ricevuto. Inaspettato quanto incancellabile e prezioso.

«Non lo so se è una questione di coscienza. Per me il fatto è che ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati. Un po’ come noi che stiamo chiusi qua dentro, perché noi alla fine, per la maggior parte, siamo quelli che non avevano niente. Certo, abbiamo le nostre colpe, anche io ho le mie, non dico di no. Ma se io, tanto per dire, ero figlio vostro, allora forse non avrei fatto quella vita che poi mi ha portato qua dentro. Perciò alla fin fine, per rispondere alla sua domanda, penso che non si tratta di una questione di coscienza, ma più che altro di giustizia.»

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