La sindone del diavolo La sindone del diavolo

La sindone del diavolo

Letteratura italiana

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Venezia, estate 1313. Nel corso del suo lungo esilio, Dante Alighieri non ha mai visto un luogo simile. Il poeta deve affrontare quella labirintica selva di calli e canali per rintracciare uno speziale saraceno, Nazeeh Al Bashra, che si nasconde nei tenebrosi recessi della città. Un uomo accompagnato da una fama sinistra, ma che forse è l'unico in grado di curare Arrigo VII. Dante ha ancora negli occhi il viso sofferente dell'imperatore, sul quale un male antico ha scritto l'esito fatale del suo destino. Un destino legato a filo doppio a quello del poeta, che con la morte del suo protettore perderebbe anche l'ultima speranza di rientrare da trionfatore nell'amata Firenze. Eppure, fin dall'inizio, la missione presenta risvolti inquietanti.



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La sindone del diavolo 2014-12-02 23:19:21 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Dicembre, 2014
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Che diavolo succede?

De “La sindone del diavolo” di Giulio Leoni si occupa un insolito investigatore: Dante Alighieri.

Arrigo VII, imperatore che per Dante incarna “le speranze per l’intera Italia di ritrovare la pace e la giustizia perdute, sotto l’illuminato giudizio dell’aquila”, è gravemente ammalato. Sembra che ci sia un unico rimedio alla sua malattia: un misterioso filtro, che si trova a Venezia.
Per questo Dante, senza troppi indugi, parte alla volta della Serenissima.

L’atmosfera misteriosa (“forse c’era davvero un demone maligno”) della città lagunare (“Dicono che sia il diavolo a suonare il liuto, nelle notti di luna sui ponti di Venezia”) fa da sfondo alla ricerca poetica. Dante ha pressoché concluso l’Inferno, ma si trova a fronteggiare quella che oggi chiameremmo la sindrome della pagina bianca. Come rappresentare il Male “alla fine dell’Inferno, la prima cantica che è degli spiriti sommersi”?
Un “essere dalla testa incandescente”?
Oppure un’entità di “terribile bellezza”, se “dunque Lucifero aveva mantenuto intatto il suo splendore, pur nella degradazione della lontananza da Dio. Dunque la bellezza era un attributo del Male”?
“Come sarebbe riuscito a comunicare… l’abissale potenza del male, la sua immensa arroganza, la sfrenatezza dei sensi… tutta la tenebrosa infamia della nostra stirpe cui l’uomo aveva dato il nome splendente di lucifero per strapparsene di dosso la colpa?”
Come rappresentare “il senso della perdizione totale, di assoluta assenza della luce”?

Il romanzo è piuttosto intricato, la narrazione risente di uno stile che cerca di rispettare l’epoca medioevale nella quale i fatti sono collocati; i riferimenti letterari, storici e culturali (“Parlando con Giotto dei segreti della prospettiva, ricordava che l’amico gli aveva spiegato come utilizzare il chiaroscuro per ottenere la profondità: il bianco esce e il nero rientra”) potrebbero rivelarsi stimolanti per gli appassionati spinti (io non lo sono) del genere.

Bruno Elpis

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