La morra cinese
Letteratura italiana
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Si può morire per un Bosco (Torto).
A Pineta, sede del BarLume frequentato dai vispi “Vecchietti” protagonisti della famosa serie ideata da Marco Malvaldi, raramente si godono momenti di quiete. In quest’ultimo romanzo della serie i problemi sul tappeto non sono pochi: intanto c’è la vittoria delle destre che spodestano la vecchia giunta comunale, poi la questione dello spazio da occupare al di fuori del bar per tavolini e quant’altro, spazio naturalmente non gratuito che dovrà costringere i gestori a rifare conti, rimodulare tariffe, acquisire eventuale nuovo personale. Ma la notizia clou è il ritrovamento di un cadavere sul retro del palazzo comunale, è quello di un giovane ricercatore universitario, volato giù (buttato?) dai piani alti dell’edificio. Si tratta di Stefano Colamartino, 26 anni, incaricato di svolgere una ricerca su un vecchio carteggio custodito nella fatiscente villa del conte Serra Catellani: vengono anche alla luce una lettera autografa di Giacomo Leopardi, nonché preziose annotazioni su una probabile antica fonte termale in una zona (Bosco Torto) , oggetto di trattativa tra il Comune ed un’importante impresa. La scoperta non va rivelata, i prezzi lieviterebbero, ecco il principale motivo per cui l’assassino ha eliminato il povero Stefano. Chi sarà stato il colpevole? Le indagini condotte dall’abile vicequestore Alice sono lunghe e complesse: sono esaminati ora dopo ora gli spostamenti del personale all’interno del Comune, nei vari piani, con l’ausilio delle fotocamere e, finalmente, l’assassino è scovato e messo alle strette. Ovviamente i Vecchietti del BarLume danno il loro contributo, mettendo in luce buon senso e spirito pratico, tra una battuta di spirito e l’altra: una specie di indagine parallela, rievocando anche pettegolezzi del passato, nella saggia convinzione che spesse volte a pensar male si indovina.
Insomma, si può morire per un terreno boscoso che nasconde tesori naturali e che può far gola: non c’è naturalmente solo questo nel romanzo, altri argomenti affiorano qua e là, come, ad esempio, lunghe e complesse disquisizioni sui cosiddetti “usi civici”, cioè la possibilità dell’uso pubblico di zone di proprietà, uso che ne impedisce in certi casi la vendita. Complicata è anche l’indagine poliziesca: sono molte le persone indagate, tanto da indurre l’autore ad avvalersi di disegnini esplicativi (incomprensibili) dei locali comunali frequentati dai presunti colpevoli. Insomma, il tutto obbliga il lettore a continui esercizi di memoria che, per fortuna, sono stemperati dagli interventi dei Vecchietti con il loro umorismo e la loro ironia.
“La morra cinese” è il nono romanzo della serie del BarLume, il primo che ho letto. Devo ammettere che non mi ha particolarmente entusiasmato, forse colpa mia che non sono riuscito ancora a entrare nel particolare “clima” anche mediatico che circonda il BarLume. Belle le battute, simpatici i protagonisti, azzeccati i riferimenti ai problemi dei nostri tempi (pastoie burocratiche, luminari universitari spocchiosi e approfittatori, politicanti pronti sempre a farsi i propri affari, ecc.ecc.) ma il tutto sembra traballante, disarticolato, anche faticoso da leggere.
Forse è proprio azzeccato il titolo, “La morra cinese”, equivalente al nostro Carta,Forbice,Bastone: indica infatti una situazione disperata che non si sa come affrontare, ma dalla quale si cerca di uscire ad ogni costo. Mettendo a dura prova l’attenzione e la memoria del lettore.
Lo stile narrativo scorre via, a balzi e frenate: frequenti i colloqui nell’incisivo dialetto locale.
Esilarante qualche trovata, come quella del vicequestore Alice, che in cucina sull’etichetta del barattolo del riso scrive un bel “Ah!Ah!Ah!” e su quella del sale grosso “Clorurone di sodio”. Mica male, no?