L'uomo che dipingeva con i coltelli
Letteratura italiana
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L'uomo che dipingeva con i coltelli
“…Dmtrj era albino. E per questo non poteva uscire molto spesso di casa. Quando lo faceva era quasi sempre sera e, se varcava quelle quattro mura di giorno, doveva coprirsi completamente. La gente lo scherniva e lo temeva: credeva che fosse figlio di Satana, che fosse in possesso di particolari facoltà demoniache. Tutti tendevano a puntare il dito su di lui quando si abbattevano piccole carestie o si verificavano scarsi raccolti o altri gravi eventi.
Non aveva amici. Nessuno aveva mai osato avvicinarsi a lui. …”. Dmtrj quindi era un “diverso”! E non solo era diverso per il suo aspetto “scolorito” ma anche per il modo di vedere le cose, perché fino all’età di sedici anni era stato cieco. La cecità gli aveva risparmiato le umiliazioni e i patimenti che la paura del “diverso”, di ciò che non si capisce, di chi non è uguale a noi, ha sempre generato in ogni epoca storica e a qualsiasi latitudine. Il mondo di tenebre in cui si trovava, involontariamente, a vivere, come sempre accade, gli aveva permesso di sviluppare in maniera acuta gli altri quattro sensi ma il riacquistare la vista, per merito di un guaritore capitato per caso nel suo paese, non gli porta la normalità auspicata. Il contrasto tra il suo mondo immaginario e quello reale è un trauma talmente forte che riuscirà a metabolizzarlo solo con l’arte della pittura. Un’arte personalizzata, malata, che rasenta la follia ma proprio perché si libra sul filo della malattia mentale è un’arte che raggiunge una perfezione di forme e una variante di colori incredibili. Lo studio incessante e maniacale dei colori, il loro amalgamarsi, scindersi, sciogliersi con le altre sostanze, sfumare delicatamente con il sole o rapprendersi all’aria è il punto di forza di questo inusuale ma senz’altro validissimo personaggio, protagonista del romanzo d’esordio di Marco Mazzanti.
A Dmtrj diverso per nascita e fisico, si contrappone un altro “diverso” per la morale comune: Scile. È un ragazzo che già da bambino, per vivere, si prostituisce. Le sodomizzazioni e le crudeltà a cui è sottoposto lo portano ben presto a nutrire un rancore sordo e profondo verso i suoi simili tanto da indurlo a prendere una decisione estrema: lo scopo della sua vita sarà quello di farsi giustizia da solo, di vendicarsi delle umiliazioni corporali e delle angherie psicologiche subite.
I due personaggi così diversi nei loro colori, per rimanere nel tema del racconto, differenti fisicamente e nel modo di vivere, per estrazione sociale sono, però, accomunati dallo stesso sordo rancore verso gli esseri umani che entrambi non riconoscono tali ma che definiscono sprezzantemente “carne” intendendo con questo termine solo una massa informe di organi, pelle ed ossa che, priva di sentimenti, abita il mondo. Ma ancora di più, con abile mossa, l’autore li vincola indissolubilmente uno all’altro, facendoli innamorare della stessa donna.
La giovane e bellissima Asja, albina e cieca, anche lei, dalla nascita, è come un fugace raggio di sole che penetra, rischiarandola appena, la notte senza fine delle anime cupe e perdute dei due uomini. Spettacolare il contrasto che Marco Mazzanti riesce a creare con la descrizione dei colori tenui e delicati e la dolcezza che emana la fanciulla e gli animi corrotti ed esacerbati dei due pretendenti.
Ciò che più mi ha colpita, leggendo il romanzo, è stato l’approfondimento psicologico dei protagonisti tanto che la ritengo una caratteristica peculiare del lavoro di Mazzanti. Sembra che l’autore abbia scomposto, studiato e ricomposto la mente di ognuno di loro fin nei più remoti recessi, che ogni singolo neurone non sia sfuggito alla sua scrupolosa analisi. Come se Dmtrj, Scile ed Asja siano passati sul lettino di uno psichiatra e l’autore, presente all’incontro, abbia annotato ogni loro esternazione.
Gli appunti “visivi” che l’autore inserisce nei paragrafi sono eccezionali, come incredibilmente precisi sono gli odori ed i sapori che si percepiscono sfogliando le pagine de “L’uomo che dipingeva con i coltelli”. Neanche gli scenari che si susseguono a ritmo incalzante sono mai approssimativi ma sempre ben delineati e la natura fa da supporto perfetto, anzi oserei dire, evidenzia ancora più chiaramente i tormenti delle anime. Meritevole di un breve accenno è anche il pathos che l’eterno pellegrinare dei protagonisti, di terra in terra, senza pace, senza saper mettere radici, suscita nel lettore e che non può non far pensare alla ricerca disperata di una irraggiungibile pace interiore.
È un thriller d’effetto per l’originalità della vicenda narrata, per il periodo storico abbastanza inconsueto –gli albori dell’anno 1000- e l’insolito ma efficace impatto visivo/olfattivo che intrigano chi legge. Sostenuto dalla trama ricca d’azione e di colpi di scena, dalla narrazione scorrevole e dall’eccellente proprietà di linguaggio dell’autore, che non viene mai meno fino all’ultimo rigo, è un volume che consiglio di inserire nella propria libreria.