L'inverno più nero
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Bologna nera
"Blu notte". “L’inverno più nero". È chiaro che a Carlo Lucarelli piacciano le tonalità scure, e scure sono anche le vicende e l'ambientazione di questo suo ultimo romanzo, che ha come protagonista il commissario De Luca.
Ma partiamo dall'ambientazione, che secondo me è l'aspetto più interessante e riuscito del romanzo: una Bologna del 1944 in piena occupazione tedesca; dilaniata dalle bombe; pregna del terrore perpetrato dalle truppe naziste e dai fascisti; soggetta a coprifuoco e a spaventose limitazioni della libertà individuale, sia essa di espressione o di semplice movimento. È in questo contesto che si muove il nostro De Luca, che pur essendo un commissario di polizia viene continuamente bloccato per controlli, guardato con sospetto, intralciato nelle sue funzioni o costretto a far cose che vanno oltre ogni etica o morale .
Le vicende in cui De Luca si trova coinvolto sono ben tre: omicidi a danno di persone piuttosto diverse tra loro: un ingegnere, un professore universitario e, udite udite, un componente delle SS. Forse sta qui il punto debole del romanzo: troppa carne a cuocere; si finisce per perdersi e confondersi tra un caso e l'altro, dando oltretutto l'impressione di non averli approfonditi abbastanza da renderli interessanti. Certo, la bella sensazione che si ha quando tutti i tasselli vanno al proprio posto è comunque presente, ma un po' sfumata dall'impressione che tutto si sia risolto in maniera un po' semplicistica, senza indagini troppo approfondite o colpi di genio veri e propri. Forse De Luca è uno di quei commissari che fanno dell'istinto il proprio cavallo di battaglia a discapito dell'intuizione, ma è chiaro che risulti più interessante un investigatore chi arrivi alle soluzione del proprio caso tramite logiche deduzioni, piuttosto che perché "se lo sente". Certo, non in tutti i casi è così, per De Luca: anche lui fa le sue deduzioni, ma queste non sono mai dei veri e propri colpi di bravura, bensì vengono fuori da semplici interrogatori o indizi piuttosto chiari.
Di contro, devo dire che i personaggi descritti da Carlo Lucarelli, seppure siano troppi in conseguenza dei troppi e diversi eventi raccontati, sono comunque ben caratterizzati. Ammetto che, infatti, gli eventi tragici che travolgono alcuni dei nostri protagonisti e comprimari mi hanno colpito e coinvolto, facendomi capire che tra me e loro s'era comunque creata una connessione empatica.
In conclusione, direi che se Lucarelli avesse limitato gli archi narrativi ne sarebbe risultata una lettura ancor più godibile. Il mio giudizio resta comunque positivo, seppur più concentrato su ambientazione e personaggi e non sulla storia che comunque, in romanzi di questo genere, dovrebbe essere un aspetto fondamentale.
“Ci sono freddi diversi, anche in inverno. Ci sono quelli che fanno male alle ossa, quelli che strizzano la testa e ci sono quelli che bruciano la gola e i polmoni. Ma il suo era un altro, perché non era entrato con l'aria ghiacciata della stagione, e neanche con quella umida di quella stanza gelida e nuda. Veniva da dentro il freddo che gli stringeva lo stomaco e il cuore. Era il freddo della paura.”
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Ombre sotto i portici
Tutti gli investigatori protagonisti dei romanzi seriali di Carlo Lucarelli, si contraddistinguono soprattutto per una loro caratteristica peculiare, sempre ben resa dall'autore emiliano: sono funzionari delle forze dell’ordine perfettamente identificabili e riferibili alla loro epoca, sono un emblema rappresentativo, lo specchio dei tempi in cui vivono e agiscono.
Vale per Grazia Negro, protagonista tra l’altro del celeberrimo, bello e originale, “Almost blue”, che procurò fama immediata all’autore, così come per Marco Coliandro, poliziotto all’apparenza un po’ assurdo, patetico e tragicomico.
Nella fiction tv che ne è stata tratta, Coliandro addirittura appare come un Rambo esaltato, razzista e qualunquista, invece nei romanzi è una figura assolutamente reale nella sua normalità, tarata su registri di basso livello, ma ben calato nella sua parte e nel suo ruolo.
Quanto detto si nota a maggior ragione, e soprattutto, in tutta evidenza, per Achille De Luca, commissario di pubblica sicurezza nell’Italia durante il ventennio fascista.
De Luca è, prima di ogni altra cosa, un poliziotto; un uomo votato, per indole, scelta, e dedizione a mantenere l’ordine pubblico, a scoprire delitti e misfatti assicurandone gli autori alla giustizia.
Considera terminato il suo compito allorchè traduce i colpevoli alla contenzione, perché non reiterino oltre i reati o si diano alla latitanza.
Si premura di fornire inoppugnabili prove documentali al magistrato, perché ne tragga le debite conclusioni, decidendo il proseguimento dell’azione giudiziaria.
Non altro, ma dati i tempi in cui vive, è parecchio.
Quello che valorizza l’uomo, è la sua umana ragionevolezza, che riconduce la sua professione in un ambito lecito, nonostante tutto.
De Luca, a differenza di tanti graduati di quegli anni, non travalica, non va mai oltre i suoi limiti, legittimi e legittimati. Vive gli anni bui cui a chiunque, dotato di una divisa o di qualche autorità in qualche modo suffragata, è permesso stravolgere con prepotenza il codice e la procedura, le libertà individuali e democratiche, i diritti elementari della persona, abusare delle sue funzioni, esercitare autorità e dittatura, in nome dell’appartenenza, per scelta o per ruolo istituzionale, all’unica classe politica dominante.
De Luca non è un fascista, meno che mai è uno sbirro della dittatura.
Nemmeno però è un pavido trincerato nella neutralità, uno che si gira dall’altra parte per quieto vivere, che si limita a esercitare il suo lavoro barcamenandosi al meglio, al più ad assistere passivamente allo stato delle cose.
Il comissario pensa con la sua testa e agisce di conseguenza, prova a ricondurre gli eventi in termini ragionevoli, in qualche modo accettabili. Pertanto non chiude gli occhi, ma indaga, come gli è richiesto di fare; va a fondo delle cose, ricerca la verità, ma mai per punire, per perseguitare, per propositi di carriera, il suo compito è solo ristabilire l’esatta cronologia degli eventi, perché emerga la verità. Lo fa con onestà, dedizione, intelligenza e buon senso, ma non è né un giustiziere e nemmeno uomo che chiude gli occhi.
Le miserie umane spesso, troppo spesso, sono indotte dalle circostanze, e ben altri misfatti, assai più gravi, svolti però con intenzione, restano spesso impuniti, nonostante i suoi sforzi.
Ne è conscio, sia del suo valore sia del suo ruolo, deve arrendersi spesso contro forze di persuasione maggiori delle sue possibilità, ma si mantiene integro, e continua il suo lavoro.
Sono i tempi a rendere difficile la sua professione; ma a renderla davvero difficile è la sua ragionevole onestà, non altro.
Achille De Luca è una vittima dei tempi, come tantissimi altri suoi compatrioti; si schiera a suo modo dalla parte giusta, ma non è, non può essere, un doppiogiochista, non è nella sua indole.
Non è uomo che ha aderito al fascismo e alla dittatura per convinzione; si è trovato in questi tempi, si è adeguato, obbedisce, perché ligio all’ordine costituito, in silenzio ma senza rinunciare a ragionare con la sua testa, dedito alle autorità e ai superiori che il destino gli ha imposto.
Simpatizza magari per gli antifascisti, per la resistenza, e però non milita apertamente nelle file dei partigiani, anche se ne condivide le idee: è confuso, ma perché come tanti non può avere le idee chiarissime a priori, resta un servitore dello Stato, gli spiace che lo Stato sia nero, nero come l’inverno del 1944 a Bologna in cui agisce, ma non si tira indietro, non si nasconde, agisce.
Indaga, fa il poliziotto, magari con discrezione, e altrettanta determinazione, cerca di non venire mai meno ai dettami della sua coscienza di uomo.
Achille de Luca è, prima ancora di essere sì un poliziotto, è un uomo onesto, e non ha alcuna intenzione di dimenticarsene.
Ha paura, rischia la vita, non è un eroe, è folle di terrore di essere torturato e ucciso dai tedeschi che ormai non fanno più distinzioni tra italiani amici e nemici, ma insiste, investiga, indaga, ricerca prove e verità valendosi del suo fiuto investigativo, della sua cocciutaggine, spinto da un ardore esistenziale che lo conduce, sempre e comunque, alla ricerca della verità.
Tanto è abile nella sua professione, che è da tutti ricercato per questo, è stimato dai vertici della Questura, della Milizia Politica, dagli occupanti tedeschi, ma certamente, assai di più, dai Resistenti.
L’attrattiva che ne fa un bel personaggio, stimato da tutti, è la sua coerenza, tanto è lineare la sua condotta così descritta da Lucarelli, che finanche il lettore la avverte, e glielo rende gradito.
Un bel personaggio, un libro ben scritto, con una storia resa bene, un’ atmosfera sapientemente ricreata con accuratezza, articolata nei particolari, convincente, a mio avviso il libro migliore di Lucarelli con De Luca protagonista.
In questo romanzo De Luca agisce a Bologna, nel ’44, anno di guerra e di brutale occupazione nazista, anno di fame nera, di pericolo nero, di ombre nere sotto i portici, semmai portici siano rimasti ancora intatti in una città martoriata dalle bombe: “…al primo calar del sole, il coprifuoco avrebbe trasformato il suk dentro le mura di Bologna in una città fantasma, accecata dall’oscuramento e muta, a parte gli scarponi delle pattuglie o quelli dei partigiani”.
Sono tempi incerti, e il nostro è coinvolto in una triplice indagine:
“…De Luca pensò che ultimamente erano in tanti ad offrirsi di essergli amici nel futuro in cambio di una collaborazione, la prefettura, i tedeschi, adesso anche la resistenza…”
Non si tira indietro, lo fa per sé, perché è il suo dovere, perché gli è stato ordinato, lo fa perché glielo chiede un amico e collega che milita nella resistenza, e lo fa perché uno degli assassinati su cui indaga è un tedesco, e se non trova il colpevole da consegnare al comando delle SS, saranno fucilati per rappresaglia dieci italiani.
C’è tutta la motivazione di vita di Achille De Luca in questa triplice indagine.
Perciò lo vediamo giorno e notte ostinatamente in giro in bicicletta, a piedi, in sidecar, in auto, per la città, alla ricerca non tanto dei colpevoli, ma della verità, perché è la verità la sola che può servire a ristabilire almeno una parvenza di status quo.
Per chi conosce Bologna, risuonano i nomi familiari di strade, luoghi, locali, gli stessi di oggi, mai cambiati: via Rizzoli, via Ugo Bassi, Via Indipendenza, via Volturno, Via Dè Monari, il teatro del Corso, il cinema Manzoni, il ristorante “Diana” e il “Donatello”, le Due Torri, la basilica di San Petronio.
Lucarelli rende così omaggio alla Dotta, scenario delle sue storie, che ha fatto la sua fortuna.
Viene a capo della verità, De Luca: ma è stanco, sempre più stanco, ormai.
Non può esimersi, sa che: “…in qualunque momento, ci sarà sempre bisogno di gente come noi.”
Poliziotti sì, ma per bene. Gli unici che, in qualche modo, portano il calore della verità, ogni tanto.
A loro discapito, tenendo il gelo dentro di sè:
“Se lo sarebbe portato dentro per sempre, quell’inverno. Quell’inverno così ruvido e freddo.
Così nero.”
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Ottima ambientazione
1944 il centro di Bologna si riempie di muggiti, nella sperrzone si sono rifugiati anche molte famiglie di
agricoltori dato che le loro campagne sono diventati posti molto pericolosi a causa della guerra che sta
volgendo al termine. In questa “zona chiusa” il commissario De Luca si ritrova ad indagare su 3 casi di
omicidio, scollegati fra loro, dove i “committenti” hanno interessi sociali contrastanti: i nazisti, il prefetto e
la resistenza. Le SS che impongono a De Luca di far luce sulla morte del caporale tedesco Weber, ladro
e disertore, spogliato nudo e lasciato nella cantina allagata di un palazzo bombardato. Brullo, un
professore universitario cacciatore di donne ucciso con un colpo di pistola in un occhi mentre andava ad
un appuntamento galante. Caso Tagliaferri, un ingegnere senza arte né parte, torturato, ucciso e fatto
passare per uno “jacchia”. Nel corso delle indagine De Luca, per ogni omicidio, scoprirà che ci sono altre
piste su cui indagare, che non sono quelle dettate dalle circostanze in cui si trovano i morti e che alla fine le verità saranno ben diverse....
Nell’inverno tra il 1944 e 45 Bologna si appresta a diventare un campo “profughi” (nel centro di Bologna si arriverà a contare 600.000 persone) oltre alla grande quantità di animali “fuggiti” insieme ai propri padroni dalle loro campagne per trovare un rifugio sicuro nella sperrzone. La città è quasi un confine tra un’Italia già liberata ed una ancora occupata dai tedeschi. Freddo e neve affliggono la città, dentro le mura le donne setacciano la città a caccia di qualcosa da mettere in tavola la sera barattando di tutto per un pò di olio e di burro, gli uomini riempiono carriole con i mattoni delle case demolite per aggiustare buchi di altre case, contadini girano con carri pieni di paglia per le mucche sistemate nelle cantine diventate stalle. In questo trambusto ricordiamo che sono presenti anche le milizie fasciste e i tedeschi nazisti dove impongono la loro legge del taglione (dieci ostaggi fucilati per ogni soldato ucciso). E dunque in questa Bologna surreale continuamente bombardata che Lucarelli crea un intreccio di 3 omicidi diversi tra loro e che solo l’ingegnosità del commissario De Luca può portare a termine. È chiaro che il punto forte di questo romanzo e anche la parte meglio riuscita è l’ambientazione storica e sociale di Bologna, ricreata nei minimi particolari come Lucarelli sa fare, la quale si appresta a trascorrere il suo inverno più nero.D’altro canto la parte un pò più sfavorevole è il fatto che c’è tanta carne al fuoco (3 omicidi non collegati fra di loro) e a volte si perde un pò la rotta della storia, ma il buon Lucarelli, maestro di questo genere, ci guiderà alla fine del romanzo lasciando quella leggera tristezza che solo lui sa narrare.
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Tre omicidi nella Bologna del 1944
L’inverno più nero del titolo del libro è quello del 1944, l’ultimo inverno di guerra, in una Bologna quasi al confine tra un’Italia già liberata ed una ancora occupata dall’esercito tedesco, illuso di poter capovolgere gli esiti del conflitto grazie ad armi nuove e mirabolanti. Ma l’esito sembra ormai segnato, Bologna è dilaniata dai bombardamenti, in città cumuli di macerie, palazzi e teatri sventrati dalle bombe, mentre la gente fa la fila per un po’ di cibo ed il centro (quella “Sperrzone” che dovrebbe essere risparmiata dalla distruzione) ospita rifugiati, tra perlustrazioni delle SS, arresti da parte delle famigerate Brigate Nere e, di notte, qualche rapida incursione dei partigiani di Giustizia e Libertà. Freddo e nevischio attanagliano la città, per po’ di olio e di burro si è disposti a barattare di tutto, nelle cantine sono stipati animali, che i contadini cercano di proteggere e salvare dagli scontri. In questo bailamme, dove i tedeschi impongono la legge del taglione( dieci ostaggi fucilati per ogni soldato ucciso) e le milizie fasciste si distinguono nei famigerati locali della Facoltà di Ingegneria per interrogatori e feroci torture, svolge la sua attività investigativa il commissario della Polizia Politica De Luca, protagonista del romanzo e di tanti altri dello scrittore. De Luca ha sempre agito con coerenza ai giuramenti prestati, è apprezzato per la sua abilità nel risolvere casi complessi ma comincia a porsi domande, non ha più la sicurezza di un tempo, gli avvenimenti incalzanti turbano la sua coscienza e creano dubbi laceranti. Intanto, tre omicidi in rapida successione richiedono il suo intervento. Il primo morto ammazzato è un caporale tedesco, strangolato, senza divisa, che, si saprà poi, aveva disertato e commesso furti di preziosi, pronto a fuggire abbandonando la sua amante, una ragazza bolognese in attesa di un figlio. Il secondo omicidio riguarda un noto medico universitario, viveur incallito, ucciso con un colpo di pistola: un marito geloso o la vendetta di una donna? Il terzo ucciso, dopo feroci percosse, è un noto e ricco ingegnere, caduto nelle grinfie delle Brigate Nere con la falsa accusa di antifascismo: ma si vedrà che ben altre erano le motivazioni. L’incarico di indagare viene assegnato all’abile De Luca da vari committenti, che confidano nell’esperienza del commissario nel risolvere rapidamente le indagini: anche perché, nel caso del militare tedesco ucciso, la prassi era quella consueta di fucilare dieci ostaggi qualora non si fosse trovato il colpevole. Il povero De Luca, da bravo e sagace poliziotto, inizia a lavorare, ma sente la fatica ed il peso degli anni: prova brividi di paura quando deve frequentare gli uffici delle SS, si sente spaesato ed in conflitto con le regole della Polizia quando viene in contatto con esponenti delle brigate partigiane o con nascondigli di ebrei, deve fare i conti con la sua coscienza di uomo e la sua innata bontà d’animo. Conoscerà personaggi che lo aiuteranno, correrà il rischio di essere arrestato, scoverà testimoni che gli salveranno la vita: alla fine, in un modo o nell’altro, i colpevoli saranno individuati, ma a quale prezzo e con quanta fatica! Lucarelli tratteggia la figura di De Luca con la consueta maestria narrativa, facendone un personaggio in cui, nel particolare momento storico in cui si trova ad esercitare le sue funzioni, riesce a coniugare, in modo sia pure sofferto, l’attività lavorativa da sbirro (“stai tranquillo” gli dice un collega “dovunque, in qualunque momento, ci sarà sempre bisogno di gente come noi”) con l’ormai certa consapevolezza di una fine vicina e di una nuova realtà. Ed è a questa nuova realtà che piano piano si adegua, con dubbi e perplessità, ma con l’intima convinzione che non è più possibile tornare indietro, ad un passato pieno di ombre. Anche se “quel gelo livido e marcio, quell’aria gonfia che lo soffocava erano dappertutto…se lo sarebbe portato dentro per sempre, quell’inverno. Quell’inverno così ruvido e freddo. Così nero”.
E la Bologna di quell’inverno, poi! O meglio, il fantasma di una Bologna ridotta allo stremo, affamata, con gli anfratti dei teatri e dei palazzi bombardati ridotti a rifugi o nascondigli per famiglie disperate, una Bologna fango e neve, una Bologna sospesa tra “l’inverno più nero” e la speranza di una imminente rinascita. E la Bologna di quell’inverno del 1944 è documentata da Lucarelli in modo realistico e minuzioso, sembra di viverci immersi dentro, soprattutto per uno che come me ha vissuto da ragazzino gli ultimi anni dell’ultima guerra, e che ancora oggi ricorda gli allarmi notturni, le incursioni aeree, l’ascolto delle radio clandestine e, alla fine, l’arrivo dai monti dei camion pieni di partigiani festanti.
Per la Storia, Bologna dovrà aspettare ancora qualche mese, fino al 21 aprile 1945, quando, all’alba, le truppe alleate, dopo aver sfondato la linea Gotica, ed alcune brigate partigiane entrarono in città, già abbandonata da tedeschi e fascisti, senza sparare un colpo.
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Freddo e paura per il commissario De Luca
Torna il commissario De Luca, creatura di carta di Carlo Lucarelli ne L’inverno più nero. Un libro dai contenuti tristi, tormentati, dove si respira una paura atavica, che affonda le sue radici nel periodo descritto. Una paura che trova un suo alleato simbolico nel vivido freddo, per cui:
“Ci sono freddi diversi, anche in inverno. Ci sono quelli che fanno male alle ossa, quelli che strizzano la testa e ci sono quelli che bruciano la gola e i polmoni. Ma il suo era un altro, perché non era entrato con l’aria ghiacciata della stagione, e neanche con quella umida di quella stanza gelida e nuda. Veniva da dentro il freddo che gli stringeva lo stomaco e il cuore. Era il freddo della paura.”
Ed è sicuramente l’inverno più freddo per il nostro protagonista De Luca, che si trova in una posizione a dir poco imbarazzante: vorrebbe continuare a fare il poliziotto, ma viene inquadrato nella polizia politica di Salò, per non parlare della Resistenza partigiana. A tutto questo quadro di per sé già angosciante si aggiunge il suo personale tormento di vita e di esistenza, per il quale:
“De Luca guardò quei volti lividi che lo spiavano dagli occhi socchiusi, le bocche mezze aperte nel sorriso fisso dei morti. Li conosceva, ne aveva visti tanti di quegli sguardi e di quei sorrisi, non quelli ma altri, li aveva studiati, sognati di notte e non erano un incubo a soltanto un prolungamento delle indagini, addirittura auspicato prima di andare a dormire. “
Il ritrovamento di tre cadaveri nella Sperrzone, il centro di Bologna sorvegliato dai soldati della Feldgendarmerie, sarà per De Luca motivo di ulteriore angoscia. Soprattutto l’ultimo gli dà da pensare: è un tedesco e il nostro commissario teme la rappresaglia tedesca. Si tratta di un uomo:
“mummia senza naso , senza occhi e senza labbra trovata nella casa bombardata di via del Fossato. (…) ora, in aggiunta ai morsi dei topi, aveva anche un taglio a forma di y che gli apriva la gola fino in mezzo alle clavicole.”
Ciò nonostante condurrà le indagini, pur tra mille difficoltà, e riuscirà a stabilire una parvenza di identità adatta ai tempi.
Ambientato nella Bologna del 1944 meravigliosamente descritta, dove:
“Dentro le mura Bologna era un suk, una casbah fradicia e fredda di neve sporca, piena di gente anche in strada, perché con il gas limitato all’ora di pranzo, il carbone razionato e la legna introvabile, di giorno si stava quasi meglio fuori.”
Una lettura che ho faticato a concludere. Un’atmosfera pesante, angosciosa percorre tutta la narrazione. Una prosa perfetta e lineare, però, che descrive bene una vicenda nera, che colpisce il lettore con violenza. Personaggi e trama ben elaborati e costruiti con sapienza e tecnica narrativa. Nulla da eccepire , solo poco coinvolgente e troppo oscuro ed ambiguo per i miei personali gusti letterali.
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Una paura fredda. Nera.
Bologna, 1944. Siamo in piena occupazione tedesca, la quotidianità è spezzata, la paura delle bombe e della morte fanno da sovrane. Il terrore dettato dalla presenza dei nazisti sul territorio tiene in pugno la popolazione tra coprifuoco e limitazioni della libertà di vario ordine e genere. E poi c’è lui, il Commissario De Luca. Uno sbirro che non è più alla Criminale ma alla Politica. Un poliziotto che deve eseguire meticolosamente gli ordini dei superiori e farsi passare ogni grillo per la testa e ogni fuoco che si accende nello stomaco quando un caso misterioso da risolvere gli si paventa davanti.
Questa volta il nostro funzionario pubblico è chiamato ad investigare non su un unico crimine quanto su tre enigmatiche morti: omicidi, tutti, che, seppur diversi tra loro perché aventi ad oggetto le persone di un ingegnere, di un professore universitario e di una SS, si intersecano tra loro fino a delineare quello che è un disegno più grande. Perché nonostante tra un caso e l’altro ci sia un po’ di confusione che stordisce il lettore che in un primo momento tende a confondersi, a focalizzare quando l’uno e l’altro misfatto, il risultato di questi triplici delitti è quello di dar vita alle atmosfere del tempo, del momento storico e dello stato d’animo di un uomo schiacciato su più fronti dalle imposizioni dei piani alti e dalla paura. Eh sì, perché a far da cornice c’è la paura. Una paura silenziosa eppure rumorosissima, una paura che non lascia nemmeno per un attimo, una paura che sembra sfociare in rassegnazione. Questo è a mio avviso il più grande merito dell’opera; il riuscire a trasportare il conoscitore in un tempo sempre più lontano ma che non deve essere dimenticato.
Dal punto di vista dell’indagine a prevalere sono l’istinto e poi la logica. Il primo sentimento perché De Luca è un uomo intuitivo e che si lascia trasportare dalle sue folgorazioni, anche a costo di cadere in errore o di finir vittima di inattese trappole, e il secondo perché Lucarelli non esagera, non offre soluzioni eccessive o fuorvianti. I casi vengono risolti con una sfumatura di pura e semplice verità senza sproporzionati e sovrabbondanti artifizi letterari o chissà quale colpo di scena. Resta nel concreto e questo lo rende agli occhi di chi legge verosimile. Allo stesso modo sono percepiti i personaggi tra loro genuini perché intrisi di pregi e difetti, peculiarità e caratterizzazioni che invitano ad una piacevole conoscenza.
Una lettura piacevole, di rapida conclusione e capace di solleticare gli appetiti degli amanti del genere e non.
«Pensava che anche se l’avesse fatto davvero un buco nel materasso e ci avesse infilato dentro la testa non sarebbe riuscito comunque a togliersi dall’orecchie il gorgogliare del sangue, l’odore di urina e di muffa dal naso, tutto quello schifo, quella paura e anche quella vergogna dallo stomaco.
Che non c’era più una direzione in cui voltarsi perché quel gelo livido e marcio, quell’aria gonfia che lo soffocava, erano dappertutto, e non bastava girare lo sguardo per evitarle.
Se lo sarebbe portato dentro per sempre, quell’inverno.
Quell’inverno così ruvido e freddo.
Così nero.»