L'inverno di Giona
Letteratura italiana
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 10
GIONA CHE VISSE NELLA BALENA
Il tema di “L’inverno di Giona” è l’eterno dilemma tra bene e male in cui ciascuno quotidianamente oscilla, e perciò di conseguenza il romanzo parla di fare e subire, di giusto e sbagliato, di sanità e pazzia, è un romanzo multiplo quello di Filippo Tapparelli, è una storia di moltitudine di emozioni e perciò emoziona ai più, piace a tanti, avvince tantissimi, incolla chiunque alle pagine, si presta a diverse letture e rivisitazioni, e, però il tutto riconduce, con semplicità e maestria, all’estrema essenzialità dell’esistenza umana.
Non è più un bambino, non è ancora uomo, Giona: e nella sua breve esistenza, cresciuto dal suo unico parente, il nonno Alvise, non ha mai provato nulla più di un sacco di botte elargitegli con spietato intento pedagogico dal vecchio, e nemmeno un ricordo.
È un nemico immane, il vecchio, potente, perché è il capo temuto e riconosciuto dall’intera piccola comunità montana in cui si trova la sua casa; gli altri paesani, sarebbero anche disponibili a mostrarsi umani, caritatevoli, nei confronti del giovane, a condividerne ricordi ed esistenza, ma il carisma, la violenza, l’autorevolezza del vecchio è spauracchio sufficiente a farli desistere, loro malgrado.
Quel nemico, in ultima analisi, Giona deve affrontare, una volta messo alle strette proprio dal vecchio, dinanzi all’ultima insana, sporca, abietta, estrema scelta.
Per farlo, e per vincere, per ucciderlo e liberarsene e liberare il paese intero, per riconquistare sé stesso e la propria coscienza sepolta nel dimenticatoio, deve compiere un atto coraggioso e rivoluzionario insieme, un percorso di crescita e di consapevolezza.
Deve cioè terminare di rifugiarsi una volta per sempre nell’oblio soporifero della quotidianità rituale, assurda e brutale, come può essere ad esempio il forzare le dita forti nel piegare rami intrecciati a costruire gerle inutili, destinate a trasportare il vuoto.
Deve lasciare il rifugio sicuro del ventre della balena, farsi vomitare sulla riva dal grosso pesce, un’interiorità che gli è stata utile per troppo tempo, per anni, per ottenebrargli i ricordi, allorché intende che sono proprio questi, da tempo rimossi, i giusti terapeutici mentori per il riappropriarsi della propria esistenza.
Perciò la rinascita di Giona, e la sua liberazione, sorprende ed è stupefacente insieme
Il rifugiarsi di Giona nel ventre della balena, infine, non è stato per nulla un’evasione da una realtà difficile, una via di fuga, un escamotage per venir meno alle proprie responsabilità, tutt’altro, è stata essa stessa una scelta, ma una scelta di martirio.
A un bambino però, non gli si può accollare un martirio.
Un bambino ha in sé la saggezza innata del Bene, prima che gli adulti si coalizzino nell'estirpargliela.
Un bambino non martirizza, non fa male, non può, per definizione stessa, un bambino aiuta, specie se gli è espressamente richiesto.
Gli adulti, che bambini non sono più, questo non lo capiscono, lo hanno rimosso dai loro ricordi, non si fanno scrupoli di versare sofferenza anche nell’animo di un innocente.
Aiutare però stanca; e allora il giovane anela il riposo, il riparo; dopotutto un giovane altro non è che un seme, e i semi riposano al meglio sotto la neve, durante l’inverno, l’inverno di Giona.
In attesa della primavera, quando dal terreno, liberato dalla neve, puoi raccogliere sassolini.
E lanciarli felicemente in alto, finalmente.
Indicazioni utili
Inseguendo un ricordo
Fortissimo l’impatto che questo romanzo provoca nel lettore, per tematiche trattate e stile di scrittura. Immergersi in queste pagine significa affrontare un vero e proprio viaggio, con un vento sferzante a schiaffeggiarti il viso e una spessa coltre di nebbia a offuscarti lo sguardo. Privo di mappe o bussole, puoi solo procedere a tentoni, una riga dopo l’altra, abbandonandoti al disorientamento, alla claustrofobia, a una natura ostile che è molto più di un semplice sfondo.
Giona ha quindici anni, un passato senza ricordi e un presente senza calore. Il camino è spento, nella baita di montagna in cui vive solo con nonno Alvise, perché non ci sono racconti da condividere, solo ordini da rispettare e punizioni da infliggere. Il maglione è slabbrato e i pantaloni troppo corti, e non riparano più dal gelo, perché non c’è cura o protezione, in questa casa, solo rigore e violenza.
Si può scappare? Giona ci proverà, in una fuga oscura e allucinatoria, animata da spettri ed elementi della natura, in cui proiezioni della mente si fondono a frammenti di memoria, generando interrogativi sempre più inquietanti.
Da cosa scappa Giona? Qual è la verità del suo inverno?
L’epilogo sarà tanto rivelatorio quanto devastante.
“Dentro di me so che non c'è più alcuna strada che mi conduca fuori di qui”
È un’opera che catapulta in una dimensione in cui tempo e spazio fuoriescono dai confini imposti dal reale, dando vita a un percorso di ricerca e comprensione giocato nelle profondità della mente. Ad accompagnarci in questo viaggio, una penna matura, ricercata e finemente espressiva, capace di infondere sottopelle tutte le emozioni di un mondo di angoscia e orrore, privo del conforto di un ricordo o del tepore di una carezza. Non nascondo che è stato a tratti difficile abbandonarmi a questa lettura. Superare le strettoie in cui la narrazione rallenta, focalizzata su descrizioni e dettagli che sembrano confondere e allontanare dal fulcro della storia. Proseguire nonostante lo smarrimento, tenendomi aggrappata al desiderio di sapere, di capire.
In conclusione, è un testo che non lascia indifferenti, che colpisce per la sua forza onirica ed immaginifica, spingendo il lettore a formulare continue ipotesi e a lasciarsi infine sorprendere da una dolorosissima verità.
Indicazioni utili
Tra gli spazi vuoti
Nell’inverno di Giona il vecchio incastra rami rigidi, le mani immerse nel secchio di acqua gelida in gesti rudi, precisi, forti. Siediti ragazzo, osserva ed impara, zitto immobile oppure il castigo.
Nella primavera di Giona la piccola Norina si diverte a costruire cestini d’erba, intreccia fili senza strapparli dal prato e si infila tra i pensieri. Giona lo sa, anche se non c’è.
Scorrono le pagine ed il freddo si insinua nel colletto slabbrato di un vecchio maglione rosso ed infeltrito che apparteneva a mia madre, poi scende. Scivola sul petto, lacera la pancia, raggiunge violento le ginocchia e morde impietoso i piedi. Le dita di ghiaccio, poi è dolore, un dolore lancinante ed infine non si avverte piu’ nulla. Si accumulano le pagine, il tepore un raggio di sole che porta linfa agli arti compromessi, forse nulla è come sembrava, poi domani sarà ancora più diverso.
Possono studiarci Giona, somministrarci farmaci, psicanalizzarci, rinchiuderci e punirci ma non potranno mai opporsi alla nostra verità.
A quindici anni eri troppo piccolo.
A vent’anni siamo troppo piccoli per vedere.
A trent’anni siamo troppo piccoli per vedere la terra coprire.
A quarant’anni siamo troppo piccoli per vedere la terra coprire il corpo di nostra madre.
Struggente, intenso, accattivante, psicotico e tagliente come cronaca dagli spigoli arrotondati da una lima di fiaba.
Indicazioni utili
Un viaggio dentro noi stessi
Scrivo questa recensione a “caldo” perché ho appena finito il libro e le sensazioni che provo sono così forti che necessito di scriverne nell’immediato.
Tutto inizia in un regno di nebbia e ombra. Siamo su una montagna fatta di desolazione, di poche anime e di una memoria che non c’è: quella di Giona. Quest’ultimo è un ragazzo di quindici anni che vive con Alvise, il nonno che adotta un metodo di insegnamento molto severo e fatto di assenza di affetto.
Il protagonista è costretto, a causa di una serie di avvenimenti, alla fuga e da qui inizia una vera e propria caccia tra preda e cacciatore, tra cacciatore e preda, una caccia fatta e scandita da un ritmo narrativo che accelera in modo esponenziale, che attanaglia, che impedisce a chi legge di staccarsi dalle pagine del componimento.
Il ritmo è serrato, i tempi sono perfettamente scanditi, gli eventi si susseguono in un mix di empatia e sensibilità in cui manca il fiato; il lettore perde il respiro. E poi, l’epilogo. Dove i tasselli del disegno trovano il loro posto, la loro collocazione. La certezza è solo presunta, mai concreta. L’opera giunge alla sua naturale conclusione e il conoscitore continua a restare nel paese, ad interrogarsi, a porsi domande. Perché il viaggio di Giona diventa un viaggio condiviso: ti prende per mano e ti conduce, ti prende per mano e ti obbliga a guardarti dentro, ad affrontare le tue paure.
A un romanzo con una forte carica emotiva e tematiche profonde e impeccabilmente trattate si aggiunge una penna precisa, minuziosa, raffinata e caratterizzata da un linguaggio erudito, forbito e prezioso. Tapparelli è semplicemente magnetico. Mai avrei pensato che questo potesse essere il suo primo lavoro, ma una cosa è certa: non vedo l’ora di rileggerlo. E spero di rileggerlo presto.
Non posso che consigliare la lettura di questo testo, un volume che ha tanto da offrire e tanto da lasciare.
Indicazioni utili
L'inverno dell'anima
Un'opera prima che non può passare inosservata, quella con cui lo scrittore veronese Filippo Tapparelli ha esordito all'inizio dell'anno. Romanzo fortemente introspettivo fin dalle primissime righe, “L'inverno di Giona” narra la storia del giovane protagonista, che già dal titolo impariamo a chiamare appunto Giona, con toni d'intensa drammaticità seguendo sentieri sospesi tra l'onirico e il reale.
Ma si è certi che il nome del personaggio principale, quel ragazzino stretto al suo logoro maglione rosso pieno di rammendi e alla mercé di un nonno a dir poco dispotico, sia esattamente quello di Giona? E il paese che fa d'ambientazione alla vicenda è reale o si rivela invece un luogo dove il tempo s'è fermato e i ricordi, come pensieri sfuggenti e inafferrabili, non esistono?
“È un luogo dove le radici delle case affiorano dalla strada proprio come le rocce che spuntano dai prati più in alto. Guardando attentamente, si ha l’impressione che le montagne siano sprofondate facendo emergere i muri di pietra, e che le persone che lo abitano portino scolpite sul volto le stesse crepe che segnano le abitazioni. […] Il paese respira con i tempi della pietra e non accetta il nuovo. Sembra immobile invece si sposta nella sua stessa ombra.”
Attraverso una prosa particolarmente scorrevole ma anche di grande profondità, la penna dell'autore ha dato vita a una trama che soltanto nella sua parte conclusiva svelerà una realtà dolorosamente diversa da quella percepita in un primo momento, fino a un epilogo sorprendente e del tutto inatteso. Solo allora si comprenderà in quale “inverno” è purtroppo precipitato il cuore del ragazzo protagonista, stagione dell'anima dall'infanzia irrimediabilmente perduta.
“«Sono libero» dice a se stesso e a quella voce che l’ha sempre accompagnato dal giorno in cui la sua infanzia è finita all’improvviso, davanti alla porta di una stanza da letto dove la disperazione aveva travolto ogni speranza di futuro.”
Ho intrapreso questa lettura su appassionato suggerimento di un'amica lettrice , che dunque ringrazio di cuore, e la consiglio a mia volta! Ottima qualità di scrittura e stile narrativo coinvolgente.
Indicazioni utili
UNA STORIA A SORPRESA
Quando ho finito di leggere questo romanzo ho provato tanta angoscia e tanta paura.
Sì lo confesso, ho sofferto molto nel finire questo romanzo, perché questa storia mi ha davvero sconvolto e lasciato senza fiato.
Ancora non so definire il genere di questo libro se sia un thriller psicologico, un horror o una sorta di viaggio introspettivo nella vita del piccolo Giona.
L’inizio del libro ci presenta il racconto in prima persona di Giona, che abita con il nonno Alvise che lo tratta male e gli infligge delle punizioni fisiche e psicologiche. Da subito, questa prima parte, suscita nel lettore un forte senso di rabbia nei confronti del vecchio parente e anche una sorta di protezione per il bambino.
“Il nonno mi punirà perché per ogni azione, giusta o sbagliata, c’è sempre una lezione che io devo imparare.”
Alvise è un uomo autoritario, severo e senza cuore e vuole che Giona segua le sue regole e se non lo fa lo punisce in modo che capisca la lezione.
“«Deve essere così. Diffida di chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica.»”
Giona ad un certo punto ha la possibilità di scappare dalla casa del nonno e da qui il libro entra in una nebbia fitta fatta di ricordi confusi del bambino e anche il lettore non capisce più nulla, nemmeno il nome del protagonista che potrebbero essere Giona o anche Luca.
Ad un certo punto mi sono posta una domanda, quale fosse il significato di questo libro e solo nelle ultime quaranta pagine ho trovato le risposte che cercavo.
L’autore è riuscito a creare in maniera abile una serie di intrecci e di personaggi che solo alla fine trovano un senso, che personalmente mi ha sconvolto molto.
Ho trovato la parte finale molto scorrevole mentre il resto del romanzo è stato un po’ lento, perché la narrazione non è così facile da seguire e da capire. La trama subisce dei forti rallentamenti andando ad analizzare quello che prova Giona, le sue parole, le sue sofferenze e il dolore che prova e che ha provato.
La maggior parte del libro verte sull’incertezza mista alla curiosità del lettore di capire qualcosa, quindi bisogna riporre tanta fiducia nell’autore e nella narrazione che ha creato, solo così riusciamo ad andare avanti e a finire il romanzo.
Il finale è a sorpresa e risolse tutti i vari intrecci e sicuramente ne vale la pena aver superato i dubbi iniziali e aver continuato la lettura.
Quello che più mi ha colpito è la scrittura precisa, ricca, dettaglia dell’autore che sorprende e arricchisce sicuramente la storia.
Pertanto quello che vi posso consigliare è di non scoraggiarvi e di andare avanti con la lettura.
Indicazioni utili
Top 100 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il percorso di Giona
Credo non sia sempre facile approcciarsi all'esordio letterario di uno scrittore. Occorre superare quello scetticismo che ti porta a pensare quanto, magari, possa essere meglio dedicare il proprio tempo ad un autore noto piuttosto che ad uno sconosciuto che si affaccia sul mercato editoriale, proponendoti chissà che cosa. Invece una volta superata la possibile diffidenza iniziale, la scoperta di un nuovo autore può trasmetterci la piacevole sensazione di avere individuato una "nuova penna" da tenere d'occhio. Filippo Tapparelli, vincitore del Premio Calvino 2018 con questa sua opera prima, riesce a dimostrare un certo talento creativo e narrativo raccontandoci una storia dalle tinte fosche, tragiche e drammatiche, con alcuni personaggi di assoluto spessore ed un'ambientazione oscura. Giona, il ragazzino spaurito e senza memoria ("Non ho ricordi di quando ero piccolo, non ne ho nemmeno uno") che vive con il nonno Alvise duro, autoritario, violento e dominante, sono i veri protagonisti di un romanzo claustrofobico ambientato in un paesino di montagna immerso nella nebbia, isolato e fuori dal mondo e dal tempo ("Qui il tempo è bloccato in un oggi senza ieri, che non diventerà mai domani"). Alvise in particolare, si staglia al di sopra di tutto e tutti, vestendo i panni del rigido educatore di Giona ("La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. Deve essere così. Diffida da chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica"), autentico padre-padrone dell'intero paese, penetra nelle menti dei suoi abitanti, sembra sostenere da solo l'equilibrio del luogo ("Tutto il paese gira attorno a lui. Alvise al centro e tutti gli altri attorno") .
Partendo da queste premesse Tapparelli costruisce una narrazione avvincente in cui è possibile assistere al percorso di progressiva presa di coscienza da parte del giovane Giona, come si trattasse di un romanzo di formazione in cui la maturazione psicologica viaggia di pari passo con il tema della memoria, del ricordo, della riscoperta delle proprie radici e della famiglia. Un percorso in cui Giona viene accompagnato da una sorta di mentore, di un "Virgilio sui generis" in grado di fargli attraversare la selva oscura e che assume le sembianze di una misteriosa bambina accompagnata da un gatto nero, fino ad un epilogo che sa tanto di catarsi, di svelamento, di superamento di quell'inverno oscuro che si porta dentro e che lascia attoniti.
In definitiva trattasi di un'opera prima che si legge con piacere e che non lascia indifferenti, anche se, a mio avviso, non risulta priva di alcuni difetti come diversi rallentamenti nel ritmo della narrazione a causa di lunghe descrizioni assolutamente ben scritte ma talvolta eccessive e ridondanti.
Indicazioni utili
Un esordio tutto da scoprire
«Tu hai di nuovo i ricordi, Giona. Lo hai visto prima. Non dovevi ricordare e lui adesso vuole portarteli via di nuovo.»
Perché Norina, perché? Perché Giona non doveva ricordare? Perché adesso il vecchio vuole che dimentichi di nuovo? Cosa si nasconde dentro la mente di questo giovane quindicenne che non ha memoria, che non ha passato e che nulla ricorda se non quell’appena prossimo avvenuto? Chi sei davvero Giona? Chi è Alvise? Chi è la vittima, chi il carnefice?
Il suo nome è Giona, o almeno questo è l’appellativo con cui è sempre stato chiamato da Alvise, l’anziano di cui tutti nel paese hanno terrore e che lo ha raccolto dalla solitudine e abbandono in cui verteva. Perché Giona non ha genitori, non sa chi è, non conosce le proprie origini, un maglione rosso è il suo unico tesoro e nulla ricorda. Sa soltanto che deve fare del suo meglio per non sbagliare perché in tal caso, la punizione che gli verrà commisurata sarà ben più severa di quello che è stato il suo errore. Non ha scelta, e lo sa. Questo, a detta di Alvise, è l’unico modo per imparare. Perché soltanto con il dolore si può apprendere, soltanto con la sofferenza. In altro caso, tutto si dimentica, tutto cade nell’oblio. Non vi è insegnamento. Un paese di contadini e pecorelle sperduto tra le montagne, nelle nubi e in una dimensione atemporale è il luogo in cui si dipanano le vicende e dove le voci corali dei coprotagonisti si fondano e uniscono a Luca e alla sua voce.
«È questa la sua magia. È fatta di musica e suoni, Anna. Lei è tanto musica quanto sua nipote è silenzio. Anna, la donna che dà i nomi alle cose e alle persone. Quella che ha trovato un soprannome per ognuno dei suoi abitanti e per ogni albero del paese.»
L’universo disegnato da Filippo Tapparelli, autore esordiente Mondadori e vincitore del Premio Italo Calvino 2018, è totalmente privo di affettività bensì è caratterizzato da violenza, da un quotidiano che riflette il dolore come rappresentazione di una unica e improcrastinabile verità fatta di controllo, di precisione, di resilienza, di schemi precostituiti e irreversibili. Tuttavia, dopo una partenza in cui l’angoscia attanaglia il lettore tenendolo imbrigliato nelle sue morse e obbligandolo ad andare avanti senza possibilità di interruzione alcuna, ecco che tutto quel che era stato costruito e che si era delineato, si sgretola. Si sgretola per focalizzare l’attenzione su un’altra verità. Dal tema del ricordo assente, misteriosamente venuto a difettare, lo scrittore prende per mano il suo conoscitore e lo conduce tra nuove tematiche e in una dimensione psicologica tutta da scoprire.
Il risultato è quello di un elaborato di grande pregio caratterizzato da una trama solida e ben articolata, una penna pregiata, erudita, fluida e capace di trattenere il suo lettore e da personaggi tangibili con mano tanto che non faticano a disegnarsi nella mente. Da leggere.
«E mi chiedo se per me ci sia una qualunque esistenza fuori da questa casa oppure, anche se ora mi pare terribile, io possa vivere solo qui dentro. Sono uscito da qui tante volte, eppure quello che ora mi stringe il petto non è il sollievo del ritorno ma il peso dell’addio. È come se provassi nostalgia per questo luogo, per le botte di Alvise, per la sua violenza mascherata da lezioni di vita.»
Indicazioni utili
Verità inconsistente
Tutto parrebbe non essere come sembra, all’ inseguimento di una logica inconsistente, sconvolgente, inesistente, tra pensieri dissociati e difformi.
Giona-Luca, nonno Alvise, due genitori prematuramente scomparsi, altri nomi, Norina, Anna, Andrea, Eleonora, un paese di pecorelle ostaggio di un vecchio crudele, una voce, più voci, ripetute, frammentarie, una fuga affannosa ma necessaria.
Il racconto sospeso in un tempo solo presente, un protagonista senza ricordi, memoria e quindi un futuro, che da sempre ha vissuto nella metà dell’ ombra, lontano dai sogni, recluso, tiranneggiato, violato, in una rappresentazione di anaffettività e violenza.
Il quotidiano riflette il dolore come rappresentazione vivente ed una sola verità, quella che conta, un’ intimità inesistente ed una storia di controllo, precisione, resilienza, seguendo uno schema collaudato.
Una casa con un camino sempre spento, nessuna vicenda da condividere e raccontare, nessuna risposta, un’ attesa protratta, senza ascolto, solo ordine, precisione ed obbedienza.
Un vecchio maglione rosso in cui crescere, eredità di un passato senza volto, forgiato a propria immagine, che ha acquisito quella forma mentre gli si vive dentro.
Rapito, abbandonato, affidato, solo, quale il destino di Giona? Per lui una fuga quantomai necessaria, un tempo finito e l’ eco di giorni sconosciuti e dimenticati.
Non ha mai visto il proprio volto e vaga in un paese dove non può più sostare, in un tempo bloccato, con un oggi senza ieri che non diventerà mai domani.
Il dolore diviene suo compagno di viaggio, essenza purificatoria, la paura plasmata dentro, lui ciò che qualcun altro ha voluto che fosse.
Ma poi tutto improvvisamente cambia, senza un senso, o forse plasmato da una furia assassina, protagonista della propria storia, una condanna scontata dopo un’ accusa infamante, oggi una probabile guarigione voluta da altri.
E quella voce sempre presente sventra e percuote ogni più piccolo gesto, indirizzando gli eventi.
Ma allora nulla ritorna, se non all’ interno della propria follia, nella schizofrenia del presente e gli altri chi sono, un’invenzione dell’io narrante, la rappresentazione di se’, semplici essenze inesistenti?
Vittime e carnefici continuano a trascinarsi in un senso insensato, inopportuno, con la certezza di un viaggio negli abissi di una mente malata, e se invece tutto fosse solo una recita?
Uno psico-thriller di sicuro interesse per il tema prescelto, un flusso narrante che cambia gli eventi oltre ogni immobilismo apparente, respingendo certezze acquisite, affondando in abissi mentali, inseguendo ricordi inafferrabili e futuro inconsistente.
Ed allora chi siamo realmente e quale la nostra storia? Vittime o carnefici, sani o malati? Che cosa oltre il proprio racconto, quale il segno del presente?
Il mistero parrebbe finalmente risolto, emersa una verità sconvolgente, poi tutto, d’ improvviso, ancora una volta, cambia...
Indicazioni utili
I ricordi fanno male ma non uccidono, Giona.
Non ha ricordi della sua infanzia Giona. Nemmeno uno. È consapevole di esser stato bambino ma la sua memoria è ferma ai giorni del presente o a quelli del passato prossimo. Vive in un tempo immobile dove i rammenti non esistono, dove non esiste un prima e dove la sua unica eredità è un logoro maglione rosso rattoppato che ha mutato la sua forma in funzione della sua crescita. Ha quindici anni, Giona. Vive con Alvise, un uomo che riveste la funzione di padre e nonno e che lo educa in modo austero, con la violenza, con il dolore, con il castigo. Perché questo è l’unico modo di apprendere, l’unico modo di far propria la conoscenza.
«Hai sbagliato e queste sono le conseguenze. Lo sai benissimo. Io ti spiego come fare ma tu continui a sbagliare. Non impari. Ecco perché ti punisco. La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. Deve essere così. Diffida da chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica.»
Anche i corpi raccontano una storia, l'una di precisione e di esattezza, di controllo, l'altra una di insicurezza, sottomissione, asservimento. Mentre Giona ha i capelli color iuta, il torace sottile, le gambe magre e lunghe, il collo e spalle spioventi, il vecchio ha capelli candidi, senza interferenze di grigio, mani grandi ma non sproporzionate, giuste per torcere la legna o insegnare, un corpo robusto quel tanto che basta a compiere i vari lavori e a incutere timore. Non solo nel nipote, ma in tutto il paese. Perché tutti, indistintamente, temono l’anziano. Tutti, indistintamente, si piegano al suo volere.
«Perché non hai portato il maglione di sopra, Giona? mi chiede di nuovo. […] Guardami, Giona. Ora ti insegnerò cosa è il freddo e cosa è una scelta. Brucia il maglione nella stufa o lascialo dov’è ed esci da questa casa. […] È facile, Giona. Butta il maglione nella stufa o vai fuori di qui. La sua voce è diversa. Più affilata. Se avesse un colore sarebbe grigia come la lama del suo coltello. “Non sai cosa fare, Giona? È facile. Brucia il maglione, ha detto il vecchio. Brucialo e accucciati per terra vicino alla stufa. Almeno ti scalderai ancora per qualche ora, fino a quando non si raffredda. E domani ci penserai”. Ma così lo perderò e avrò freddo per sempre. “Allora esci dalla porta, passa la notte al gelo e spera che domani gli sia passata. Spera che ti faccia ritornare a casa, spera che ti ridia il maglione. Ma non hai nessuna certezza che lo farà. Quale delle due cose è quella giusta, bambino?” Non so.»
Voce, che cosa devo fare? Voce, taci. Madre, dove sei? Padre, perché non vi trovo più? Mi sono allontanato soltanto per far pipì. Carbone, cosa ci fai qui micio? Scappare. Scappare da quelle punizioni, affrontare il passato, ricordare.
«I ricordi fanno male ma non uccidono, Giona. Sei stato coraggioso. Sei ancora vivo.»
Chi sei davvero Giona? Sei sicuro che questo sia il tuo vero nome? Un medico, un ospedale. Ciao Luca. Cos’è davvero l’inverno di Giona?
Una narrazione serrata, forse poco fluida, allucinata e capace di trasmettere la sensazione di trovarsi in una dimensione temporale sospesa, isolata, a sé, è il teatro in cui, per mezzo di un paese a ridosso della montagna le cui fondamenta sembrano sgretolarsi e in cui il confine tra verità e finzione è labile, sottilissimo, le vicende prendono campo. Il lettore è condotto per mano, è costretto a confrontarsi con un mondo fatto di violenza, cattiveria, brutalità, un universo privo di affetto alcuno, privo di ogni manifestazione positiva del sentimento. È costretto a confrontarsi con una stagione aspra e dura, metaforicamente e non. Ciò, almeno, sino all’ultima sezione, una discesa che dagli inferi in cui ci eravamo precedentemente calati, ci riporta alla dimensione del presente, a scenari completamente diversi ma comunque non meno aspri, tormentati, angoscianti e veritieri, a nuovi salti temporali, a nuove voci, nuovi protagonisti; una chiusa che ci porta capire cosa davvero è accaduto, qual è la verità, chi è davvero il personaggio principale e quale sia l’inverno che noi, insieme a lui, siamo costretti a fronteggiare. Il tutto sino a giungere ad un epilogo affatto scontato, che rimescola le carte, che sorprende.
Meritatamente vincitore della XXXI edizione del Premio Calvino, Filippo Tapparelli propone al lettore un romanzo fortemente evocativo, ambiguo, dalle atmosfere conturbanti, dai virtuosismi stilistici e dove niente è come appare. Invita il conoscitore a riflettere, lo obbliga a governare emozioni quali ansia e angoscia, a scrutarsi dentro, a indagare nel proprio buio.
Un esordio che ha quale colonna portante una storia insolita che tiene con il fiato sospeso dall’inizio alla fine, ben orchestrata e dal finale inaspettato e che ci permette di conoscere un autore che saprà ancora far parlare dei suoi lavori.