L'addio L'addio

L'addio

Letteratura italiana

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"Mi chiamo D'Arco e sono uno sbirro morto." Comincia così questo romanzo. Il protagonista è un uomo pieno di dolore. La città dei vivi e quella dei morti sono vicine, comunicanti. La polizia dei vivi e la polizia dei morti sono in contatto e collaborano, quando devono risolvere i casi più difficili. Ma c'è un'altra cosa, che però nessuno sa dire: quale dei due mondi venga prima. Ora D'Arco deve tornare nel mondo dei vivi, nel quale fu ucciso, per fermare un massacro di innocenti. Ma, se la morte venisse davvero prima della vita e il male prima del bene, come si potrà invertire la spirale? D'Arco ci proverà perché ha una formidabile guida: un bambino dal cranio rasato, una creatura con il collo percorso da una cicatrice prodotta da una collana di filo spinato, ma con la stessa sete di giustizia. Una coppia di eroi fragili e indistruttibili, individui solitari disposti a dare tutto per difendere chi sia stato umiliato.



Recensione della Redazione QLibri

 
L'addio 2016-03-23 07:45:11 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    23 Marzo, 2016
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Divieto di addio


Il romanzo per il contenuto mi ha ricordato molto La lucina, forse più deGli increati per la presenza del bambino e per chi rappresenta quel bambino. Anche qui il discorso è difficile: come può l’uomo spiegarsi e giustificare la sofferenza dell’innocente. Non può. Non c’è spiegazione che convinca, non c’è ragionamento, non c’è azione che la possa colmare e sanare. Nemmeno la vendetta del poliziotto giustiziere serve a nulla. L’unico balsamo è la vicinanza solidale dell’uomo al bambino, del bambino all'uomo, quell'esserci e camminare vicini. Per il resto il male è invincibile, è troppo forte, è alla radice di tutto, prima e dopo. Nemmeno in una favola si riesce a estirpare la sua radice maligna in modo da far cessare il canto dei bambini che accolgono altri bambini che in ogni momento muoiono di morte violenta. Il mondo è ingiusto, violento, marcio. Le ferite che vorremmo curare e vendicare sono le nostre stesse ferite, l’unico guadagno è tenere per mano noi stessi bambini.
Di fronte alla tenerezza dell’uomo per il bambino fa quasi un passo indietro anche l’amore che è meno presente che negli altri romanzi di Moresco. La tenerezza per il bambino riempie tutto il romanzo in modo bello e straziante e la si percepisce dal non detto, dal non descritto, dal rispetto con cui è trattato il tema da uno scrittore che di solito non ci risparmia nulla. La critica al male è radicale, c’è il male evidente dell’uomo di luce che risplende nella sua terribile ovvietà e c’è il male nascosto nelle pieghe della società, subdolo e carnivoro. C’è una descrizione della materia che rimanda alla morte, all'abiezione, al degrado come quando vengono descritti certi personaggi che mangiano, ruttano, guardano film porno come se piacere e dolore fossero strettamente legati e il male si nascondesse tra le pieghe della vita, di quella che consideriamo vita. I bambini cuciti, i bambini che cantano però sono immagini di pace, nonostante tutto. Certo, di fronte al dolore dell’innocente non c’è risposta solo umana.
Come direbbe Camus, anche se tutti dovessero morire di peste il medico resta al suo posto a fare il medico fino alla fine e pure il poliziotto e, perchè no, lo scrittore con i suoi occhi bianchi. Infatti, le parole sono importanti per combattere il male: sono il cannone, la mitragliatrice, la pistola e la bomba a mano.

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La lucina, gli increati, i fratelli Karamazoff, l'Idiota
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L'addio 2016-06-03 03:03:49 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Giugno, 2016
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Perché cantate, tremate e piangete?

Antonio Moresco pronuncia “L’addio” in una storia tetra e martellante tanto nello stile narrativo enumerante azioni quanto nell’incalzare degli interrogativi pseudo-filosofici.

La città della morte e la città della vita sono in contatto tra di loro, non si sa bene quale sia il prius, quale il post.
Le scene iniziali si svolgono nella città dei morti: l’oltretomba assomiglia tanto al nostro mondo, ma è afflitta da una litania straziante (“Tutta la citta dei morti era percorsa da un coro verticale di voci di bambini morti”) che induce D’Arco, poliziotto trapassato nell’affrontare il caso dei serial killer nubendi (!), a tornare nella contigua città dei vivi per estirpare l’origine del male (“Perché cantate e intanto tremate e piangete?”).
Con lo sguardo atono (“Perché lei ha gli occhi bianchi”) e un aspetto niente affatto rappresentativo (“Il mio corpo pieno di ferite cicatrizzate ricevute durante le azioni condotte nella città dei vivi”), pilotato da un bimbo che non parla ma scrive (“Ti porto io sono qui per questo”) e conosce i luoghi ove si annidano i persecutori, il vendicatore dei bambini ingaggia una vana missione punitiva, compie una strage di persone malvage dedite ad abusi ed espianti d’organi, passa da scannatoi alla reggia della luce (“Nella terza notte è avvenuto il combattimento con l’Uomo di luce e con le sue legioni”)…

Il clima è angoscioso (“Stava già camminando sui suoi alti trampoli”), le descrizioni metropolitane sono asfissianti (“Siamo entrati in un anfiteatro che si apriva in mezzo a un cerchio di torri ancora di nudo cemento e ferro”), il lettore s’interroga (ma chi li sceglie questi finalisti dello Strega?) e chiede tregua a un autore che si sente investito – anche lui come D’Arco – di una missione tanto salvifica nelle intenzioni (“Non voglio inorridire nessuno, non voglio scandalizzare nessuno”) quanto inane nell’esito.

Peccato, in passato avevo apprezzato la poesia inquietante de La lucina!

Giudizio finale: finalista?, lugubre, ipossico

Bruno Elpis

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L'addio 2016-04-18 08:55:03 ClaudiaM
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ClaudiaM Opinione inserita da ClaudiaM    18 Aprile, 2016
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A mai più rivederci

Romanzo quanto mai filosofico e Antonio Moresco non ce lo fa proprio dimenticare, tanto da diventare noiosamente ridondante nelle domande esistenziali che fa porre al protagonista.
Una pagina sì e l’altra pure, D’Arco (l’agente morto protagonista) si chiede in continuazione se ci sia prima la vita e poi la morte o viceversa. Da dove arrivi il male e se ha origine prima o dopo la vita o la morte. E così via, insomma.
Concentrandosi in maniera particolare su queste domande senza risposta, l’autore tralascia troppo la caratterizzazione dei personaggi. D’Arco (che non ha un nome …) ha gli occhi completamente bianchi ed è pieno di cicatrici che ha collezionato in vita durante le sue missioni di agente di polizia. Fine. È tutto quello che sappiamo. Anzi no. Sappiamo anche che quando era vivo era innamorato di una donna, incontrata casualmente dentro un cassonetto dell’immondizia (e non ci viene spiegato come mai si trovasse lì …) e che a sua volta non aveva un nome. E non è che non lo avesse perché sbadatamente non ci viene mai riferito, perché non lo conosce neanche D’Arco, tanto da chiamare la donna “Quella”.
Fatta questa premessa, il romanzo parla in maniera non troppo chiara di questo agente di polizia morto che viene incaricato da uno sconosciuto di capire perché mai i bambini morti cantino in coro tutte le notti.
A parte il fatto che non ci viene spiegato come mai un coro di bambini sia un evento tanto eccezionale nel mondo dei morti, D’Arco capisce che per risolvere il mistero deve tornare nel mondo dei vivi accompagnato da uno dei suddetti bambini, in particolare dall’unico che non canta perché muto.
La cosa si fa interessante – penso – ma poi, quando viene il momento cruciale del passaggio da un mondo all’altro, l’autore bypassa il problema dicendo “È così semplice che non si sa come dire” … così non vale! Che fai? Come Dante che sveniva per passare da un girone all’altro!? Lui però era Dante! Poteva permetterselo!
Comunque, D’Arco arriva magicamente nel mondo dei vivi, dove nessuno si pone il problema che per strada passeggi un uomo senza pupilla né iride (cosa che, a quanto risulta da certi racconti del passato del protagonista, non è una caratteristica dell’essere morto … ma anche qui non viene detto nulla di più), e insieme al bambino muto che comunica sfregiando muri e marciapiedi con pietre e vetri (dargli un taccuino no, eh!), inizia a fare piazza pulita di violentatori e assassini di bambini. Eh già, perché i bambini del mondo dei morti cantano per accogliere la marea di bambini che vengono uccisi ogni notte nel mondo dei vivi. Chi li uccide? Perché? Che domande difficili … “Ammazziamo i bambini per non farli diventare grandi e non fargli uccidere altri bambini” … ma mi prendi in giro!?
Insomma, questo libro non ha ne capo ne coda, forse volutamente perché in parallelo al discorso che non si sa se c’è prima la vita o la morte, ma personalmente sbuffavo ad ogni pagina che giravo, stufa soprattutto dei continui e sempre uguali pensieri del protagonista.
Altra cosa che non ho apprezzato è stato un’intera pagina con l’elenco delle descrizioni e delle battute classiche di libri polizieschi che l’autore non avrebbe usato nel suo romanzo … c’era davvero bisogno di farlo!? Mah …
Per quanto riguarda lo stile, l’ho trovato a tratti telegrafico ed eccessivamente descrittivo (ad esempio: “Ho attraversato il piano del garage. Ho varcato la porticina. Ho seguito per un po’ il corridoio. Sono arrivato davanti alla mia porta. L’ho aperta. Sono entrato. Ho richiuso la porta alle mie spalle.” Poco scorrevole, insomma …).
Non so che dirvi, forse non ho capito io il senso di questo libro (anzi, sono sicura che sia così, notando le altre recensioni), ma se dovete leggerlo per passare qualche ora di rilassamento, lasciate perdere.
Non avevo mai letto nulla di Moresco, credo che il problema sia che non è il mio genere, che è troppo pensieroso e filosofico e così facendo tralascia cose che invece io apprezzo di più in una lettura.
Chiedo perdono per gli amanti di questi libri, ma il mondo è bello perché è vario, no! L’importante è provare altri generi. Ora so che non fa per me.

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Ovviamente agli amanti del genere e dell'autore (che non me ne vogliano troppo per la mia recensione!)
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