Io non ci volevo venire
Letteratura italiana
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Uomini e no
Giovanni Di Dio, malgrado il suo nome possa suggerire di primo acchito l’immagine di un uomo buono, empatico, timorato di Dio, dotato di una viva spiritualità, e di una appartenenza intensiva al Creato ed all’umanità, è in verità tutt’altro.
Un uomo di mezz’età abbondante solo, solitario, appartato, isolato ed isolatosi dal mondo reale e dai suoi abitanti, per questo triste anche se non sa neanche di esserlo, anzi, pare pure soddisfatto di questo suo tran-tran.
Auto rifugiatosi nella bambagia del “non vivere”, da lui confuso con il quieto vivere che è invece tutt’altra cosa, perciò quasi dimenticato dai suoi simili, una presenza inosservata, talora fastidiosa come un moscerino, e però ininfluente, un elemento del quotidiano insulso e abitudinario.
Un uomo anche pusillanime, pavido e codardo, come tutti coloro che si rifiutano di crescere, lottare e maturare: non è un ritardato o un traumatizzato nell’infanzia per cause a sé esterne, la sua è stata un’esistenza normalissima, semplicemente non ha alcuna voglia di darsi da fare come chiunque per gestire i fatti usuali dell’esistenza, si sente un pesce fuor d’acqua se non si trova al sicuro nel bozzolo che si è costruito da sé, sfuggendo certosinamente all’interagire sociale.
In maniera simil patologica ha rinunciato ad essere un uomo come tutti, teme la vita, i necessari travagli e le usuali tribolazioni dell’esistenza, per quanto il suo vissuto d’origine sia semplice, viene da un ambiente popolare, da una famiglia umile e modesta, ma provvista di un minimo di dignità, almeno tali e capaci sono gli altri membri della sua famiglia. Parliamo di famiglia di origine, poiché dati i presupposti Di Dio una sua di famiglia, una moglie, una compagna, o almeno una ragazza, un rapporto non lo ha mai vissuto e coltivato, la sua è una realtà affettiva esclusivamente onirica e digitale, trova un qualche sfogo solo al computer visitando siti web di cui occulta vergognosamente la cronologia. Tanto per capirci, e capirlo.
Un immaturo, uno che è restato un adolescente mai cresciuto, inetto, incapace e complessato.
Può vivere in questo modo insulso, può e riesce a farlo solo perché supportato in questo dai propri parenti, nello specifico trattasi di un matriarcato ampliato, che lo tollera per un malinteso senso della famiglia. Essendo l’unico figlio maschio, con un padre invalido ed afflitto da demenza, le redini dell’esistenza sua sono saldamente in mano a madre, sorella, zia, vicine di casa, insomma un gineceo al potere che lo ha declassato al ruolo di ingombro da sopportare, un evento disgraziato anche da supportare data la manifesta incapacità di intendere l’esistenza, di cavarsela da solo nelle incombenze più banali e gestire comunemente gli atti quotidiani.
Come dire, Giovanni Di Dio avrebbe volentieri fatto a meno del venire al mondo, troppa fatica, troppa responsabilità, troppo pretese, nessuna gratificazione, lui letteralmente non ci voleva venire.
Perché il buon Giovanni, protagonista assoluto dell’ultimo romanzo di Roberto D’Alajmo, è un siciliano, ha cinquant’anni, portati male, al limite dell’obesità, e se i suoi conterranei come Vittorini delineavano l’umanità in uomini e no, oppure come Sciascia che ne faceva fare da un suo personaggio una elenco più particolareggiato, distinto in uomini, mezzi uomini e via a scendere in basso, ebbene Di Dio si tira fuori volontariamente dal consorzio umano, se ne pone motu proprio, d’istinto e a ragione, nei ranghi più bassi della scala sociale.
Non perché sia un asociale in senso stretto, in quanto un minimo di contatto riesce giocoforza a salvaguardarlo con chi ha d’intorno, anche con i non appartenenti alla sua stretta cerchia familiare, ma perché è un ultimo, uno sconfitto, un vinto dalla vita, un perdente nato, uno di quelli che già da bambino veniva declassato con irrisoria facilità ultimo nei giochi e nei ruoli.
Come può un individuo del genere, non cattivo ma ignavo, completamente privo di amor proprio e di spina dorsale, procacciarsi il minimo per sbarcare il lunario, guadagnarsi un reddito, se anche i suoi studi e la sua formazione professionale risentono della sua ritrosia a impegnarsi e mettersi in gioco?
Ovviamente chiedendo aiuto, ricorrendo con petulanza a chi bada a lui, seppur malvolentieri, la propria madre; e costei, povera donna, vittima a sua volta del retaggio culturale dei luoghi e dei tempi, pensa bene di rivolgersi all’autorità costituita, la sola sempre presente sul territorio, su tutto e tutti vigilante, in grado di provvedere: il piccolo boss malavitoso locale, detto lo Zzu.
Giovanni Di Dio è troppo inetto, maldestro, incapace per essere finanche arruolato nella malavita; troppo bamboccione, troppo grande, grosso e fessacchiotto per svolgere un qualche ruolo illegale, per cui lo Zzu provvede a procurargli un posto fisso, dopotutto per il suo prestigio deve provvedere anche agli incapaci del suo dominio, per cui Giovanni viene assunto già da giovanotto in pianta stabile come guardia giurata notturna presso un’agenzia di vigilanza.
Esercita così diligentemente la sua professione, lavora di notte, con tanto di divisa e pistola d’ordinanza, e dorme di giorno, attività temporale maggiormente consona al suo modus vivendi.
Tutte le notti fa tranquillamente il giro di negozi ed attività che si sono affidate alla sua agenzia per vigilare a pagamento sulla sicurezza delle loro aziende, sempre senza intoppi o complicazioni, tanto che si apparta spesso a schiacciare un pisolino nell’auto di servizio tra un giro e l’altro.
Tutto questo per oltre venti anni: quello che Giovanni non sa, non capisce e non vuole capire, per ingenuità e per fessaggine, è che il suo è un lavoro di comodo, una facciata, l’agenzia di vigilanza è una proprietà mafiosa, un modo legale con cui i commercianti devono sottostare all’odioso pizzo per continuare la loro attività, omettendo il quale restano senza vigilanza, vale a dire senza protezione mafiosa. Un sempliciotto come Di Dio è quanto serve per dare una parvenza innocua e legale al tutto, nemmeno si chiede come mai allorché un’azienda disdice il contratto di vigilanza, a lui venga perentoriamente ordinato di escluderla dai suoi giri inutili, e intanto immediatamente la sede dell’azienda, guarda caso, subisce furti, incendi, disgrazie varie al punto da richiedere il ripristino degli accordi, divenuti intanto più onerosi, e Di Dio è sempre più convinto che è la sua solerte vigilanza, che si estende di nuovo all’azienda pentita, a tenere lontano i malintenzionati.
Una beata incoscienza, un andazzo regolare che va avanti per anni, ma certe cose, certi legami, certi favori, a lungo andare si ritorcono contro, viene il momento per cui lo Zzu, in silenzio per anni, convoca Di Dio chiedendogli un servizio per suo conto, a ripagare il favore concesso a suo tempo, l’avergli trovato un’occupazione stabile e duratura, assicurandogli il pane quotidiano.
Non sono richieste da cui ci si può esimere, questo finanche Di Dio lo capisce, e se non lo capisce glielo fanno capire in famiglia. Di quale favore si tratta? Nulla più che indagare sulla scomparsa di una giovane, una comune brava ragazza del quartiere, misteriosamente scomparsa e inutilmente ricercata da parenti, amici, autorità.
Un boss mafioso, per quanto di piccolo cabotaggio, non può permettere che sul suo dominio qualcuno sparisca senza che lui ne sappia nulla, o meglio ancora che lui non ne abbia organizzato la scomparsa. Questo è un segno di debolezza, di incapacità, certi ruoli vanno difesi contro le pretese delle nuove leve ansiose di prendere il potere, per cui lo Zzu si rivolge a Di Dio, che dopotutto ha divisa e pistola, è una specie di poliziotto, e soprattutto gli deve un favore grande come una casa, senza metafore, gli deve la vita, incaricandolo in gran segretezza di indagare e riferirgli quanto scoperto.
Sarebbe come incaricare l’obeso Fracchia di una atletica mission impossible, ma tant’è, tanto passa il convento, in mancanza di meglio ci si appella a tutto, e poi talora i miracoli accadono.
E da qui il romanzo elenca tutta una serie di eventi, tragicomici certo, visto il personaggio di Giovanni Di Dio, ma più dichiaratamente assurdi, anche scontati, talora surreali, sempre farseschi.
Con questo romanzo, Roberto Alajmo ha certamente voluto sottolineare con una sottile vena sarcastica l’assurdità, l’irragionevolezza, la stravaganza di un modo di vivere simil delinquenziale, basato sul timore ingannevole, la reverenza irragionevole, le tradizioni abusate, il millantato credito; ci si chiede se davvero vale la pena, in certi casi, di intraprendere un’esistenza criminale e criminosa al di fuori della legge, a rischio della libertà personale, per non dire di peggio, cosa in effetti spinge certuni a percorrere una via che non porta palesemente da nessuna parte.
Delinquere può avere parecchie motivazioni, quella più comune è il facile arricchimento, il profitto senza sforzo, il crearsi una posizione di gloria e di potere a discapito altrui.
Ebbene, tutto questo ha un costo, in termini di tempo, impegno, salute e stress che se esaminati nel dettaglio, a conti fatti ad una persona conviene mille volte impegnarsi ad emergere in virtù di fatica ed impegno svolti onestamente, guadagnandone molto di più in termini di resa pratica, senza nemmeno incorrere nei rigori della legge.
Come dire, il delitto rende, forse; ma certamente ti fa vivere malissimo, a tutti i livelli.
Quando ottieni, per quanto elevato, è sempre effimero ed a rischio; ragionevolmente, è mille volte meglio condurre un’esistenza magari stentata ma che ti permetta di goderne i frutti, per quanto talora pochi, e non è detto.
Soprattutto ti conceda di poter dormire serenamente sugli allori, anche se della corona di alloro restano solo poche foglie, forse qualche spina, magari anche senza forse, perché no.
L’intento è buono, indubbiamente, il modo scelto, il sarcasmo, la satira, l’ironia, la canzonatura anche, indubbiamente ci sono tratti di lettura che sferzano, suscitano il sorriso, e però…però qualche dubbio la lettura la suscita. Non è un cattivo racconto, però non è riuscito al meglio.
Il romanzo non è neanche scritto male, anche se a volte appare ridondante, ma è il personaggio stesso che appesantisce la prosa, bisogna riconoscerlo, anche se Alajmo ci prova più volte a sgrezzarlo.
Solo che non convince in pieno, malgrado gli sforzi evidenti ed apprezzabili, il risultato non migliora, sarebbe come dire che Giovanni Di Dio assomiglia molto, o almeno ce lo ricorda bene, l’agente Agatino Catarella, centralinista del commissariato di Vigata dove agisce il celebre Montalbano dei romanzi di Andrea Camilleri.
Sempre di Sicilia si parla, sempre di piccoli centri, e però Catarella, per quanto assurdo, ha un suo perché, fa ridere, ma ci intenerisce.
Giovanni Di Dio è una parodia, ma non voleva esserlo, non ci voleva venire, ecco, questo è il punto.