Il tempo delle iene
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Anche l’Africa ha il suo Sherlock Holmes
Se dico Sherlock Holmes, cosa vi viene in mente?
1800? Inghilterra? “Elementary, my dear Watson”?
Io, dopo la lettura di questo romanzo, penso solo a Ogbà.
“Il tempo delle iene” è il nuovo libro di Carlo Lucarelli, il secondo ambientato in Eritrea durante il colonialismo italiano: il lettore potrà immergersi ancora una volta nelle indagini del comandante Piero Colaprico e del carabiniere indigeno Ogbà.
Già dalle prime pagine, il narratore onnisciente informa il lettore del caso su cui i due protagonisti dovranno indagare. Il primo giorno, all’alba, un giovane pastore trova appeso a un ramo di un sicomoro (o meglio, del sicomoro, data la sua importanza) il cadavere di un bracciante di una stazione agricola. Il cadavere viene tirato giù dall’albero e si decide che il giorno seguente ci sarebbe stata la benedizione dell’albero profanato dal suicidio.
Tuttavia, una nuova macabra scena si presenta all’alba: “Davanti al clero della vallata che avanzava solenne avvolto nelle cappe ricamate, con in mano croci di legno, di ferro e d’argento, la mattina dopo, di impiccati attaccati allo stesso ramo ce ne erano due”.
E la serie di morti non finisce qui.
La mattina del terzo giorno, appeso al sicomoro, c’è un terzo cadavere. Un solo uomo, che però vale come l’intero villaggio: “Perché a penzolare sotto l’occhio di berberè del grande sicomoro come una lacrima sul controluce dell’alba, questa volta c’era un ferengi, un bianco. Ma non un ferengi qualunque. Un marchese. Il marchese Sperandio”.
“Il tempo delle iene” è un giallo storico, un genere che negli ultimi tempi sembra riscuotere un buon successo. A mio avviso, è però un “ottimo” giallo storico: l’autore, con grande abilità, riesce a unire storia, cultura e suspence in un racconto breve (196 pagine).
L’interesse (e penso anche l’amore) dell’autore per l’Eritrea e le sue tradizioni emergono in ogni frase, in ogni capitolo del romanzo: le parole in tigrigna, i riferimenti agli usi e i costumi…
Sono tutti aspetti che rendono le indagini del comandante Colaprico ancora più reali.
Inoltre, nonostante la distanza geografica tra Corno d’Africa e Italia, i riferimenti all’Emilia Romagna sono sempre presenti, come se ci fosse un filo invisibile, un legame indissolubile a unire le due regioni.
Non voglio raccontare molto della storia per paura di rovinare la lettura a un futuro lettore.
Ammetto che ho “sentito” la mancanza dovuta al fatto di non aver letto il primo romanzo con questi protagonisti. In alcuni passaggi è come se, avendo già presentato Colaprico e Ogbà precedentemente, l’autore evitasse di ripetersi e sottintendesse diversi loro aspetti.
Comunque ci tengo a sottolineare che un aspetto davvero molto importante è la capacità con cui l’autore riesce a creare e a rendere unici i suoi personaggi.
Tutti quelli che compaiono in scena (uomini, donne, bambini), anche solo per una pagina o qualche riga, sono talmente ben descritti che non ho fatto nessuna fatica a immaginarli come veri, come persone realmente esistite e che hanno sofferto, gioito, che hanno vissuto una vita.
Ogbà è probabilmente uno dei personaggi più particolari che abbia mai incontrato nella lettura di un romanzo: è davvero lo Sherlock Holmes abissino, pur senza sapere di esserlo!
Potrei discutere per ore dei personaggi di questo romanzo ma come dice lo stesso Lucarelli: “Ce ne sarebbero altri, ma se continuo così li metto tutti. Li lascio là dentro, allora, nel romanzo. Che vengano fuori da soli”.
Quindi, che dire se non buona lettura? :)
“-Ecco cos’è il cafard… un insetto che ti entra dentro l’anima e te la divora piano piano. La parola l’ha inventata un altro poeta amico di Arthur che si chiama Charles Baudelaire: significa ‘scarafaggio’ e rende bene l’idea.-
Era una cosa importante, ma Colaprico non se ne rese conto perché proprio in quel momento ne successe un’altra che lo sembrava di più. L’ultima delle cinque che accaddero in quei giorni e casualmente tutte di notte”
Indicazioni utili
Consigliato anche a chi è appassionato di storia, data la grande attenzione dell'autore nella ricostruzione del periodo storico.
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 1
Per t'lian lettori
Ci sono giorni in cui esci compri un libro lo leggi e ti fai un idea dell'autore, così torni in libreria decidi di prenderne un altro e la sensazione precedente viene accantonata e sostituita da una nuova visione che per anni ti tiene lontano da quell'autore.
Viene il giorno in cui il caso ti mette di fronte un nuovo libro dell'autore dimenticato e decidi, visti i commenti, di dargli un'ulteriore possibilità. Grazie all'occasione scopri una testo interessante, capace di riprodurre atmosfere, climi e situazioni dei primi del Novecento nell'ex colonia dell'Eritrea. La molteplicità delle scene, la ricercatezza del linguaggio, la dualità della lingua, la storia delle abitudini portano in una terra lontana, riuscendo a ricreare attraverso il racconto ambienti e luoghi lontani, mostrando le similitudini e le diversità (“..come da tradizione, Ogbà è il padrone di casa e dovrebbe stappare un pezzo di ingera con cui avvolgere qualche cubetto di carne da intingere nella senape o nella ricotta e imboccare l'ospite, non ci pensa neanche, sicuro che il capitano non capirebbe...”). Si formano attraverso queste peculiarità, le scene e le atmosfere, comprese quelle tipiche del giallo classico, narrazioni capaci di rendere la suspance e la difficoltà delle indagini del passato, fatte più di logica e deduzione che di scienza. I lunghi attraversamenti del deserto, le difficoltà nel reperire i reperti e i testimoni dei crimini, il telegrafo con le sue parole battute al vento colpiscono e affascinano. Immersi in questo contesto, tanti personaggi, negri e bianchi, coloni e colonizzatori, donne e uomini plasmati con dovizia di particolari per far trapelare i molteplici sentimenti della colonia, ovvio, su tutti spiccano i protagonisti.
Il capitano dei regi carabinieri Colaprico, d'istanza alla caserma di Asmara e il suo fedele aiutante, il vice, lo zaptiè Ogbagabriel Ogbà indagano sulla morte del marchese Sperandio, un sognatore Carlo Maria, coltivatore di viti per produrre chianti africano, e di tre abeshà, tutti impiccati ad “ainí berberè”, il sincomoro a pochi passi dai tucul di Afelba.
Quale relazione esiste tra le morti? Cosa unisce i tre indigeni con il “ferengi” (bianco)?
Due menti a confronto diverse, ma oneste e rette. Così il t'lian Colaprico e l'abeshà Ogba si completano a vicenda e se dei ferengi, compresi i t'lian, non c'è da fidarsi (“T'lian fetiunnì ilkà aitiaguès, non sentirti felice se l'italiano ti ha detto che ti ama. Non sentirti triste se ti ha detto che ti odia. Mai prenderli sul serio, gli italiani. Fanno sempre cose inutili.” ), Ogba, pur rispettando le gerarchie militari, non tiene allo scuro il suo capitano, illustrandogli le sue deduzioni. Passando tra le dita, la fiamma rossa dell'arma osserva e deduce, finendo per somigliare all'inquilino del 221 di Baker Street, spesso accomunato a lui anche da Colaprico, appassionato dell'investigatore appena inventato dalla penna di Doyle.
L'ombra del suicidio aleggia sulla vicende, sembrerebbe naturale quasi ovvio e le tessere del mosaico potrebbero comporre uno scenario simile. Attenzione però, Sherlock docet! “There is nothing so unnatural as the commonplace”, Ogba preferisce “Kem fulut neghèr zeybahriawí yelèn”, visto che snobba gli appellativi del capitano e non vuole fare la fine di Isaias, soprannominato Dante, un semplice “amarí t'lian”.
Così la “cosa del mosaico” porta via tempo, si scompone e si ricompone più volte, sempre più “hadeghegnà”, pericolosa, è tanta la pazienza da usare per disegnare la giusta scena, ma i due ci riescono, facendo trapelare un mondo di avventurieri, faccendieri, trafficanti di armi e di uomini, mogli legittime e illegittime che reclamano eredità, in breve una colonia già colma di loschi affari e specchio di una madrepatria altrettanto “trafficona”.
Semplice, classico da leggere.