Il segreto di Marie Belle
Letteratura italiana
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Segreti e memorie
Quello che colpisce in questo giallo di Silvio Raffo è lo stile, molto più della trama, comunque avvincente e rilevante, è il modo come lo scrittore la porge al suo lettore.
È il suo un modo di scrivere molto particolare, ricercato, non casuale: Raffo volutamente ammanta la sua prosa di un sapore gotico, mi ricorda moltissimo la prosa di maestri del genere come Peter Straub o Ann Radcliffe o Shirley Jackson.
In più, ha un modo incerto di esporre la trama, effetto ricercato anche questo, per cui il lettore non capisce mai, non afferra mai compiutamente, se non alla fine, il vero intento del discorrere cui finora ha assistito, e vi giunge solo dopo aver trascorso un bel po’ di tempo con le idee parecchio confuse.
Il lettore è completamente spiazzato, quando realizza, o crede di farlo, che colei che parla dice il vero; ma è altrettanto disorientato quando ugualmente comprende che la stessa persona mente sapendo di mentire. O forse neanche allora.
Quest’artifizio non è, con tutta evidenza, un tentativo di depistaggio del lettore, sarebbe davvero banale e puerile, ma è tutto il romanzo che letteralmente è così, e la sua fortuna sta in questo, disorienta, incuriosisce, appassiona, e finisce per incantare.
Capite, non è che sorprende, non è che termina con il classico coniglio a sorpresa fuori dal cilindro, no, se ti sorprende, è perché ti meraviglia per la semplicità e la logica che portano al risultato finale.
Il libro è la semplice, progressiva enunciazione di una storia avvenuta nel corso di un lungo periodo di tempo, riportata da una persona i cui ricordi, per quanto vividi, reali, sinceri, hanno carattere di urgenza, di frettolosa e ansiosa, direi ansiogena rivelazione, tendono a sbiadire nel tempo, risultano confusi, evanescenti, spesso in palese contraddizione tra di loro.
Il lettore è letteralmente proiettato non dico nei deliri onirici, ma nelle reminiscenze confuse di chi, per qualche motivo, ha evidenti problemi cognitivi, ne è conscio, eppure nello stesso tempo desidera fissare i fatti prima che accada qualcosa per cui non riesca più a manifestarli che a spezzoni, non li mostra però mai confusi e inconcludenti a sè stanti, e pure in questo si rivela l’abilità dell’autore.
La storia è una storia d’amore, non l’amore classico di coppia, ma uno invece più sublime, ed eccelso, l’amore filiale. Ancora più insigne in questo caso specifico, perché non si tratta di un rapporto madre figlia, ma come spesso accade, è quello assai più nobile tra un’istitutrice, Aurelia, e la giovane a lei affidata per cura e istruzione, la giovane Marie Belle.
Aurelia è la voce narrante, sullo scenario di Villa Sorriso, ora forse un ospizio o una casa di riposo, o probabilmente un grazioso edificio per persone carenti nella mente, ed ella ripercorre tutte le vicende che vedono protagonisti i membri familiari della giovane a lei affidata.
In un altro tempo, in un’altra location, in un’altra villa che non è di sorriso, ma di dolori, una villa che dovrebbe essere di protezione già nel nome elettivo.
In realtà poco protegge, in particolare è di poca difesa per la sua pupilla, non le nuoce certo nel fisico, ma nel morale, dove fa più male, e le ferite sono quasi sempre mortali, questo non è un giallo classico, direi invece un dramma psicologico, se non una tragedia, un delirio di anime.
Ricorda molto le atmosfere dello scrittore e psichiatra tedesco Wulf Dorn.
Infatti, tutti quelli che le sono d’intorno a Marie Belle, che lei più ama, periscono, prima la madre, poi il padre, poi varie persone a titolo diverso vicino prima alla bambina e poi alla giovane donna che Marie Belle diventerà, e che Aurelia segue, educa, protegge, accudisce fino all’età adulta, annichilendosi in un amore filiale volto a proteggere e preservare l’innocenza, la bellezza interiore, il garbo di Marie Belle.
Al punto da annullarsi completamente, Aurelia vive la propria esistenza solo per interposta persona, è Marie Belle che vive due vite in una la sua e quella della sua istitutrice.
Per le due donne, è un mutuo soccorso, ciascuna trova rifugio nell’altra e l’altra protegge, è una forma di amore ambiguo se visto dall’esterno, ma quanto mai tenero e delicato, ognuna delle due donne si realizza nell’altra, al riparo da ogni forma di amore molesto, e dannoso, e certo Aurelia si sublima per la sua pupilla, ma la sua discepola vive anche l’esistenza che avrebbe potuto, e dovuto condurre, la sua istitutrice.
Loro due unite contro un nemico misterioso, giacchè i lutti che funestano la vita della giovane, anche se alla’apparenza non sembrano tali, sono, in effetti, degli omicidi.
Oltretutto, senza movente.
O almeno, senza movente apparente.
La conclusione, dicevamo, non è a sorpresa, e però sorprende, perché tratta dei delicati, e talora mostruosi, ambigui rapporti affettivi che s’instaurano tra le persone.
L’ambiguità non va bene con i sentimenti forti; questi per definizione hanno bisogno di chiarezza, sempre quello che è grande e forte lo è perché è alla luce, si esalta nel vero e nel chiarore della limpidezza.
Allorchè si ammanta di ambiguità, di ombre, di equivoci, allora per diretta reazione opposta divampa di luce improvvisa, quindi di fiamma, con furia distruttrice, e devastante.
Paradossalmente, un fuoco a lungo covato, che quanto divampa, non brucia, agghiaccia.
Perché il finale, e la sua motivazione, non sono funerei, è agghiacciante. e proprio per questo l’unica possibile, la più reale, inesprimibile a parole:
“Perché le parole non sono mai all’altezza della verità. La verità è un segreto troppo prezioso. È stato il mio segreto per tutta la vita».
Questo di Silvio Raffo è una storia molto particolare, proprio per questo di non facile lettura.
Tuttavia, conviene insistere, anche se, per stile e tutto, talora stanca, o irrita.
Tranne accorgersi, sul finire, che è un gioco delle parti. Ruoli modificati.
Un romanzo, in fondo, questo fa; non descrive fatti, li modifica.
Al punto, che un sentimento intenso, chiaro e plateale, si tramuta in un segreto.