Il sale sulla ferita
Letteratura italiana
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Ardelia veste a lutto
I giorni di Ardelia Spinola scorrono tutti ugualmente monotoni e mesti, immalinconita dalla scoperta che, forse, tra le due persone che più ama (l’ex commissario Bartolomeo Rebaudengo e la talentuosa pianista Norma Picolit) sia scoccato l’amore. Poi, inaspettatamente, una sera, riceve una telefonata enigmatica da Arturo Granero, l’ex fidanzato mollato per i suoi troppi misteri. Il breve colloquio più ricco di parole non dette che di vere comunicazioni, la lascia inquieta e dubbiosa. Qualche giorno dopo, chiamata per i tristi rilievi su un cadavere ritrovato dentro la piscina in una villa di Albenga, fa una scoperta sconvolgente. Il morto, ucciso da una fucilata, è proprio Arturo, il suo Arturo.
Precipitata nello sconforto più nero, la donna si domanda se in quella telefonata l’uomo avesse voluto comunicarle qualcosa, lanciarle una muta richiesta d’aiuto che, per il disinteresse da lei manifestatogli, non si era esplicitata. Forse lei, Ardelia, è stata una delle concause della sua morte? Ovviamente, in quanto parte interessata, non potrà eseguire gli esami autoptici, ma la bramosia di scoprire chi ha ucciso Arturo la tormenta e la deprime. Tra l’altro un dubbio la arrovella: l’uomo era ospite di un suo amico di recente data, tal Davide Drusi, uomo dagli ignoti traffici, che gli assomiglia come un gemello monozigote. Che il povero Arturo sia stato vittima di uno scambio di persona? Forse la vittima designata doveva essere proprio quel Drusi, che, tra l’altro, ha una serie di conti in sospeso con il vicino, un sociopatico iroso e vendicativo.
Per fortuna di Ardelia, il buon Bartolomeo Rebaudengo le è subito a fianco, per sostenerla, rincuorarla e, grazie alle ancora salde conoscenze tra le forze dell’ordine, tenerla aggiornata sulle indagini. Ma si sa, il medico legale, nonostante le spergiurate promesse di non immischiarsi, non riuscirà a starsene fuori. Anzi, proprio grazie alla sua tenacia, sarà possibile svelare tutte le trame oscure che reggono la truce faccenda; trame che il magistrato incaricato, per la troppa fretta di chiudere il fascicolo, non avrebbe mai scoperto.
Trovare in libreria i romanzi di Cristina Rava è sempre una piacevole sorpresa, però, come si suol dire, non tutte le ciambelle riescono col buco. Questo romanzo, pur scritto con il solito stile garbato, corretto e ben strutturato, stenta a decollare, sembra quasi che il meccanismo perfetto che aveva mosso le vicende precedenti, si sia in qualche modo arrugginito, che necessiti di essere lubrificato. I primi capitoli sono un triste (e un po’ monotono) resoconto degli umori neri della Spinola. Si sente la mancanza delle auliche descrizioni d’ambiente o dei sentimenti umani; delle osservazioni, apparentemente colloquiali, ma ricche di considerazioni profonde; dei divertenti dialoghi, talvolta battibecchi, che i protagonisti intrecciano tra di loro. Questi ultimi, in particolare, almeno nei primi capitoli, appaiono abbastanza piatti e i vari interlocutori scarsamente caratterizzati. In passato non era neppure necessario precisare chi pronunciasse le varie battute, perché l’autore era immediatamente identificabile. In questo romanzo spesso accade che tutte le frasi sembrino pronunciate dalla stessa bocca senza una precisa coloritura distintiva negli interventi. Anche i girotondi sentimentali dell’anatomo-patologa non ravvivano a sufficienza la vicenda, anche se, per gli affezionali lettori della serie, si preannunciano vere sorprese.
Dal punto di vista della vicenda poliziesca, poi, il fatto che la Spinola, per la maggior parte del tempo, se ne debba stare alla finestra a osservare ciò che fanno gli altri senza poter intervenire (o senza intervenire troppo) nelle indagini, spoglia il libro dell’azione che ravviverebbe la narrazione.
Per fortuna, seppur lentamente, la storia prende quota e si ritrovano pagine che ricordano i migliori romanzi della serie. Il racconto non si limita più a esporre il lento procedere delle indagini, ma spazia su altri temi, sull’umanità dei personaggi coinvolti, sulle loro vicende private, su considerazioni importanti. Tuttavia si ha la sensazione che la fase di spleen dell’A. (o la sua mancanza d’ispirazione) non sia ancora cessata e pure la produzione letteraria che offre al suo pubblico ne risenta. Alla fine, l’epilogo, decisamente non catartico e parzialmente insoddisfacente e incompiuto, lascia con un po’ d’amaro in bocca, mentre alcune vicende, rimaste in sospeso, forse in attesa di una futura risoluzione, abbandonano il lettore, dubbioso, nel mezzo di un cammino letterario che non mostra chiaramente la sua meta.
In definitiva, questo appare come un romanzo un po’ dimesso, sottotono, un interludio un po' vano, pur conservando i pregi della prosa sempre affascinante e curata della scrittrice ligure. Comunque da leggere, anche solo per non perdere di vista le vicende della simpatica dottoressa “frugamorti”.
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Chiudo con una tirata d’orecchi agli editor (o ai correttori di bozze?) della Rizzoli. Non si può vedere in un volume di una casa editrice di tale pregio una frase di questo tipo: “Ci vediamo di rado. L’hanno scorso capitava più spesso”. Un errore da matita blu anche alle elementari!