Il nome del padre
Letteratura italiana
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Fantasmi di done, luci e segreti
Il nome del padre di Flavio Villani è un libro che spazia su due piani temporali, differenti tra loro: prima gli anni Settanta a Milano, e poi uno sguardo, difficile e sofferente, agli anni Quaranta e Cinquanta. Una vicenda ingarbugliata, dove fino all’ultimo non si intravede luce per condurre al colpevole.
Protagonista della vicenda narrata è il commissario Cavallo e la sua vice Valeria Salemi. Il commissario era stato anni prima:
“Loro erano dei veri duri, io ancora un ragazzino. Loro insieme all’automatica d’ordinanza, portavano coltelli a serramanico e tirapugni. Io tenevo il codice penale sulla scrivania. La differenza, ovviamente, saltava all’occhio”.
Il suo esordio alle prese con un delitto, tanto inumano quanto incomprensibile, che segna per sempre la sua vita in:
“il prima e il dopo il delitto della vigilia di ferragosto del ’72.”.
Il ritrovamento di pezzi di cadavere, che paiono appartenere ad una donna, per lo più incinta, lo segna profondamente. Tutti fanno riferimento al “Macellaio della Martesana”: l’omicidio di una donna avvenuto nel 1945, fatta a pezzi, da quello che fu definito appunto il “macellaio”. Ed è tra il 1944 e il 1972 che si svolge una lunga inchiesta, con tanti personaggi inquietanti, con molte luci ed ombre all’interno sia della stessa chiesa che della stessa polizia, in cui il giovane Cavallo cerca di mettere ordine. Fantasmi di donne, con i loro segreti e le loro ambiguità, popolano la narrazione in modi diametralmente opposti, ma ugualmente inquieti. Tanto da angustiare il commissario Cavallo per oltre trent’anni. Riuscirà a risolvere misteri di così lunga data? A che prezzo?
Un romanzo che gode di tantissimi colpi di scena, che trascina con passione in un vortice altalenante di emozioni e di grande eleganza. Una prosa raffinata e precisa trascina il lettore, affascinandolo e travolgendolo in una storia dai grandi misteri e dalle numerose ombre. Dipanare la matassa una sfida da vincere con sentimento e perizia di indagine, con un fondo finale di malinconia e di tristezza che fa apprezzare ancor di più la lettura. Sullo sfondo: la città di Milano, oscura ed imprevedibile come la vita delle sue periferie.
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Per mortem ad vitam
“Il nome del padre” è un giallo classico che si inserisce nel filone italiano del quale Giorgio Scerbanenco è il maggior esponente. La storia ha inizio in un afoso agosto milanese dei nostri giorni quando la viceispettrice Salemi riceve dal suo superiore il commissario Rocco Cavallo un suo manoscritto; lì, nero su bianco, il commissario ha raccolto tutti i suoi ricordi e i suoi sospetti sul caso d’esordio della sua carriera rimasto irrisolto, l’efferato omicidio di una donna trovata fatta a pezzi in una valigia al deposito bagagli della stazione Centrale di Milano in un analogo afosissimo agosto del 1972. Il giovane ispettore Cavallo deve fare i conti con i depistaggi e le tesi precostituite del suo superiore il commissario Naldini e del capo della Buoncostume Ferretti. Ma per lui non contano solo i risultati e un colpevole a caso ma la giustizia. In questa sua ricerca viene in qualche modo aiutato dal giudice Nobile e dal vicecommissario Vicedomini che lo mette al corrente di altri due omicidi avvenuti con le stesse modalità trent’anni prima nel 1944, quando l’Italia era sull’orlo del baratro e a nessuno interessava di due donne uccise. Molto interessanti sono il racconto nel racconto, la similitudine tra due poliziotti alle prime armi, un Cavallo e un Vicedomini, che hanno la stessa visione etica del loro lavoro e che si scontrano con il “potere”, come anche le analogie fra due casi quello del ’44 e quello del ’72 che rimarranno entrambi irrisolti.
A metà romanzo, con un nuovo salto temporale, torniamo ai nostri giorni, quando dopo aver letto il manoscritto, la viceispettrice Salemi aiuterà il suo commissario, curvo sotto il peso di quella sconfitta, a risolvere, non senza colpi di scena, entrambi i casi.
“Il nome del padre” (il perché del titolo si scoprirà solo nelle ultimissime pagine) è un grande romanzo. Perfetto lo stile, il ricreare atmosfere reali di epoche così diverse, mi ha appassionato subito e anch’io come Valeria Salemi non riuscivo a sottrarmi al fascino del manoscritto di Cavallo. Bellissima l’ambientazione milanese che ci fa conoscere diversi scorci della città, della sua periferia e dei dintorni, ma soprattutto bellissima l’ambientazione ferragostana, il caldo opprimente, la luce, quella sensazione di soffocamento ci accompagna per tutto il romanzo. Mi sono ritrovata nel paesaggio lunare di una città che, a differenza di oggi, nel 1972 si svuotava completamente. Molto ben trattati sono il clima politico e sociale negli anni ’70 dove, accanto a nostalgici del ventennio ed ecclesiastici preoccupati, si affiancavano nascenti forze “comuniste”, l’asservimento al potere e la considerazione che si aveva degli immigrati dal sud (siano essi operai o laureati)che alla fine erano poco correttamente definiti terroni; anche i personaggi, compreso quelli minori, sono descritti intensamente nella loro umanità. Finisco con una frase del commissario Cavallo –“la conclusione è tanto a portata di mano da essere pressochè irraggiungibile. Un paradosso? Sì, lo è, ma si chiama vita”-.
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Avvincente e di grande qualità
Fa caldo, quel caldo umido opprimente della pianura padana quando mi accingo a iniziare a leggere questo romanzo e subito, già dalle prime pagine, mi trovo in un caldo analogo, asfissiante come può essere quello di un Ferragosto a Milano, quando il cemento dei palazzi e l’asfalto delle strade amplifica la sensazione di mancanza d’aria, quando i miasmi delle fognature si riversano sui marciapiedi, risalgono i muri e penetrano nelle indifese finestre spalancate. Corre l’anno 1972 e nel deposito bagagli della stazione Centrale aleggia un crescente tanfo di putrefazione, tanto che l’impiegato va alla disperata ricerca di quello che ipotizza essere un topo da chiavica morto, ma quella puzza nauseante proviene da una valigia che, una volta aperta, rivela un cadavere a pezzi. Chi sarà mai la vittima, chi sarà l’assassino? Il caso viene affidato al giovane vice ispettore Cavallo, con poca esperienza, ma tanta buona volontà e soprattutto un gran desiderio di giustizia. Nonostante tutto resterà un delitto insoluto fino a quando, una trentina di anni dopo, il vice ispettore, diventato nel frattempo commissario, un uomo disilluso dalla vita, coglie nella vice ispettrice Valeria Salemi, da poco arrivata, quella determinazione e quella volontà di sapere che lo avevano animato quando lui era alle prime armi. Con il suo aiuto verrà a capo di quell’omicidio irrisolto, il cui colpevole non finirà dietro le sbarre perché morirà per un attacco cardiaco. Si conclude così uno dei più bei gialli che mi sia capitato di leggere e se giungere alla soluzione ha costituito per me una vera e propria attrazione pur tuttavia ha comportato anche un certo dispiacere, perché quando un libro è scritto bene, quando è ricco di contenuti e riesce a far immedesimare il lettore in qualcuno dei suoi protagonisti non può essere che un’opera di notevole pregio. Arrivati all’ultima pagina e chiudere il libro se da un lato è motivo di soddisfazione per la certezza di aver letto qualcosa di valore, dall’altro è causa di un certo dispiacere, perché allontanarsi da una certa atmosfera, non essere più accanto a protagonisti come Cavallo, ci rende inevitabilmente esangui, come se fossimo privati di colpo di uno dei non certo molti piaceri della nostra vita. Per quanto concerne la trama che si sviluppa in un arco di tempo che addirittura va dagli ultimi anni di guerra all’inizio del secolo corrente non intendo aggiungere altro, sia perché fitta come è di eventi correrei il rischio di disorientare il lettore, sia soprattutto perché non intendo togliere il piacere della scoperta. Fra l’altro questo è uno dei rari libri in cui è difficile trovare un difetto, tanti sono i pregi, a cominciare dallo stile, dall’impostazione della struttura, alla capacità di ricreare con poche misurate parole ambiente e atmosfera, nonché l’indubbia abilità nel sondare l’animo umano, nello scavare nei personaggi, rivoltandoli come un guanto. Il nome del padre, pertanto, non è solo un romanzo riuscito, ma è in grado di andare oltre la tipicità del genere, in perfetto equilibrio fra suspense e indagine intimistica, tanto da poterlo considerare, almeno da parte mia, un vero e proprio capolavoro.
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Milano. 1944. 1972. Oggi.
Milano, oggi. Nel Commissariato di Città Studi il caldo è insopportabile, l’aria condizionata rotta e a alla finestra si vedono solo strade vuote, senza un refolo d’aria. Una desolazione che si accompagna alla noia e al senso di inutilità che sente la viceispettrice Salemi. Non c’è molto da fare, in questa afosa giornata estiva, e allora il Commissario Cavallo le porta uno scritto da leggere. E’ il suo scritto, la sua memoria, il racconto di un agosto, altrettanto caldo e solitario, di trent’anni fa.
Milano, 1972. La camicia a mezze maniche intrisa di sudore. Il silenzio di una città davvero deserta. Un vecchio telefono che suona in un commissariato vuoto. Nel deposito bagagli della Stazione Centrale è stato rinvenuto un cadavere in una valigia, pezzi putrefatti di un corpo senza nome. E’ così che l’ultimo arrivato, il giovane e inesperto viceispettore Cavallo, appena trasferito dalla costiera amalfitana, si ritrova alla sua prima indagine, la prima occasione di dimostrare quel che vale in una città che non riesce proprio a sentire come sua. Ma così non sarà, perché subito le mani del potere dirottano la sua inchiesta verso i territori della prostituzione, alla ricerca di un facile colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica. Ma se le radici di questo delitto andassero invece ricercate in un passato più lontano?
Milano, 1944. Sull’argine della Martesana viene rinvenuto il cadavere di una donna fatta a pezzi, una giovane operaia di una fabbrica metallurgica della zona. Da quella fabbrica già un’altra ragazza era scomparsa e forse le due storie potrebbero essere collegate, ma nel contesto della guerra civile non c’è tempo da dedicare a due povere operaie. Il caso è destinato a rimanere insoluto.
Flavio Villani, neurologo e scrittore, sceglie un impianto narrativo davvero elaborato, che incrocia tre piani temporali, per mettere in scena un noir di grande qualità, i cui tratti distintivi sono l'ottima ricostruzione delle atmosfere d'epoca, una scrittura elegante e raffinata e, soprattutto, la capacità di addentrarsi nelle profondità dell’animo umano.
La complessa e intrigante trama di genere è di fatto solo un pretesto per far rivivere una Milano torrida e soffocante, abitata da uomini disillusi e imperfetti, che convivono con il fardello dei propri errori e i tormenti di un passato mai dimenticato. Un poliziotto riflessivo e profondo, che ha visto i propri ideali di giustizia piegarsi alla realtà. Uomini che hanno ceduto al male e per cui il peso della colpa è divenuto dolore, bisogno di riscatto, ossessione. Una città che rivive nelle pagine, tratteggiata in modo non banale, con le sue complesse e mutevoli dinamiche politiche e sociali. Il romanzo a tratti paga una certa lentezza e qualche leggerezza nell’intreccio narrativo, ma ciò nulla toglie al valore complessivo dell’opera, che si gioca, a mio avviso, su tutt’altro piano. Quello dell’animo umano.