Il fantasma del ponte di ferro
Letteratura italiana
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Il furto dei gioielli degli Zar.
Il maresciallo Pietro Binda, uno dei personaggi più amati di Piero Colaprico, al suo sesto episodio, è in pensione. La moglie non c’è più, lui si consola con Alba, una brava donna, portinaia dello stabile dove vive e dove ha messo in piedi una specie di agenzia investigativa, una scrivania, un po’ di scartoffie, una pistola ben nascosta. Siamo nel 1985, anni bui per Milano, scioperi, sommosse, delitti irrisolti, un’atmosfera cupa sull’eco dell’attentato di piazza Fontana di qualche anno prima. La visita improvvisa di una bellissima donna russa, modella ed ex pallavolista figlia di una celebre violinista scomparsa nel nulla anni addietro, ricorda al maresciallo una torbida storia risalente al 1972.
Il 1972 è appunto l’anno in cui comincia la storia. Pietro Binda, in servizio effettivo, è chiamato a risolvere un caso ingarbugliato: un cadavere decapitato è appeso al ponte di ferro dei Navigli, vestito da donna, in bocca un biglietto con la scritta in cirillico “Gioiello”, la testa ritrovata poco lontano con attorno una corda di violino attorcigliata. Spariscono anche un magazziniere del Conservatorio ed una celebre violinista russa, Victorjia Novgorodova: i due si conoscevano, il giovane procurava a Victorjia, residente all’Hotel Diana, giovani donne da smistare ad amici russi. Entra in scena un agente del KGB russo: trovare assolutamente Victorjia, pena il rapimento delle figlie residenti in Russia. La trama si complica, si scopre che l’impiccato è il magazziniere e che il primum movens di tutta la vicenda è l’attività segreta di Victorjia: il furto sistematico dei gioielli degli Zar e la loro sostituzione con pietre preziose false, durante i viaggi dell’artista da Mosca a Milano e viceversa.
E’ un valore immenso sottratto ai rivoluzionari, una storia che mette in moto servizi segreti russi e italiani, oltre che alte sfere della polizia, spie e faccendieri vari. Un probabile colpevole viene incastrato, dopo altri svariati delitti, processato e condannato: finirà ucciso da un ergastolano in un carcere sardo, e tutto sembra spegnersi. Passano gli anni, torniamo al 1985: Binda non ha mai creduto alla colpevolezza del principale indagato, si darà da fare per conto suo e riuscirà a chiarire molti particolari irrisolti, ma non tutti, anche a costo di rischiare la vita.
Il romanzo è complesso e intrigante: personaggi apparentemente irreprensibili dai comportamenti ambigui, agenti dei servizi segreti, alte cariche pubbliche fomentano depistaggi cercando di trarne il massimo vantaggio e creando anche situazioni a volte inverosimili. Ma tutto serve a non allentare la tensione ed a favorire un clima particolare, tipico di quegli anni in cui si temeva potessero accadere agitazioni sociali e politiche. Lo stile di Colaprico è tipico del giornalismo d’inchiesta: attento, preciso, denso di approfondimenti.
C’è spazio anche per momenti che sottolineano aspetti più intimi del protagonista: il ricordo affettuoso della moglie perduta, l’affetto per altre compagne della sua vita, dalla paziente Alba a Teresa dell’Antimafia, bonaria e materna la prima, appassionata di libri e di camminate in montagna la seconda. E poi la musica: Mahler e Beethoven hanno il potere di far momentaneamente dimenticare al maresciallo le asprezze di un mestiere duro, difficile e poco appagante.
Poco appagante, è vero. Infatti, il caso è ufficialmente chiuso, ma in realtà irrisolto, visto che il vero colpevole è ancora latitante. Ma il maresciallo Pietro Binda, ormai pensionato, è convinto che anche alla sua età, settant’anni (siamo ormai nel 1999), non bisogna mai perdere la speranza chi siano finalmente svelati la mente e l’esecutore dei delitti di quel lontano 1972.
Indicazioni utili
Cold chase per il maresciallo Binda
Una nuova indagine del maresciallo Binda, tra passato e presente, ne Il fantasma del ponte di ferro di Piero Colaprico. Il maresciallo, ormai, è in pensione, ma non rinuncia alla sua unica passione: l’investigazione. Così apre un piccolo studio all’interno della sua stessa dimora, dopo la morte di Rachele, la sua prima moglie, e l’inizio della sua storia d’amore con Alba:
“Aveva piazzato la scrivania, una sedia da regista, e, più per scena che per altro uno schedario. Non aveva appeso neppure un quadro. Nessuna fotografia. Solo pareti dipinte con una bella mano di bianco. Scarpe, taccuino e penna, qualche piccolo registratore e ovviamente la pistola automatica.”
Un giorno una bellissima ragazza russa, Olga, si presenta al suo cospetto e gli offre un nuovo indizio su di un vecchio caso di cui si era occupato nel lontano 1972, denominato, appunto, il caso “del fantasma del ponte di ferro”, ovvero era:
“il corpo di un uomo vestito da donna, in abito da sera color pervinca. Ai piedi scarpe eleganti, una delle quali, chissà perché, bagnata. Appeso sotto il ponte della Richard Ginori da una o più persone capaci di eseguire alla perfezione il nodo d’anguilla e la gassa d’amante doppia, usati dai marinai e dagli alpinisti. “
Il caso aveva destato stupore, anche a causa del biglietto trovato in bocca al cadavere scritto in cirillico, infatti:
“Il corpo senza testa penzolava dalla parte inferiore del ponte di ferro verde, quella destinata al traffico ferroviario. In quella nebbia, emanava un orrore contagioso e irresistibile. Anche se non c’era un alito di vento, oscillava con movimenti circolari, come quelli del pendolo di Foucault. “
Contemporaneamente scompare una violinista russa, mai più trovata, ed indissolubilmente legata all’omicidio senza testa. Di qui al maresciallo si apre uno scenario torbido, in cui:
“si ritrovava dentro le luci e le ombre degli Stati, incarnati dai loro apparati di sicurezza e dalle loro trame.”
Un classico noir metropolitano, dove alla suspence e all’intrigo della trama, la seconda padrona assoluta della narrazione è Milano, la Milano di Ada Merini e Dino Buzzati. Buzzati:
“quell’uomo così complicato, delicato, intelligente, colto , appassionato, ossessionato”,
e Ada Merini che piange l’amico scomparso a soli 66 anni:
“la poetessa indicava il cielo e ripeteva un nome: Dino. Ora lo sussurrava, ora lo strillava, e quelle due sillabe gridate nel silenzio sembravano trasportate nel cuore della città dalla lenta corrente del Naviglio.”.
Un giallo classico , dalle tinte torbide, ma intriganti, dominati d quella che in milanese è la sluscia, ovvero:
“una pioggia fine che gli tenne compagnia battendo sui vetri.”.
L’investigatore è un uomo malinconico, ironico, buon conoscitore della città in cui vive, e buon conoscitore dei metodi di investigazione. Lui è acuto e preciso, e molto umano, con un pudore di altri tempi. Un libro che risponde benissimo ai canoni classici del genere di cui appartiene, ma non per questo meno fascinoso ed attraente. Una ottima lettura con una prosa sempre stilisticamente corretta e precisa.