Il delitto di Agora. Una nuvola rossa
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
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‘O conto quaicuno ‘o tè da pagà
Agora “con l’accento sulla prima a, per piacere, quella iniziale” è un paese (immaginario) arroccato alle pendici dei monti Lepini. Metà sta in pianura e metà con le spalle ai colli. È situato tra Norma, Sermoneta e Sezze, s’affaccia sulla piana dell’Agro Pontino e, quando c’è bel tempo, da lì si vede sino al mare di Ostia antica. Conta meno di ottomila abitanti, tutti si conoscono, o quasi. Tra le strette stradine di Agora, in quei luoghi ove ancora si mostrano tracce dell’antico fasto della Roma dei Cesari, non accade mai nulla, o quasi. Là, la vita scorre uguale. Sempre. O quasi. Perché il 25 febbraio 1996 accadde un fattaccio inaudito: due giovani, due fidanzatini, furono ritrovati uccisi in un modo brutale, animalesco. Emanuele Ferraro, 23 anni, disoccupato, ricevette 60 coltellate. Loredana Proietti, 17 anni, studentessa, 124, in tutte le parti del corpo. Sino a sfregiarla. A ritrovarli furono il padre di lei, ex carabiniere in pensione, assieme al figlio minore Michele e ad un amico di Emanuele, Giacinto Sangiovanni. Preoccupati per la irreperibilità dei due, penetrarono da una finestra della casa di Emanuele sfondando un vetro ed trovarono la ragazza in un mare di sangue sul letto. Emanuele era nel bagno, semi accasciato sul lavandino.
Questa è la storia dell’indagine e del successivo processo che ha portato alla condanna del presunto omicida o, forse, dell’oscuro errore giudiziario che ha sbattuto in galera un innocente incastrato da indizi inconsistenti e argomentazioni giudiziarie fragilissime, quando non speciose. Rileggendo i verbali di interrogatorio, riascoltando i testimoni (tra essi anche gli autori del fatto?), consultandosi con esperti esterni, compulsando documenti storici, il libro cerca di ricostruire i fatti (inventati, ma profondamente ispirati ad un fatto vero) e di fare una analisi storica, sociologica e psicologica dell’episodio e del suo contesto culturale. Si inoltra nel labirinto di deposizioni contraddittorie e contrastanti. Cerca di individuare indizi o elementi di prova accusatoria o a favore. Ci riferisce l’epilogo (insoddisfacente) della vicenda giudiziaria e ci suggerisce una seducente spiegazione alternativa. Scopriremo così che nessuno è esente da colpa, piccola o pure grande. Che anche i fidanzatini non erano angeli scesi in terra. Che i loro amici e parenti avevano, ognuno, punti d’ombra più o meno oscura. Ma scopriremo, pure, che su nessuno di essi si è formata la prova inconfutabile della responsabilità per un così atroce delitto.
L’unica cosa che verrà provata, alla fine, l’unica cosa che emergerà, indiscussa, è la constatazione che il reale è inconoscibile. Tuttavia, come si sarebbe commentato ad Agora: “’A justizzia è justizzia però e ‘o conto quaicuno ‘o tè da pagà” (La giustizia è giustizia e qualcuno deve pagare il fio) quindi qualcuno sconterà la pena anche se non sarà colui che la merita.
Il libro di Pennacchi è davvero strano e si presta a molteplici modalità di lettura e, di conseguenza, ad altrettanto numerose chiavi interpretative. Io, e ammetto il mio errore, ho preteso di leggerlo come un romanzo, nonostante lo stesso autore avverta sin dalle prime pagine di non essere capace di scrivere un romanzo giallo. Anzi egli stesso esordisce proprio scrivendo “Io questo libro non lo volevo fare. Non avevo nessunissima intenzione di impicciarmi di questa storia”, mentre più sotto soggiunge “a ognuno il suo mestiere. E il giallista non è il mio”.
Io lettore, per tutte le prime cento pagine, ho pensato che, forse, se avesse seguito quel suo istinto iniziale avrebbe compiuto un’opera meritoria. Infatti, la prima parte del romanzo non è altro che la trascrizione, mi auguro non pedissequa, ma ampiamente rielaborata (perché sennò altrimenti…) dei verbali dell’inchiesta. L’asciutta, scarna e ostica prosa di Carabinieri, Polizia di Stato, Procuratore della Repubblica, Giudice del riesame è solo saltuariamente interpolata dalle divagazioni storico-sociologiche dell’A.; dal racconto di episodi autobiografici; dai commenti che, lui, da spettatore esterno, si sente di aggiungere alle risultanze istruttorie. Ne risulta un testo difficilmente leggibile, faticoso, assai poco accattivante. Poi, la narrazione si fa più fluida. La prosa diventa più facile da seguire e più piacevole, quando, dal riferire l’indagine, si passa alla sua analisi, alla formulazione delle ipotesi, all’indagine su moventi, credibilità di alibi e deposizioni, plausibilità degli atti d’accusa. Ma complessivamente non è un’opera soddisfacente, come romanzo, pur avendo sezioni interessanti e pagine anche molto gradevoli.
Ma ripeto, il mio approccio s’è rivelato sbagliato. A posteriori mi son reso conto che avrei potuto seguire l’indagine non solo leggendola, ma letteralmente studiandone le deposizioni; confrontandole le une con le altre, mettendo in evidenza le contraddizioni e le lacune; ricostruendo le storie secondo le singole versioni dei fatti. Se avessi avuto la pazienza di seguire questo metodo di lettura — che mi avrebbe sicuramente impegnato un tempo almeno triplo — avrei goduto delle seducenti esperienze dell’inquirente, avrei individuato la caterva di incongruenze su cui si basò quell’inchiesta, che sono assai di più di quelle evidenziate dall’A., e, forse, con un’analisi approfondita, avrei pure scoperto il vero colpevole dove Tribunale, Corte d’appello e Cassazione hanno fallito. Insomma, avrei “giocato” assieme all’A. a fare il detective.
In alternativa, ponendo sullo sfondo il filone narrativo principale, e concentrandosi unicamente sulle interpolazioni fatte scivolare da Pennacchi tra gli atti di causa, avrei tratto piacere dagli aneddoti storici e dalle dotte citazioni a supporto, dalle digressioni psicologiche e da quelle sociologiche, spesso molto profonde, dai gustosi i battibecchi tra l’A. e lo Psicanalista o l’eminente Penalista scelti come consulenti. Pure gli intermezzi autobiografici avrebbero accresciuto il loro godimento.
Purtroppo così non è stato, e me ne rammarico. Pur riconoscendo all’A. un’ottima tecnica narrativa, una non comune abilità a miscelare i vari stili riuscendo a passare dall’uno all’altro in punta di piedi, in modo quasi inavvertibile, non posso onestamente annoverare questo libro tra le mie preferenze. Solo alla fine ho deciso di aggiungere una stellina alla piacevolezza, e proprio per scusarmi per il mio errato approccio al libro al quale debbo riconoscere il merito di aver tramutato un fattaccio di cronaca in un’opera letteraria non priva di pregio.
Perciò, pur non sentendomi di sconsigliarne la lettura, debbo avvertire che si tratta di qualcosa molto più impegnativa di quanto le 214 pagine di testo farebbero supporre.
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Pennacchi e l'arte di raccontare
"Il delitto di Agora. Una nuvola rossa" è un giallo bellissimo; non conoscevo l'autore che è molto abile nella difficile arte di raccontare fatti esterni al delitto - dalla storia di Agora e dei paesi vicini, frutto di una ricerca attenta mirata a spiegare il carattere dei personaggi che vi abitano. E veramente difficile distogliere l'attenzione di un lettore di gialli dai fatti strettamente connessi al delitto senza annoiarlo – io non ci sono mai riuscita. La voce narrante è l'autore stesso che nel testo è seguito da uno psicanalista con cui analizza le pulsioni umane. Molto bello anche il suo raccontare i fatti spiegando come il destino dell'uno sia condizionato dal passato degli altri.
Un giallo intenso che si compone come un puzzle raccontando separatamente i fatti per riunirli alla fine, evidenziando contraddizioni e false testimonianze, idee distorte, sentimenti, paure. È un flash sul modo di agire della polizia nel confrontarsi con i delitti; il finale smentisce la razionalità del testo.
Pennacchi è un genio. Pensare che ero dubbiosa quando l’ho comprato perché di solito il destino sta nel nome.
Dal testo:
“Il pubblico ministero aveva sposato in pieno la tesi dei carabinieri. È un giudice giovane, d’assalto. Ha fatto la gavetta in Calabria contro la ‘ndrangheta. È uno di quei giovani pretori che c’erano andati volontari laggiù, quando tutti gli altri si mettevano in mutua e scappavano perché i picciotti calabresi – tra sequestri, racket delle estorsioni e narcotraffico – erano diventati padroni del territorio e avevano preso la deprecabile abitudine di far saltare in aria giudici e poliziotti. Il nostro c’era andato volontario, e dopo tre o quattro anni di quella trincea – in cui tutti sostengono che s’è comportato da eroe e che gli varrà come pedigree per una sicura e prorompente carriera – lo hanno rimandato qua. È gracile. Pare un niente. Ma lo regge la tigna: è peggio di un cisternese. Abita ancora alle case Gescal sulla via del Mare, a Latina, insieme alla madre che, da quando è cominciata questa storia sembra Alba Parietti. La televisione ha intervistato anche lei: “Ecco la madre del giudice antimafia che ha scovato il mostro”, ha detto Emilio Fede. E tutti la riveriscono al mercato, l’aspettano nell’androne, le chiedono pareri sul delitto”. (pagina 132).
“Un altro esempio: quei due – Tacito e Svetonio, non Beppe Grillo ed Emilio Fede – asseriscono che Nerone abbia fatto uccidere sua madre Agrippina, che era comunque una gran rompiballe. Ci aveva provato altre volte, dicono loro, finché fece preparare un battello che si sfasciasse a comando in modo da farla morire per il naufragio o la caduta del ponte.
E io, per ammazzare qualcuno, faccio affondare una nave intera, senza manco organizzare dei sicari che si accertino del buon esito ma, anzi, tutto l’equipaggio si dà da dare per salvarlo, quel tanghero? Ma nemmeno i nostri servizi segreti sarebbero capaci di tanto”. (pagina 55).