Il caso Bramard
Letteratura italiana
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Autunnale
Nella città di Torino nel corso di venti anni sono stati commessi una serie di delitti, tutti simili, con target donne, alte, magre e con lunghi capelli neri; stesso modus operandi, ritrovate legate con tagli particolari sulla schiena a formare un disegno preciso. Un serial killer dunque. Tutti delitti irrisolti, ma dopo venti anni il caso si riapre, anche se per Corso Bramard non si era mai chiuso.
Dare la caccia ad Autunnale, cosi ha chiamato il serial killer, gli è costato la morte della moglie e la scomparsa della figlia piccola. Ma Bramard, nonostante abbia lasciato la polizia dopo quel trauma, non ha mai smesso di cercarlo, ma mai nessuna traccia, nessun indizio, solo delle lettere, che lo stesso killer gli invia personalmente, come se il tutto fosse una sfida, come a dirgli “vienimi a prendere se ci riesci”. Fino alla svolta, nell’ultima lettera, c’è finalmente un indizio, un capello…un errore?
Corso Bramard è silenzioso, buon ascoltatore, intelligente e investigatore di talento, ma dopo la morte della moglie e la sparizione della sua unica figlia, cambia completamente, lascia il lavoro, vive in totale solitudine e il suo unico conforto diventa l’alcool.
Dopo più di venti anni, riesce a mettere insieme i cocci della sua vita, con la sua laurea, trova un lavoro come insegnante in un liceo, nella speranza di lasciarsi alle spalle il passato, Ma ciò gli risulta praticamente impossibile, perchè oltre al perenne dolore per le due perdite così grandi, Autunnale alimenta quel dolore continuando a spedirgli delle lettere a intervalli regolari con i versi di una canzone di Cohen.
Ma proprio nell’ultima lettera ricevuta, Corso trova un capello, l’unico indizio sul killer in tutto questo tempo.
Con l’aiuto del suo amico e commissario Arcadipane e la collega Isa Mancini, Corso Bramard intraprende questa ennesima indagine, sperando che sia davvero l’ultima.
Il thriller è psicologico quindi lento e laborioso. niente suspense, né tensione. I personaggi non sono descritti ma vengono definiti dai dialoghi e dalle loro azioni. La trama è un po’ confusa e anche i dialoghi, a volte, tanto da non capire, chi dice cosa.
Anche il finale l’ho trovato frettoloso e inaspettato ed anche lì un dubbio per ricollegare chi fosse il colpevole l’ho avuto.
Personalmente l’ho trovato un po’ pesante ma soprattutto poco fluido.
Peccato perchè La vita paga il Sabato mi era piaciuto molto
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Il killer delle camelie
Corso Bramard era stato un bravissimo poliziotto: il commissario più giovane d’Italia. Intuitivo, tenace e metodico, la sua carriera sembrava in ascesa, sinché un giorno il questore di Torino non gli aveva affidato il fascicolo AUTUNNALE. Era questo il nome convenzionale attribuito a un serial killer che, nei soli mesi autunnali e invernali, rapiva giovani donne (brune, slanciate e con i seni piccoli), le torturava, incidendo la loro schiena con complicati tagli, amputava alcune dita dei piedi e, poi, con una lettera anonima alla polizia, ne faceva trovare il cadavere sgozzato. Non faceva errori: in anni nessuno era riuscito a individuarlo e, pure Corso, una volta assunta la responsabilità dell’indagine, non era giunto alla conclusione del caso, mentre i cadaveri aumentavano. Poi, Autunnale aveva rapito sua moglie Michélle e la piccola Martina. La donna era stata ritrovata nei giorni successivi, straziata come le altre vittime; della figlia nemmeno la possibilità di piangerne le spoglie. Corso, a quel punto, deragliò e non fu più in grado di svolgere efficacemente il suo lavoro. Alcool, ira furente con colleghi e sottoposti, inevitabili dimissioni.
Ora vive tra le montagne del Roero nella vecchia casa di famiglia, si guadagna da vivere facendo il docente part-time in una scuola media superiore e dedica il tempo libero a scalare picchi scoscesi nella inconscia speranza di fare un passo falso e porre così fine a quella che per lui è una non-vita. Ma Autunnale non l’ha dimenticato: periodicamente gli invia lettere con frasi estratte da una canzone di Leonard Cohen. Nell’ultima, però, forse ha commesso un errore e s’è lasciato scappare una traccia che potrebbe portare alla sua identificazione. Corso, allora, sente rifluire in lui la perduta energia dell’investigatore e - con la malmostosa tolleranza del commissario Arcadipane, suo allievo e vice di un tempo, e della irosa giovane agente Isa Martini - cercherà di incastrare l’uomo che gli ha rovinato la vita.
Alessandro Baricco ha paragonato il commissario Bramard a un Montalbano del nord, taciturno, cupo, disperato e impassibile nel suo inguaribile dolore interiore. Premesso che non mi ritrovo nella similitudine, certamente il personaggio creato da Davide Longo è una piacevole scoperta.
Non ci viene descritto tanto un’indagine poliziesca – peraltro appassionante e travolgente, in tutta la sua reale concretezza – quanto la vicenda umana di un uomo che aveva trovato inaspettatamente un’ancora di salvezza per la sua innata misantropia e scontrosità nella moglie amatissima. E, quando quell’ancora era stata strappata da una mano assassina, è andato alla deriva senza alcuna volontà di ritrovare la rotta perduta. Lo stile è secco, asciutto, quasi scarnificato. Aspro come le montagne su cui si arrampica Corso. Le frasi a volte non sono neppure completate, ma per scavare nell’animo umano non servono troppe parole, bastano immagini, accenni, sensazioni, per ritrovare qualcosa che, magari, è annidato pure nel nostro io. Così i voli pindarici che abbandonano certe descrizioni per spostarci altrove non sono inaspettati, ma quasi graditi per preservare quell’aura di incertezza che rimane viva sino alla fine e, verrebbe da dire, pure oltre. Ciò che dovrebbe risultare intuitivo al lettore attento non viene chiarito a parole, ma lasciato alla sua sensibilità: una spiegazione avrebbe solo volgarizzato percezioni che debbono essere intese con il cuore e non con la mente. Belli anche i personaggi di contorno, terribilmente veri nella loro innata "asocialità".
La storia gialla di per sé non ha misteri: sin da subito ci viene detto chi sia il probabile responsabile di quegli orrendi delitti, anche se non si sa, né, forse, si scoprirà mai il suo movente reale. La narrazione, però, riesce a miscelare con abilità un racconto che è appassionante e, parimenti, triste e malinconico. Gli autori greci ci hanno insegnato che una tragedia deve comunque sublimarsi in una catarsi. Qui c’è, ma è dolce e amara nello stesso momento, forse non consolatoria, ma ricca di speranze.
Insomma una storia davvero bella, pur se confezionata in un involto non di rado grezzo e sbrigativo. Da leggere.
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Commento
Leggendo Longo si ha di fronte uno scenario completo e variopinto degli ingredienti che rendono o meno piacevole un libro, esaminiamoli uno per volta: ambientazione Torino dei tempi appena passati, bella ricca eppur già decadente, descritta bene e si sente con sentimento. Trama coinvolgente e ben dipanata, colpi di scena non mancano e si respira l'attesa della mossa di uno o più interpreti. Personaggi qui si apre la diaspora fra chi ama e chi detesta Longo (almeno questa è la mia opinione), gli interpreti dei romanzi sono principalmente tre o quattro (Bramard, Arcadipane; Isa, forse Ariel) tutti sono troppo sopra le righe per un verso o per l'altro (Bramard ascetico al limite della noia, Arcadipane, troppo menefreghista verso se stesso mangia e vive come se dovesse morire domani o forse è già morto e non lo sa, Isa bella scorbutica trasgressiva e troppo geniale per diventare quasi antipatica per le sue troppe doti, Ariel colta cinica sprezzante del mondo e della sua malformazione, gestisce i sentimenti altrui dall'alto in basso, senza mai far apparire i suoi) una rassegna di persone che normalmente non s'incontrano nemmeno vivendo 200 anni eccoli tutti riuniti amici a risolvere casi impossibili per le menti umane normali. Questo lo scenario dei romanzi di Longo che però nell'insieme sono scorrevoli e in grado di rendere piacevoli i momenti di lettura.