Il casellante
Letteratura italiana
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Le radici dello strazio
La vita è un mazziere. E’ seduta al tavolo prima di chiunque altro, e attende: sa bene che nessuno può esimersi – e si intende nessuno davvero –, che da lì dovranno passare tutti. Mischia le carte, senza bisogno né voglia di guardare in faccia chicchessia, e comincia a distribuirle a ciascuno, a caso. Ognuno deve giocarsela con quelle che toccano. E pazienza se a un certo punto c’è qualcuno che deve alzarsi ed andarsene. E poco importa se c’è chi già sta aspettando la mano successiva, che le carte siano mischiate e di nuovo distribuite, sperando in miglior fortuna. Può essere che sia migliore. Può essere che non lo sia. L’unica certezza è che il mazziere rifarà tutto a suo modo.
“Allora, tutto 'nzemmula, lei s'arricordò, l'arriconoscì. E Nino l'accapì non pirchì Minica aviva parlato o si era cataminata, ma pirchì i sò occhi, prima 'ntenti e 'nterrogativi, addivintarono di colpo dù lachi profonnissimi, anzi senza funno, di muto, dispirato, denso duluri.”
Anno 1942. Nino Zarcuto è addetto al casello nel tratto tra Vigata e Siculiana, dove passano i treni diretti a Castelvetrano, o da lì fanno ritorno. Vive nell’edificio del casello con sua moglie Minica, mingherlina e lavoratrice, il cui desiderio più grande è di ingrandire la famiglia.
Brav’uomo, Nino, diviso com’è tra i doveri di casellante e quelli di marito. Di giovedì arrotonda lo stipendio grazie al suo mandolino, improvvisando concertini nella barberia di don Vassallo, il migliore tra i negozi di Vigata.
La vita scorre, con la comparsa di soldati che vengono a riparare le linee ferroviarie dopo le scorribande degli aerei mitragliatori alleati, o con le visite degli addetti ai caselli vicini. E poi ci sono gli imprevisti, di due nature come le carte da gioco: quelli felici e quelli meno. Così Nino azzecca un terno che gli vale tremila lire, e quasi allo stesso tempo passa un brutto quarto d’ora per aver suonato adattamenti musicali non graditi al fascistissimo cavalier Ingargiola.
E’ allora che – in sua assenza – al casello capita un fatto brutto, davvero brutto, destinato a cambiare la vita di Nino e di Minica…
Allo stesso modo in cui dipinge l’attuale Vigata del commissario Montalbano, Andrea Camilleri fa con l’antica Vigata del periodo fascista: prendono vita e campo gli uomini dell’autorità, il barbiere, il mammasantissima di turno, i paesani che si ritrovano al caffè, ferrovieri e casellanti. E il personaggio di Minica, che ha confidato nella vita “normale”, nelle persone attorno, nel suo Nino, e un giorno ha avuto in sorte la carta sbagliata. Minica: bellissimo ritratto di una donna lacerata, che alla rassegnazione per ciò che non può accettare preferisce l’illusione di divenire… albero, generatore di frutti.
“Il casellante” non è solo una storia che svela al lettore un ambiente e un periodo – ciò in cui l’autore è davvero un maestro – ma anche il racconto di quanto i percorsi della vita siano tortuosi, e i suoi snodi (benedetti o maligni) si giochino sulle coincidenze e sull’imperscrutabilità.
In un attimo, quando confidavi nella speranza, essa ti viene tolta; e allo stesso modo, quando l’hai persa del tutto, accade di sentirla nel cuore farsi battito più forte che mai.
Il mazziere sta ridistribuendo le carte…
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Semplicemente fantastico!
Un libro che consiglio vivamente a ragazzi e ragazze di ogni età. Una storia esaustiva, a tratti inaspettata e caratterizzata da vari colpi di scena con alcuni tratti argomentativi quasi grotteschi.
Sostanzialmente è la storia di un uomo (appunto un casellante) e la propria moglie che non riescono ad avere un tanto atteso figlio e che fanno di tutto per ottenerlo. A far da sfondo alla vicenda, il periodo storico, l'Italia del fascismo, un momento di estrema difficoltà, numerosi bombardamenti in quei luoghi, storie di soldati, le difficoltà della gente comune nel tirare avanti, posso affermare che l'esaustivo sfondo storico rende ancor più emozionante la vicenda, per non parlare del finale da favola che lascia a bocca aperta!
Per quanto riguarda lo stile, Camilleri non si smentisce. L'utilizzo di un siciliano stretto, del siciliano parlato dal popolo per narrare la storia del popolo, il lessico adottato è un ulteriore coinvolgimento all'interno della storia.
Un libro che consiglio vivamente a coloro i quali si vogliono affacciare a una lettura piacevole, ma non esente dal provocare emozioni.
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Il picciliddro
Racconto di Camilleri orfano di Montalbano. Ho affrontato recentemente una lettura di questo tipo, che mi aveva deluso e portato a identificare Camilleri sostanzialmente solo con le vicende di Montalbano; invece con questa lettura ho decisamente cambiato parere, rivalutando l’autore come narratore di storie spesse e con sfondo storico, non solo come autore di gialli eccezionali. Questo racconto che fa parte della cosiddetta trilogia delle metamorfosi. E’ sostanzialmente una storia, molto umana, di una donna e di un uomo che non riescono ad avere figli. Una storia di provincia, con sullo sfondo la guerra, i bombardamenti, le paure. Paure esterne e paure interne. Reazioni umane incomprensibili, estreme, scioccanti. E’ un libro che ti lascia il segno, proprio per il suo contenuto. Perché parla di violenza, di una forma di dolore atroce e straziante, che pietrifica. Lo stile, splendido siciliano, passa quasi in secondo piano per chi già ha letto suoi romanzi, proprio perché è la storia in sé che ti dà pugni nello stomaco difficilmente dimenticabili. E’ senz’altro da assaporare lentamente, per apprezzare ogni frase, per non perdere nemmeno una parola, perché se lo leggi lentamente comprendi tutto, anche le parole più difficili, scritte nel dialetto più stretto e comprendi anche di più di quanto è scritto, perché è una scrittura che ti arriva dritta dritta dentro. Ti devi far trascinare dalla lentezza tipica del mondo siciliano, sfogliare i capitoli assorbendoli e, facendo così, capirai il senso della metamorfosi che nasce dalla violenza. Splendido e luminoso il finale.
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Il senso del nero
Secondo capitolo della Trilogia della metamorfosi. Se Maruzza Musumeci è stata una bella favola questo libro racchiude una favola nera...
È nera perché ambientato negli anni del fascio.
È nera perché tratta fatti di cronaca nera.
È nera perché gli avvenimenti si verificano nella notte nera.
È nera perché racconta della disperazione nera.
Per fortuna però il mondo è ricco di colori e luce.
Camilleri con il suo stile narrativo scorrevole seppur in vernacolo trinacriniano camilleresco ci conduce in una Vigata ai tempi del fascismo e più precisamente attraverso il quotidiano di una coppia il cui marito fa il casellante, ci porta nei meandri bui dell'animo umano, per poi farci risvegliare come da un incubo e vi chiederemo se tutto sia avvenuto davvero.
Un po' più pesante rispetto al precedente della trilogia ma molto accattivante perché ci mostra uno spaccato di una Sicilia adattabile alla nostra società attuale.
Violenza, abusi, soprusi, vendetta, quella che diverrà mafia di un sistema che purtroppo oggi non ci meraviglia più, purtroppo.
Buona lettura a tutti.
Syd
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Nino e Minica
Alcune pagine di questa storia hanno il profumo genuino delle gioie semplici e l'effetto riposante che comunica la vicinanza delle anime pure, altre il sapore del sangue.
Il linguaggio è schietto, la trama dolceamara: in qualche modo tutto sembra volgere sempre al bene, anche se non vengono risparmiati i particolari raccapriccianti di un omicidio e di uno stupro.
Protagonista è il casellante Nino, che insieme alla moglie Minica abita nei pressi di Vigata, tra mare e campagna, in una casa con annesso orticello.
Lo scorrere del tempo è scandito dal passaggio dei treni a carbone, che se la prendono comoda.
Qualche volta non arrivano a causa del bombardamento di un tratto della linea ferrata (siamo nel periodo bellico), ma più spesso ritardano per l'attraversamento di un gregge, o per il contrattempo di un passeggero.
Sì, perché il treno, già lento di suo, ha la particolarità di aspettare i ritardatari, e pochi tra i passeggeri, che sono sempre gli stessi, hanno qualcosa da ridire.
Vari personaggi popolano il romanzo: la “mammana”, esperta di parti, aborti e quant'altro, il capomafia don Simone rispettato da tutti (non si muove foglia che lui non voglia), il fascista piantagrane e il barbiere, depositario dei segreti del paese.
Quella della coppia è una vita serena, allietata ulteriormente dalla notizia dell'arrivo di un figlio atteso da tempo (le pagine dove un'esperta di erbe visita e cura Nino dalla sterilità sono abbastanza spassose).
Di indole pacifica e incapace di fare del male Nino non si aspetta certo di riceverne, ma la sua mano non tremerà di fronte al suo dovere di uomo: uccidere per fare giustizia...
Il colpo arriva dopo una disavventura che prepara il terreno alla tragedia e il dolore è troppo forte per la sua Minica, che perde il figlio che aspettava e non può più averne.
Sopravvive, ma pare uscita di senno: “Voglio fare frutti”.
Istintivamente cerca il contatto con la terra, scava una buca e ci resta dentro giorno e notte: non c'è verso di farla uscire, vuole diventare un albero e Nino finisce per assecondarla.
Camilleri si sofferma sulle incombenze quotidiane del protagonista, cariche di tenerezza, forza e dedizione, necessarie per andare avanti e non soccombere alla sventura:
“A mezzojorno e mezza priparava il mangiare, pasta per lui e dù ova per lei, poi lavava i piatti. La sira inveci cociva 'na ministrina di virdura per lei...”.
E poi il latte caldo di capra che cerca con pazienza di far bere alla moglie, dopo essersi rassegnato ad “annaffiarla” con un secchio d'acqua.
Qualcosa incredibilmente succede, una metamorfosi sembra già in atto nei piedi di Minica, come se la terra volesse accoglierla, lei però non se ne accorge:
“'Nutili”, sentenzia alla fine, e la sua è una richiesta di morte.
Ma il destino ha altri piani, e saranno i violenti bombardamenti degli alleati a portare inaspettatamente nuova vita.
Le tenebre si diradano con l'immagine di una maternità che possiede la sacralità delle cose arrivate dal cielo:
“Nella grutta, col bianco della marna, pariva che si era fatto jorno”.
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Indimenticabile
È faticoso leggere Camilleri per chi non ha dimestichezza coi dialetti e si chiede che motivo ci possa essere per costringersi ad affrontare una lettura lenta e spesso ripetuta per comprendere il senso di un testo.
Ma provate a leggere “Il casellante”, uno dei titoli che formano la “Trilogia delle metamorfosi” – Maruzza Musumeci, Il casellante, Il sonaglio – e vi accorgerete della perfetta identità fra il linguaggio ed il contenuto del racconto.
Non riesco ad immaginare “Il casellante” scritto in lingua italiana. Ho la sensazione che il linguaggio elaborato da Camilleri sia l'unico adatto a descrivere non solo gli eventi, ma i sentimenti estremi di cui questo libro si nutre: la forza del desiderio, del dolore, della disperazione ed infine della follia di una donna cui è negata la maternità e di un uomo che per amore è in grado di affrontare la pazzia di lei assecondandola fino all’inaccettabile.
Bellissimo e poetico. Da leggere. Assolutamente.
“Ma Minica non chiangì né allura né appresso.
A Nino parsi che la sorgenti delle lacrime, dintra di lei, si era asciucata di colpo, doviva esseri addivintata tutta asciutta come il diserto. Non chiangì manco quella vota che, mentri cucinava, il cutreddu puntuto le cadì dalla mano e le si ‘nfilò dritto nel pedi mancino. Niscì tanto sangue che Nino s’appagnò e accomenzò a darle adenzia con mano tremanti e lo spirito col quale disinfettò a longo la firita doviva abbrusciare assà, ma lei nenti, né ‘na lagrima né un lamento, né ai né bai.”
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Un'altra favola triste.
Ecco la seconda favola della Trilogia della metamorfosi.
Bella e struggente.
Qui ritroviamo il dialetto "camillerese" che tanto abbiamo imparato ad amare,- ed a comprendere, ormai!
Il romanzo si ispira la mito di Niobe, infelice madre di sette maschi e sette femmine, uccisi dagli dei, e che fu poi , per pietà del suo dolore, trasformata in roccia.
E' la storia dolente di una maternità; prima desiderata, poi goduta con trepidazione.
Quando, in seguito ad una violenza brutale, tutto sfuma, e restano solo il dolore e la rabbia impotente...qui si entra nella favola.
Minica, la protagonista, si richiude in sè stessa; desidera solamente diventare albero, e così dare frutti.
Il marito per amore la asseconda; accetta di innaffiarla, potarla...e lei a poco a poco incomincia la trasformazione: i capelli in fronde, le braccia in rami; i piedi in radici.
Romanzo, dunque, con tante sfaccettature. Tratta il tema della maternità; dell'amore e della dedizione; del potere, con le sue prepotenze...
La vicenda si svolge infatti nel periodo fascista , di cui è tratteggiato un efficace affresco.
Il finale , pur essendo positivo, non manca di un fondo amaro. ...Lascio al lettore il gusto di scoprirlo, attaverso la lettura di una storia toccante in ogni pagina!
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Grande Camilleri!
Grande Camilleri! Passano gli anni, continua a scrivere anche con maggior frequenza di un tempo (non importa, anche stesse pubblicando cose che aveva nel cassetto) eppure quel che scrive ha freschezza di sempre, forse di più; non sbaglia mai un colpo.
Racconta di dolori, guerre, omicidi di mafia. Eppure lo fa con una levità che nessuno riesce ad eguagliare, nonostante non sia più un ragazzino, e scrive questo che, oltre ad una metamorfosi, è anche un romanzo d’amore.
Il protagonista, senza tante smancerie e sovrastrutture mentali, col cuore dei poveracci, ama la moglie al punto di uccidere per lei prima, e di regolare la propria vita sulle “manie” di lei dopo. La ama al punto di prendersi totalmente cura di lei; è il suo primo pensiero sempre. La asseconda dapprima sperando di aiutarla a guarire, poi accettandone le scelte fino al colpo di scena finale in cui le rende la vita. Un amore meraviglioso. Da libro, appunto. Molto, molto migliore del primo della trilogia della metamorfosi. Aspettiamo con ansia il terzo.
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La metamorfosi contro la violenza degli uomini
Come scrive Salvatore Silvano Nigro, «Camilleri è il cronista, il favolista e il mitografo della comunità vigatese». Ed è appunto, una favola quella che l’incredibile e infaticabile macchina narrativa dello scrittore siciliano ci ha regalato quest’estate.
Il casellante racconta la storia - ambientata nel 1942, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale - di Nino Zarcuto, trentenne dalla mano sinistra offesa per un incidente sul lavoro. L’uomo alterna la custodia e la manutenzione di uno tre caselli della linea Vigata-Sicudiana con l’attività di concertista presso un salone di barbiere. Il tutto sempre di comune accordo con sua moglie Minica, che dopo molti tentativi, anche grazie ai consigli e alle pratiche di una mammana, Nino riesce a mettere incinta.
La gravidanza tanto attesa e una vincita al lotto fanno pensare che la vita dei due sia baciata dalla fortuna. Invece, le cose prendono una svolta decisamente drammatica.
Racconto dalla piega favolistica, dicevo, come ormai Camilleri è solito fare nelle storie che non fanno parte del ciclo Montalbano. Una favola questo Casellante, dove lo scrittore siciliano con grande abilità riunisce un sistema di personaggi, di cui accentua i connotati grotteschi.
Si pensi alla coppia apparentemente sterile che si rivolge a medici e praticone per risolvere il proprio problema. O all’uomo forte del regime sempre attento a cogliere eventuali vilipendi alla sacralità dei rituali fascisti. O al padrino che risolve ogni cosa e che costituisce la vera autorità del paese. Per non parlare degli aneddoti che caratterizzano il primo capitolo, dove da par suo, Camilleri racconta come si siano succeduti i vari custodi del casello.
Una piccola umanità che spesso si trova in balia di eventi più grandi di lei, tanto da dover a volte rinunciare alla propria umanità.
È quello che capita appunto, a Minica. Qui lo scrittore di Porto Empedocle innesta nel racconto quel tema della metamorfosi, da lui già trattato in Maruzza Musumeci, lì la trasformazione di una donna in sirena, in questo libro, invece, in un arbolo.
Minica, dopo la terribile violenza di cui è vittima, non può più procreare. Per questo nella sua mente si innesca un meccanismo che la porta a volersi trasformare in una pianta così da stabilire un rapporto simbiotico con la natura, e tornare a far parte del ciclo vitale. La sua è una sorta di muta resistenza alla violenza della società degli uomini.
Una resistenza muta e folle che solo il marito può comprendere e assecondare perché mosso dall’amore: la cura come una pianta, concimandola, potandola, innestandola. Tenacia che darà alla fine i suoi risultati, con la creazione di una nuova Sacra Famiglia.
Uno dei migliori Camilleri degli ultimi tempi.
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Il casellante di Andrea Camilleri
“Il casellante” di Andrea Camilleri
Dopo “ Maruzza Musumeci” metamorfosi donna-sirena, siamo alla trasformazione donna-albero ( arbolo): le mutazioni di Camilleri si replicano! Eh già, nell’era della fanta-politica, della fanta-scienza, della fanta-stampa, non poteva mancare la fanta-letteratura. Chi poteva inaugurarla riveduta e corretta? Ma lo scrittore “ Cult” per una larghissima fascia di pubblico che ad ogni uscita di un suo romanzo l’appuntamento in libreria diventa irrinunciabile, quasi, un punto d’onore. Certo che la fantasia di Camilleri è una fonte energetica inesauribile e va “oltre i confini della realtà”e a noi poveri lettori ci fa strabuzzare tanto d’occhi e raggiungere sempre alti gradi di piacevolezza. Si ha l’impressione che i libri “Camilleriani”, senza Montalbano, stiano subendo una virata in senso fiabesco, senza, tuttavia, perdere gli agganci con la realtà in una commistione tra passato e presente in cui i fatti sono trasfigurati e i personaggi esacerbati nei loro caratteri, le donne si trasmutano come se volessero attingere a nuove forme per affrontare sfide sempre più esaltanti. Questo substrato di materia narrativa, paradossale e, sempre divertita, e spesso, divertente, è impastata da una lingua così strettamente imparentata con il dialetto che anch’essa in trasmutazione, diviene tale. Siamo a Vigata, nel 1942, durante la 2° guerra mondiale, le leggi fascistissime, ridicole nella loro iperbolica radicalizzazione, i bombardamenti aerei, gli immancabili uomini d’onore fanno da sfondo al teatro umano fatto di bassi istinti, primigenia barbarie, violenza ferina e ottundimento delle menti; i due protagonisti, Minica e il marito casellante Nino Zarcuto, si trovano, vittime inconsapevoli, in balia di eventi più grandi di loro. Il tema della metamorfosi, in questo caso, non riuscito (di classica e non memoria), s’innesta nella mente di Minica quando la sua essenza di donna, non in grado di procreare, la porta a voler diventare un tutt’uno con la natura per riappropriarsi del ciclo vitale di essa a lei che quel ciclo le era stato estirpato con la forza bruta. Questa figura di donna attaccata alle sue radici della vita, cerca di trovarle nella terra, in una sorta di rivendicazione di essere soggetto mutante quando la ferocia bestiale dell’aggressore l’aveva ridotta in mero oggetto consumante. Minica semplice ed illetterata, ma caparbia e determinata nelle sue azioni e sentimenti, forte del suo istinto materno, persegue un disegno impossibile che solo suo marito per amore e solo per amore riesce a condividere. Ed ecco che la tenacia e l’ostinazione di Minica alla fine darà i suoi frutti: dalle macerie della guerra un bambino sortirà ad illuminare i toni foschi e drammatici degli eventi in atto. Lo sguardo pietoso di Camilleri vigila al fine di non precipitare nella tragedia. In un’immagine da dipinto sacro di madre con il “Suo” bambino si chiude “Il casellante” a cristallizzare il momento di assoluta felicità raggiunta da Minica. Un bel romanzo nello stile di Camilleri dove si fondono armoniosamente tutti i topos peculiari delle sue storie.