Il birraio di Preston
Letteratura italiana
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L'Italia e un'Unità in costruzione
Un libro non sequenziale, dove Camilleri dà il meglio. Ogni capitolo - che si intitola come l’incipit - non è in sequenza, ma è come uno squarcio sulla storia senza un filo temporale.
E Camilleri lo fa con grande maestria.
Una lettura molto divertente - in alcuni tratti esilarante - e drammatica al tempo stesso, che porta il lettore a conoscere via via nuovi personaggi ed intrighi.
La decisione di inaugurare il teatro di Vigata con l’opera (conosciutissima!!!) “Il birraio di Preston”,
è il pretesto per dare uno spaccato dell’Italia appena dopo l’unità e che ha già “in nuce” tutti i problemi che ancora oggi disegnano il nostro Paese.
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LA LINGUA MESCIDATA DI CAMILLERI
I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 187.. a Vigata, il paese immaginario creato da Andrea Camilleri e diventato popolare con le avventure del commissario Montalbano. Ho voluto iniziare questa recensione come lo scrittore siciliano ha aperto ogni singolo capitolo de “Il birraio di Preston”, ossia con una frase che è la citazione dell’incipit di un famoso romanzo del passato. Quello che è il mio esordio molti lo avranno riconosciuto, essendo costituito dalle prime parole di uno dei capolavori dell’esistenzialismo francese; quelli di Camilleri sono tratti invece da opere di Melville, Mann, Dostojevskij, Garcia Marquez, Gadda e molti altri, tra cui, ironicamente, anche Snoopy (ricordate la famosa strip in cui Snoopy trascina la macchina da scrivere sul tetto della cuccia e inizia a scrivere “Era una notte buia e tempestosa”?). Questa vocazione metaletteraria (che ricorda un po’ il Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, tra l’altro anche lui omaggiato insieme agli altri scrittori sopra elencati) è una delle caratteristiche principali de “Il birraio di Preston”, insieme a un gusto quasi gogoliano nella descrizione dei personaggi e a una capacità di analisi della situazione sociale e politica che mi ha ricordato il miglior Sciascia, e per esperienza pluridecennale di lettore posso assicurare che quando divertimento, riflessione e sperimentazione vengono a trovarsi insieme, come in una rara congiunzione astrale, quasi sempre ci veniamo a trovare di fronte a un capolavoro. “Il birrario di Preston” è infatti un’opera di grandissimo valore letterario, caratterizzato da quello che è il vero e proprio marchio di fabbrica del suo autore, ovverossia l’utilizzo della lingua “mescidata”, ossia un insolito miscuglio di italiano e di dialetto siculo il quale, se all’inizio può disorientare il lettore (che si trova davanti a termini come trasire, nesciri, taliare, susìrisi, acchianare, e così via, o a espressioni vernacolari come “metterci picca e nenti”, “essere uno scecco gessaro”, “farla pagare col palmo e la gnutticatura”), alla lunga – e i lettori affezionati del maestro di Porto Empedocle lo sanno benissimo – conferisce alla storia un ritmo e una naturalezza ineguagliabili. Ne “Il birraio di Preston”, titolo che si riferisce a un’opera lirica di Luigi Ricci che il prefetto di Montelusa vuole mettere in scena in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata e che invece la cittadinanza vuole boicottare per protesta contro quella che è interpretata come una delle tante imposizioni del neocostituito Stato Italiano in una terra percorsa, allora come oggi, da fermenti autonomisti e antistatalisti, ne “Il birraio di Preston” – dicevo – non si parla comunque solo siciliano, ma anche toscano, romanesco, piemontese, milanese e tedesco, e questa vera e propria babele linguistica, retaggio di un’unificazione alquanto abborracciata, provoca equivoci, incomprensioni e fraintendimenti dall’irresistibile effetto umoristico: si pensi all’episodio in cui il “kalt” dell’ingegnere alemanno viene interpretato dai suoi aiutanti come “caldo” e fa sì che venga girata improvvidamente la manopola della pressione e sparata acqua bollente anziché fredda sull’incendio divampato dietro il teatro, rischiando così di far saltare in aria il carro dei soccorsi; oppure la scena in cui il termine “abusato” genera un curioso quiproquo, in quanto in toscano, la lingua in cui si esprime il prefetto Bortuzzi, esso significa “disorientato”, mentre viene interpretato in senso letterale dal suo interlocutore don Memé, il quale a sua volta, con la metafora dei “comerdioni”, ossia gli aquiloni, trova l’incomprensione del prefetto. Se a questo si aggiunge il particolare modo di parlare dei siciliani, “latino” o “spartano” a seconda di ciò che si vuole far intendere («Da noi, in Sicilia, parlare latino signifìca parlare chiaro». «E quando volete parlate oscuro?». «Parliamo in siciliano, Eccellenza». […] «Eccellenza, posso parlare spartano?». «O che vuol dire?». «Spartano vuol dire parlare con parole vastase.»), si può capire come l’incomunicabilità tra i personaggi del romanzo, provenienti da varie regioni geografiche, regni sovrana. Non so davvero come l’opera di Camilleri possa essere tradotta in altre lingue, fatto sta che per trovare una analoga destrutturazione della lingua e un simile sfruttamento della forza del parlato si deve risalire nientemeno che al Gadda del “Pasticciaccio”, e questo accostamento non può che fare onore a Camilleri. La prosa di Camilleri inoltre si adegua magistralmente ai vari personaggi in scena, e può passare dal burocratese delle missive dei pubblici funzionari alle metafore marinaresche utilizzate in abbondanza nel capitolo della vedova Concetta Riguccio (ad esempio, il membro dell’amante che all’inizio è un cavo d’ormeggio, poi poco a poco diventa un rigido bompresso per trasformarsi alla fine in un maestoso albero di maestra).
Anche la struttura con cui è costruito “Il birraio di Preston” è affatto notevole: la successione dei capitoli disposta dall’autore non segue infatti un ordine cronologico e, come in un puzzle, il disegno complessivo va delineandosi poco alla volta, attraverso l’avvicendamento di episodi trasversali e personaggi marginali che spesso hanno poco o nulla a che fare con la rappresentazione teatrale, ma che poi vengono tutti per qualche motivo a intrecciarsi intorno al fatidico nucleo drammaturgico centrale. Alla fine dell’indice Camilleri afferma addirittura che la successione dei capitoli non è che una semplice proposta e che il lettore può, se lo vuole, stabilire una sua personale sequenza, un po’ come in “Rayuela” o “Componibile 62” di Cortazar. La storia raccontata non è comunque né cervellotica né complicata, almeno per chi è abituato alle “storie semplici” di Sciascia, con i casi insabbiati, i depistaggi delle indagini, la connivenza tra la mafia e i rappresentanti dello Stato, la negligenza delle istituzioni, e così via dicendo. Camilleri prende spunto da un fatto realmente accaduto, ripreso da un’inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875, in cui viene citata la rappresentazione, duramente contestata dalla cittadinanza, del “Birraio di Preston” nel nuovo teatro di Caltanissetta, per impartirci, alla sua maniera, ossia con garbo e leggerezza, una inimitabile lezione di storia siciliana, che permette al lettore di questa vicenda dai risvolti tragicomici, apparentemente anacronistica (essendo ambientata oltre un secolo fa), di rendersi conto di cosa ci sia veramente alle radici della odierna situazione di arretratezza e di degrado in cui versa l’isola, molto più e molto meglio che se leggesse un trattato di storia contemporanea.
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"Una storia semplice" di Leonardo Sciascia
Eros e Thanatos
I “cunti” di Andrea Camilleri, impreziositi da riferimenti letterari in un linguaggio che l'autore si diverte a plasmare magistralmente in siculo, fiorentino, romano, lombardo, possiedono la forza ipnotica delle favole che si raccontano ai bambini, ma non la stessa innocenza, carichi come sono di arguzia e sensualità.
In questo romanzo, in particolare, Eros e Thanatos si intrecciano in diverse occasioni, superando i confini della legge e della buona creanza.
La profonda, amara conoscenza dei fatti di Sicilia, di verità taciute o mezzo rivelate, di menzogne create ad arte dai “potenti” con la manovalanza di servi del potere, emerge per intero in questa piccola perla ispirata a fatti realmente accaduti nella seconda metà dell'Ottocento.
La potenza della parola, ancora più pregnante nella sua espressione dialettale, rasenta spesso la comicità, persino quando irrompe la tragedia a congelare l'amplesso di due amanti e la corsa un po' goffa di un ribelle dell'ultim'ora, o rimbomba un colpo sparato a bruciapelo, o una lama fredda penetra in un “gargarozzo”.
Emerge chiaro che fortezza inespugnabile, a dispetto del malcontento popolare, non è tanto la mafia quanto la mafiosità, sorretta da un sistema ad incastro in perfetto equilibrio tra criminalità e tutela della legge.
Guai a rompere questo equilibrio, pena la morte con disonore, perché se c'è una cosa peggiore di un servo prepotente è “un servu pripotenti di la liggi”.
Le ultime pagine, con due sentenze di morte eseguite a sorpresa tra aranceti carichi di frutti, ricordano proprio quella particolare qualità di arancia striata di rosso, vivace e vagamente inquietante.
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Luoghi comuni o pura realtà
Questo romanzo di Andrea Camilleri colpisce moltissimo per la sua peculiarità di raccontare una Sicilia intrisa di lughi comuni o forse sono grandi verità?
Un teatro di nuova costruzione, da inaugurare con una grande opera prima, un Prefetto che vorrebbe che venga rappresentata un'opera sconosciuta ai più...perchè? Questa è una domanda da un milione di euri.
Ma soprattutto un'opera che è particolarmente odiata dai cittadini...opera che porterà a scindere la città in fazioni rappresentate da un "bravo manzoniano" e dei popolani molto "Renzo e Lucia".
Un irrimediabie disastro, una tragedia che colpirà delle persone e che ne lascerà il segno profondo in altre.
Una mafia in pieno sviluppo...una mafia storica...dei personaggi mafiosi che si configurano come delle icone. Una trama che si sviluppa su più fronti, storie che narrano di altre storie, insomma un capolavoro camilleresco.
Eccellente ritratto di una Italia appena unificata.
Buona lettura a tutti.
Il Syd
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Il capolavoro di Camilleri
Credo che se avesse potuto leggerlo Leonardo Sciascia ne sarebbe rimasto incantato, così come lo sono stato io. Intendiamoci, ed è una premessa indispensabile, Il birraio di Preston non è il solito romanzo di Camilleri, gradevole, appassionante, con la presenza magari di qualche spunto e di qualche fine civile; è invece molto di più e anche il linguaggio usato, quel siciliano italianizzato, che è una caratteristica dell’autore, è assai più comprensibile che in altre sue opere; la struttura del racconto è inoltre costituita da un alternarsi temporale, un prima, un durante e un dopo, trovata che in genere può disorientare, ma che se ben congegnata finisce con il costituire un ulteriore motivo di piacevolezza.
La vicenda è tortuosa, i personaggi sono tanti, ma qui Camilleri è senz’altro riuscito a esprimere il meglio del suo talento, raccontando di un fatto accaduto ben più di un secolo fa, quando l’isola era da poco parte del Regno d’Italia e se qualche spunto è reale, attinto dall’Inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1876, il resto è frutto di pura fantasia creativa. Tutto ruota intorno alla decisione del prefetto toscano di Montelusa di inaugurare il teatro di Vigata con la rappresentazione di un’opera lirica, appunto Il birraio di Preston. E questo è un fatto vero, come i disordini che ne conseguirono, poiché gli abitanti si opposero fermamente a questa decisione, imposta dall’alto e perciò non di loro gradimento, qualunque fosse il valore dell’opera. Come dicevo i personaggi sono tanti e quasi sembrano lottare, sgomitando, per ritagliarsi un angolo di notorietà, dal più umile al più altolocato. Alcuni sono delle vere e proprie macchiette, che Camilleri si diverte a dipingere a suo modo, facendo loro interpretare alcuni passaggi che strappano più di una risata; altri invece sono seri, troppo seri, al punto anch’essi da muovere al riso, come le figure del prefetto e del questore.
Camilleri ci narra di questa rappresentazione operistica, dell’incendio del teatro e delle indagini successive e nel parlarci di questi fatti e di questa varia umanità finisce con il descrivere non solo la Sicilia postunitaria, ma anche l’Italia d’oggi, percorsa da interessi segreti che stanno sotto l’apparenza degli eventi, di una realtà ufficiale così dissimile dalla realtà effettiva, in un paese in cui, vigendo un sistema di potere capace di manipolare la verità, può accadere che l’onestà diventi una colpa e che invece la criminalità finisca con l’essere un merito.
Quando il travisamento della realtà è imperante ed è pratica comune, non è più possibile discernere il vero dal falso, il galantuomo dal disonesto, in un sistema che spegne sul nascere le speranze, che è auto conservativo, che tutto soffoca, obliando il passato e infinocchiando il presente.
Non tutti i personaggi sono così, solo quelli che detengono le leve del potere, i funzionari di stato, i politici e i malavitosi; gli altri possono anche essere onesti e pure eroici, ma per i burattinai che muovono i fili di un’eterna rappresentazione non sono altro che comparse, buone solo a piegare la schiena, ad apparire sul palcoscenico e a rimanervi per il tempo che sarà ritenuto necessario, per poi scomparire, come oggetti usati e inutili che non meritano nemmeno l’attenzione del robivecchi.
Tutto era così al tempo dell’incendio del teatro di Vigata, lo fu anche in seguito, lo è oggi e, ahimé, lo sarà anche domani.
Il birraio di Preston è un autentico capolavoro.
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il birraio di Preston
Come sempre Camilleri prende spunto da fatti realmente accaduti per poi costruire con la propria fantasia avvenimenti e personaggi. Siamo alla fine del 1800, tra Montelusa e Vigata, il Prefetto, di origine toscana, si intestardisce nel voler inaugurare il nuovo teatro di Vigata con un opera lirica " il birraio di Preston" invisa ai siciliani. Ne scaturiscono incidenti e tumulti.
Divertente, ironico come sempre, scorrevolissimo alla lettura. Camilleri si cimenta nella trasposizione di diversi dialetti : oltre al noto siciliano,questa volta il Maestro ci diletta con spassosi personaggi provenienti dalla Toscana, dalla Lombardia, da Roma...senza perdere mai la consueta verve.
Interessante anche l'idea di proporre venti capitoli interscambiabili, volendo si potrebbe cambiare la sequenza di lettura senza che la comprensione del romanzo ne sia danneggiata.
Imperdibile per chi ama i romanzi di Camilleri.