I milanesi ammazzano al sabato
Letteratura italiana
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"Imparai che non s'impara quasi mai niente."
Duca Lamberti, figlio di poliziotto, fratello di “ragazza madre” (siamo negli anni ’60 e gli omosessuali sono definiti “invertiti”; politically correct non qui, sorry), medico, radiato per aver aiutato a morire un’anziana paziente malata di cancro, viene riciclato da un amico e collega del padre per qualche incarico particolare e si ritrova a collaborare con la polizia.
Quattro casi, per lui. Nel primo Scerba mette giù le carte e delinea i personaggi.
Nel secondo e nel terzo ci fa vedere quello di cui è capace in scioltezza e nel quarto tira fuori un capolavoro che davvero dovrebbe far decidere di dedicarsi ad altro alla stragrande maggioranza degli autori di gialli/neri italici e no (nomi a caso. A iosa).
Cosa c’è di così grandioso in Scerbanenco e in Duca Lamberti? Presto detto.
Le storie. I personaggi. La scrittura.
Non sono “gialli” canonici, al centro c’è l’indagine, sì, ma Duca quasi mai si dà la pena di far entrare il lettore in competizione. E sono belle storie. Terribili, disperate, assurde. Storie che funzionano.
La seconda parte che sembra un episodio del tenente Colombo: dall’assassino e dall’assassinio (geniale, peraltro), la terza è un misto fra Kubryck e Ketchum e la quarta e ultima ti tira fuori un archetipo di padre e vendicatore che non so… Balzac che filtra con Dumas.
Nel crimine c’è la stupidità, Lamberti non ha dubbi: “Perché i criminali non sono mai intelligenti. La delinquenza è una forma di sordida e pericolosa idiozia, nessuna persona, appena appena intelligente fa il ladro, il rapinatore, l'assassino. E così i tre idioti decisero di ucciderla, la ragazza che non rendeva più. In questo modo, alla fine, sarebbero stati scoperti lo stesso, ma incolpati oltre che di ratto e sfruttamento, anche di omicidio premeditato. Belle intelligenze.”
C’è un male stupido ed agghiacciante nelle storie di Lamberti, peraltro quasi sempre veicolato da personaggi femminili: la tremenda “partigiana” che lavora a maglia dei Traditori, la “madre” dei Ragazzi e la prostituta dei Milanesi… sono personaggi che sono a tanto così da diventare cliché o fumettoni, a raccontarli. Come Duca. Come Fulvia.
E invece no. Sono veri. Perché la scrittura li rende tali. Tanto che ti viene in mente quella volta che sei entrato in quella tabaccheria all’ora di chiusura o in quel bar all’alba e hai pensato a vite eterne consumate fra quatto mura scrostate e tavoli di formica e hai anche pensato che poteva uscirne chiunque. Anche la “partigiana”, la “madre” e la prostituta.
Scerbanenco non ha bisogno della mia apologia (ma semmai delle mie apologies) però tutto questo lo rende con una scrittura che sembra asciutta, ma asciutta non è. È piena di incisi, di immagini, di anacoluti, di dislocazioni… ed è piena di Milano. Proprio quella che io ho visto quarant’anni fa a mano della nonna. E di inflessione milanese gentile, come quella del papà dei Milanesi con la quale prendo congedo.
"Insomma, ecco," spiegò il cespuglioso vecchio nel suo cupo e dolce dialetto milanese, "se quella lettera me la mettevano sotto la porta il martedì sera, per esempio, io il mercoledì dovevo andare a lavorare alla Gondrand perché era giorno feriale e sarei andato a lavorare, perché io a bottega, se non sono morto, ci vado sempre, invece di andare da quella donna, e avrei avvertito voi della polizia, ma siccome il sabato ho la giornata libera, allora mi è venuta l'idea di andarla a vedere, questa che mi aveva portato via la mia bambina e che insieme con gli altri due me l'aveva ammazzata. Se non fosse stato sabato non l'avrei fatto, tutto questo disastro."
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Meneghino, tutto di un pezzo
Il genere che ha dato fama duratura al prolifico scrittore Giorgio Scerbanenco, è il giallo, che negli anni ’60, si afferma gradualmente in Italia con caratteri tutti suoi originali, ben diversi dai gialli americani in voga fino allora, con gangster con mitra e Borsalino, in lotta contro duri investigatori privati con whisky e sigaretta.
Il genere giallo però è più che altro un pretesto, un artifizio attraverso il quale Scerbanenco descrive Milano, città da lui amatissima, e in generale l’Italia degli anni ‘60.
Non sono gialli pieni di sparatorie come quelli americani, dunque, non sono sottili enigmi per menti acute alla Poirot dei gialli inglesi, sono romanzi nostrani, noir diciamo casarecci, racconti che neanche presentano chissà quali misteri da investigare e scoprire, quasi che non serve il mistero in questi gialli, quasi bastasse la miseria umana di per sé a presentare una trama già abbastanza intrigante così. Sono storie semplici, dunque, crimini usuali, quasi banali, cose di tutti i giorni, cronache dalla grande città. Scerbanenco più che scrittore di gialli è un cronista, è un testimone attento di quegli anni, la propria dura e amara esperienza personale di vita, la propria sensibilità forgiata dalle mille difficoltà incontrate, dai mille ostacoli superati, fa sì che è un testimone imparziale, obiettivo, senza paraocchi o veli rosati a schermare la realtà.
Descrive la realtà di tutti i giorni per quella che realmente è, legge nel cuore degli uomini, intuisce i loro tormenti, non si fa abbagliare dal falso ottimismo di un boom economico che caratterizza gli anni ’60 in cui vive e in cui fa agire i suoi protagonisti.
Dietro la fittizia opulenza apparentemente accessibile a tutti, si nasconde in realtà un vuoto di valori, una decadenza morale che vanamente si cerca di compensare con il largo diffondersi di beni di consumo, la televisione, la lavatrice, l’automobile.
Scerbanenco descrive il difficile risalire la china di generazioni disilluse, fiaccate da anni di caos e di ristrettezze fisiche e morali, generazioni di uomini e donne che chiedono il ripristino delle regole troppo spesso infrante e disattese nel recente passato di dittatura, di guerra, di difficile dopoguerra, il rispetto delle regole non solo dei codici giuridici ma delle regole morali, quelle più importanti, le regole del vivere civile.
Regole che la delinquenza, la malavita, infrangono spesso e volentieri, perché il crimine è materialista, e quindi imperversa nel boom dei beni materiali; la Milano di Scerbanenco è una città dura, cinica, rispecchia la Nazione intera, infettata dal crimine.
Perciò il male, i ladri, gli assassini, gli sfruttatori di prostitute, tutto l’universo del crimine sono come patologie, alcune subdole e nascoste, altre lievi, altre ancora altamente infettive, altre profondamente cronicizzate, ed il bene, i buoni, la polizia, i giusti, sono come i medici, i dottori, i sanitari, coloro che devono curare e possibilmente guarire queste malattie, devono sanare l’organismo, la società, da tali malanni, o almeno provarci, anche se molti mali sono ben radicati o inestirpabili, anche se certe patologie sono dure da sconfiggere. Più che giustizia, si parla di guarigione, più che processi si somministrano cure, farmaci, medicinali, che spesso neanche valgono a guarire. Delinquere è una forma di deficienza mentale, e il poliziotto è il neurologo che fa interdire il reo per impedirgli di nuocere ancora. Non a caso, perciò, nei gialli più conosciuti di Scerbanenco, il protagonista, l’eroe, oltre che poliziotto e investigatore, è realmente un medico, di nome Duca Lamberti.
Ne “I milanesi ammazzano il sabato” giunge a Lamberti un padre disperato da mesi per la scomparsa della figlia, inutilmente la polizia ha intrapreso le consuete ricerche senza esito alcuno.
Con crescente stupore, Duca apprende che la scomparsa, la presunta “bambina” come si ostina a chiamarla il suo papà è in realtà una bella ragazza di ventinove anni, anche se parecchio particolare.
Come infatti spiega il papà, Amanzio Berzaghi, un milanese tutto di un pezzo, ex autista ed ora impiegato in una ditta di trasporti, la propria figlia Donatella è una ragazza bella, molto bella e molto sviluppata da un punto di vista fisico, statuaria, perfetta, bionda, occhi azzurri, è alta quasi due metri e pesa 95 chili, ma tali insolite misure sono dovute purtroppo ad una rara sindrome ereditaria, l’elefantiasi, che le ha causato anche un grave ritardo mentale, ha infatti l’intelligenza e la capacità di una bambina di pochi anni.
Amanzio Berzaghi è un vero milanese, un uomo che non si lascia annichilire dalle difficoltà della vita, una persona che ha fatto del lavoro, della dedizione al lavoro, del rimboccarsi le maniche e dell’andare avanti con determinazione e cocciutaggine un modo di essere, e pur essendo vedovo resta un meneghino tutto di un pezzo, bada da solo e con perizia alla propria figliola.
Figliola che è costretta perennemente in casa, letteralmente rinchiusa nella propria abitazione come in una cella, giacché lo stesso papà ha badato a dotare porte e finestre di serrature che le impediscono di uscire. Questo perché, in conseguenza proprio della sua malattia, la ragazza soffre anche di ninfomania, è vittima inconsapevole d’impulsi compulsivi e ingovernabili di fare l’amore, per tanto tende a sorridere agli uomini e ad assentire a qualunque loro richiesta.
Va da sé che il padre, nelle ore di lavoro, dovendo lasciarla sola e incustodita, per sottrarla alle mire di sporcaccioni senza scrupoli, è costretto a rinchiuderla in casa, dove la giovane trascorre il tempo in attesa del suo ritorno in attività casalinghe precise, ossessive, compulsive di pulizia, di cucina, ecc., oppure gioca con le sue bambole, proprio come una bambina piccola, ascoltando di continuo dischi di musica leggera.
Malgrado ogni precauzione presa per evitare ogni ragionevole pericolo, un giorno però la ragazza scompare. Semplicemente Amanzio Berzaghi non trova più in casa la sua Donatella, sparita, dissolta, volatilizzata nell’aria. Nessun segno di scasso o di violenza, nessuna traccia, in pieno giorno, nessuno che ha visto niente, nessuno, neanche la portinaia l’ha vista uscire o qualcosa d’insolito, e si che la ragazza non è certo tipo da passare inosservata.
Passano i mesi, ma Amanzio Berzaghi non si rassegna, tutti i giorni si reca dalla polizia a richiedere notizie o indagini più estese, più approfondite, cocciutamente il povero padre si ostina perché la sua bambina venga ritrovata. Duca Lamberti indirizza le indagini logicamente sul ratto a fine di libidine o di avviamento alla prostituzione, escludendo con pragmatismo ogni altra ipotesi, come i fini di estorsione, date le modeste possibilità economiche dell’ex-camionista, o eventuali rancori o vendette o altri possibili moventi. Dalle indagini su un rapimento Lamberti deve ben presto occuparsi di omicidio, poiché viene trovato il cadavere della povera Donatella, massacrata a colpi di pietra. Lamberti si immerge allora nella ricerca del o degli assassini, perviene alla verità di quanto accaduto, lo appura con certezza un venerdì…ma come spesso realmente accade nella vita reale, le situazioni s’intersecano.
Duca Lamberti indaga e scopre tutta la verità il venerdì, e intanto ad Amanzio Benzaghi, diligentemente al lavoro dal lunedì al venerdì, come ogni buon milanese, giungono quasi per caso i nomi dei colpevoli, il loro indirizzo. Tutto accade di venerdì, e Amanzio non sa che fare, è confuso, indeciso, infine si decide, l’indomani è sabato, per la settimana corta è libero dagli impegni di lavoro, non deve assentarsi forzatamente, non deve perdere la giornata di lavoro, si decide e si reca all’indirizzo e come nulla fosse, bussa alla porta dei colpevoli.
I criminali hanno sempre la coscienza sporca, hanno la coda di paglia, sono furbi ma mai intelligenti. Potrebbero negare, scappare, fingersi sdegnati e onesti cittadini, rigettare le accuse senza prove, potrebbero fare qualsiasi altra cosa, ma sono criminali, tarati, minori, e fanno sempre e soltanto quella sbagliata: la loro violenta reazione è come una chiara confessione per l’onesto Amanzio, forte e onesto lavoratore temprato da una vita di lavoro e sacrificio, ed un uomo onesto reagisce con furore altrettanto onesto e giustificato, reagisce con pari violenza.
A mani nude il milanese Amanzio Benzaghi si scaglia sui delinquenti, a mani nude, le stesse grosse mani con le quali si è sempre onestamente guadagnato il pane.
Poi cade ferito, nello stesso istante in cui sopraggiungono Duca Lamberti e i suoi.
Duca è amareggiato, è stanco e desolato da questa storia, una storia assurda, una storia deprimente. E l’epilogo è altrettanto freddo, cinico, assurdo come assurdi sono i tempi moderni: Duca chiede ad Amanzio perché è andato nel covo dei sospetti, perché invece non ha chiamato la polizia.
Il dottor Lamberti si attende risposte tipo la sete di vendetta o il bisogno di giustizia; ma il sangue gli si ghiaccia nel sentire la risposta di Amanzio Benzaghi: perché è sabato, perché non è andato a lavorare, perché se per esempio fosse accaduto di mercoledì, avrebbe rimesso le cose alla polizia, perché lui non avrebbe avuto tempo, sarebbe stato impegnato ad andare al lavoro.
Come dire: i milanesi ammazzano il sabato.
Una motivazione fredda, assurda, cinica; come fredda, cinica e assurda è la Milano di Giorgio Scerbanenco.
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L'ultimo Duca, purtroppo
Donatella è una ragazza dalla bellezza particolare, un donnone che incarna,nonostante le dimensioni, una grazia e una delicatezza uniche nel loro genere. Ma Donatella purtroppo è rimasta piccina, una bimba che gioca con le bambole, una bambola anch'essa che guarda insistentemente gli uomini, che li desidera. Donatella è ninfomane e il padre lo sa. Per questo motivo la custodisce gelosamente dopo la morte della moglie e fa in modo che nessuno, proprio nessuno, venga in contatto con la sua povera figlia. Finchè un giorno, tornando dal lavoro, Amanzio Berzaghi non trova la casa vuota e la figlia scomparsa.
Inizia così l'ultimo capitolo del ciclo Duca Lamberti. Con la stessa capacità di sempre di stimolare il lettore all'immaginazione, Scerbanenco ci regala un nuovo quadro della sua Milano, non meno inquietante e sordido. In una città appena tratteggiata, dove non ci sono chiari riferimenti, ma dimora incessante il grigiore e la squallida natura umana sopraffà anche il più umile pietismo, l'autore ci parla della piccola criminalità, delle bassezze quotidiane, dei vizi dei ricchi e dei sacrifici umani a cui i più deboli sono votati. Non è uno scenario confortante, ma non lo vuole essere.
Ci tiene incollati questo libro, ci divora e ci proietta dove non vorremmo essere, sempre con la speranza di un lieto fine, del trionfo della giustizia, in un modo o nell'altro. Ci conforta Duca perchè prima di essere medico o poliziotto egli è un uomo di principio, che non tollera le bassezze a cui gli individui che speculano sono disposti. Verrebbe da chiedersi cos'avrebbe fatto oggi il Duca, ingabbiato da una burocrazia stringente e dall'impossibilità di agire... fortunatamente Scerbanenco non è vissuto così a lungo.
“C’è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città...Non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia, o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni o pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualcuno non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa, e magari il gamba de legn.”