Giallo al collegio dei Santi Innocenti
Letteratura italiana
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Il Tenente Roversi e il furto natalizio
A Sassari ci si appresta a festeggiare il Natale 1962. Don Gualandi si reca ad assistere alle prove generali per lo spettacolo che viene organizzato ogni anno dal Pio Istituto Santi Innocenti per bambine abbandonate. Quest’anno, oltre alle consuete rappresentazioni con cori e presepi viventi, sono state allestite alcune mostre, una con i presepi fatti dai bambini e l’altra dedicata agli abiti tipici delle spose sarde. Mentre si esibiscono i coristi tedeschi, amici di donna Brunilde, moglie del Gualandi, s’ode un urlo proveniente dalle sale espositive. Tutti i presenti accorrono e scoprono che il nobile Angelo Molina di Villadoria è stato rinchiuso nella sala dell’archivio, dove sono esposti i gioielli e i costumi delle spose. Una delle bacheche è stata forzata e la fede della madre di don Angelo, in preziosa filigrana d’oro, è stata trafugata. Il giovane è disperato, oltre all’evidente danno economico, c’è pure il valore affettivo dell’oggetto, appartenuto alla madre da poco scomparsa, e l’increscioso fatto che la vera era stata prestata al Collegio all’insaputa del padre, don Ignazio, che mai avrebbe accettato il rischio di esporre l’anello della defunta moglie.
Delle indagini si occupa il maresciallo Caputo, ma con l’ovvio contributo del Tenente Roversi. In breve le indagini sembrano indicare il colpevole, tuttavia la sorpresa finale non mancherà.
Settimo (e per me, probabilmente, ultimo) romanzo della serie che vede protagonista il carabiniere bolognese trasferito in Sardegna. In questo caso si tratta di un romanzo breve, tutto incentrato sul furto del gioiello nei locali del Collegio per gioventù abbandonata. La storia è piuttosto semplice e lineare, senza grossi colpi di scena o intricate vicende. Ciò, di per sé, non sarebbe un grave difetto, peccato che appassioni non più di quanto possano farlo i quesiti investigativi della Settimana Enigmistica. La narrazione è piatta e abbastanza incolore. Procede lineare sino all’unica conclusione possibile per lasciare quel minimo di sorpresa finale che ci si aspetta da un romanzo giallo.
Come al solito lo stile dell’A. è formalmente corretto, ma privo di spunti d’attrazione. Diligentemente ci mettere a parte delle varie vicende e circostanze con cura e attenzione, per non scordare nulla di importante in relazione all’enigma investigativo, ma non riesce a coinvolgere, anzi, rischia di annoiare. La brevità del libricino ci salva da quest’ultimo rischio, però, ci priva pure delle consuete divagazioni personali sui protagonisti, che, nei libri precedenti, fornivano quel po’ di interesse aggiuntivo che spingeva alla lettura.
Insomma, ormai è evidente che il ciclo sta perdendo ogni attrattiva e prosegue, un po’ stancamente, verso una parabola involutiva. Peccato, perché inizialmente i romanzi del tenente Roversi avevano una freschezza e originalità che me li aveva fatto apprezzare parecchio.