Narrativa italiana Gialli, Thriller, Horror Così giocano le bestie giovani
 

Così giocano le bestie giovani Così giocano le bestie giovani

Così giocano le bestie giovani

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Nelle campagne intorno a Torino gli operai di un cantiere ferroviario rinvengono le ossa di uomini e donne uccisi con un colpo alla nuca: una fossa comune. Il caso viene affidato al commissario torinese Arcadipane, ma rimane nelle sue mani per una notte soltanto: il mattino dopo una task force, specializzata in analisi dei siti storici, è già sul posto a requisire i reperti, che risalirebbero alla Seconda guerra mondiale. Arcadipane potrebbe accettare gli ordini e farsi da parte, concentrandosi sulla crisi di mezz'età che lo tormenta, ma qualcosa non gli torna: troppa rapidità nello stabilire cosa sono quelle ossa e perché sono lì. Decide perciò di proseguire l'indagine in autonomia. L'analisi di un femore requisito gli dà ragione: porta i segni di un intervento chirurgico datato anni settanta. È giunto il momento di coinvolgere il suo vecchio superiore: Corso Bramard, ora insegnante nella remota provincia torinese, ma come sempre investigatore dall'intuizione sopraffina. Quando si scopre che il femore analizzato appartiene al principale sospettato per l'incendio alla sede torinese dell'Msi in cui restò ucciso uno dei militanti, le indagini affondano nel periodo più nero della nostra storia postbellica.



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Così giocano le bestie giovani 2023-03-29 14:22:50 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Marzo, 2023
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Arcadipane: scheletri nell’armadio della politica

I lavori dell’Alta velocità nelle campagne torinesi portano alla luce alcuni resti umani: ossa ormai corrose dal tempo, sotto terra da chissà quanti anni. Appartengono a una decina di esseri umani. Il commissario Vincenzo Arcadipane è chiamato a fare un sopralluogo quando appare il primo scheletro che lui fa portare subito al laboratorio per analisi. Però, le ossa cominciano a diventare tante e subentra la questura milanese che avoca a sé le indagini e le classifica come resti del mai esaurito filone delle vittime della seconda guerra mondiale.
Però il primo scheletro ritrovato mostra, chiaramente, in un femore, i forellini lasciati dalle viti di una placca ossea; nel 1944 non si praticava la riduzione chirurgica di una fattura femorale. Arcadipane accetta di trasferire tutto ai colleghi milanesi, ma si trattiene quell’osso e un piccolo bottoncino metallico di jeans moderni, trovato lì vicino, nella fossa.
Il commissario sta attraversando una fase di depressione cosmica, rapporti difficili con moglie e figli, timore d’aver perso lucidità sul lavoro, ma non può lasciar perdere. Così incarica la ribelle, ma abilissima, Isa Mancini di fare qualche ricerca. La ragazza in meno di 24 ore scopre che i resti potrebbero appartenere a un tal Stefano Aimar, un ragazzo coinvolto negli anni settanta nel lancio di molotov contro una sede del Movimento sociale: una brutta storia in cui un impiegato del partito era morto bruciato. Alle successive indagini aveva partecipato pure il giovane Corso Bramard, che, in seguito, sarebbe diventato capo e mentore di Arcadipane. È inevitabile coinvolgerlo delle ricerche, per ricostruire quei fatti e sciogliere dubbi che all’epoca non furono mai chiariti. I tre scopriranno cose terribili, rimaste segrete sino a oggi.

Questo è il secondo romanzo poliziesco dedicato al duo Corso Bramard e Vincenzo Arcadipane, assistiti dalla aggressiva, riottosa agente Isa Mancini, quasi sempre in punizione per le sue intemperanze.
La prosa di Davide Longo è affascinante e, nel contempo, disturbante: grezza, sfrontata, incurante di ogni convenzione stilistica o eufemismo. Talora trascurata e scarsa (pure nel rispetto delle regole sintattiche), non di rado quasi scurrile, come può esserlo un linguaggio da caserma. Ma, come una ruvida raspa riesce a grattare e mettere a nudo anche il legno più duro, così quella prosa, a volte trasandata e spigolosa, a volte ridondante, pletorica o acidamente sarcastica, riesce a scoprire e mettere in luce i sentimenti dei personaggi dando loro una vita quasi reale. Sono uomini e donne che, spesso, hanno perso ogni speranza o mai l’hanno avuta, e trascinano stancamente una vita alla deriva come i resti di un relitto in alto mare nel cui sfacelo spesso è difficile distinguere i vari componenti che, ormai, galleggiano sparsi e senza meta. Tutto molto umano e toccante.
Tra i protagonisti emerge tenera, anzi patetica, la figura di Arcadipane, brillante poliziotto, degno allievo del commissario Bramard, ma ormai uomo disilluso, sperso, che non riesce a comprendere più il mondo in cui vive e fatica a tenere assieme la sua famiglia, nonostante l’ami disperatamente e sia disposto a tutto pur di rinsaldare i rapporti. Ne risulta un personaggio commovente per la sua disperata, concreta umanità. Quanto a Bramard – che nel romanzo precedente era descritto come un uomo cupo e disperato, con istinti suicidi, che aveva rinunciato a provare sentimenti per paura di soffrirne ancora – qui ci appare invece dotato di una saggezza ascetica e stoica; ormai consapevole quali limiti brutalità e violenza possano agilmente superare, accetta con mesto cinismo tutto quanto di orrendo la vita e l’indagine gli andrà rivelando.
In definitiva il romanzo si rivela un ottimo esercizio letterario in uno stile che, forse, potrà non piacere a tutti, ma che risulta decisamente interessante e coinvolgente, anche per quel suo carattere quasi sperimentale e creativo che ha di esporre i fatti.
Tutto bene, allora? Non proprio. Sono assai meno convincenti i temi sviluppati dalla trama: l’eversione e gli attentati che insanguinarono l’Italia negli anni ’70, ma soprattutto i modi in cui vengono esposti e le soluzioni che, alla fine, sembrano suggerire. Temi, modi e risposte che fanno sorgere più di una perplessità.
La storia è suddivisa in tre sezioni, con la prima e l’ultima dedicate alla risoluzione del caso che il ritrovamento della fossa comune ha aperto. La parte centrale, invece, è dedicata a un minuzioso flash-back sul ruolo avuto da Bramard giovane nelle indagini della polizia politica sull’attentato incendiario alla sede MSI di via Lampredotti che costò la vita all’unica persona che, in quel momento, vi si trovava per lavorare. Già questo passo indietro temporale determina una cesura che spezza la continuità narrativa e risulta non perfettamente consono ai toni intimamente dolenti che aveva assunto la narrazione. Ma l’aspetto più criticabile sta proprio nell’argomento scelto: inoltrarsi nel pericoloso campo minato dei cosiddetti “anni di piombo” italiani è sempre problematico. In un giallo classico ove crimini e autori degli stessi possono essere arbitrariamente decisi dall’A. ci si muove in un universo immaginario, simile al nostro, ma parallelo e solo imitativo di quello reale. Quindi è consentita qualunque invenzione e “fuga in avanti” senza rischio di turbare nulla o nessuno. Ma se si va a toccare un tema di per sé scottante e non del tutto sopito negli animi di chi, direttamente o indirettamente, l’ha vissuto e ne è stato testimone, è difficile muoversi senza causare deflagrazioni indesiderate, sollevando ipotesi, più o meno fantasiose, che portano a congetturare su oscure manovre, stragismo o complottismo di Stato, fosche macchinazioni di quelli che venivano definiti “poteri forti” e compagnia cantando. Insomma si rischia di alzare un polverone di polemiche e supposizioni, più o meno campate per aria, che se sono sicuramente sgradite a chi non le ritiene neppure lontanamente reali, risultano malviste, a mio avviso, anche a chi nutra qualche dubbio in proposito. Il romanzo poliziesco, quindi, per definizione, “di evasione”, non può tramutarsi in un pamphlet di denuncia, soprattutto non può farlo inventando una tesi che frammischia situazioni realmente accadute con i parti della fantasia, senza mostrare dove si è voluto tracciare la linea di confine; dove finisce la cronaca di quegli anni e dove inizi la fantapolitica e il racconto ucronico. Non lo si può fare accettando pedissequamente e in modo acritico una tesi (chiaramente di parte) frutto dell’assemblaggio di tutti i luoghi comuni e le cervellotiche motivazioni segrete che hanno avvelenato quegli anni tristissimi.
Purtroppo questo peccato originale deprime l’opera che, altrimenti, sarebbe stata degna di una valutazione decisamente più alta. Peccato...

____________

P.S. Mi sembra opportuno segnalare che il libro, prima edito da Feltrinelli con il titolo "Così giocano le bestie giovani", ora è stato ripubblicato da Einaudi con il titolo semplificato "Le bestie giovani".

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Così giocano le bestie giovani 2021-08-24 15:58:59 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Agosto, 2021
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Arcadipane

«Ecco cos’è invecchiare: non avere più tempo per diventare bravo a fare niente.»

Con “Le bestie giovani” Davide Longo ci porta nella periferia torinese dove, in una mattina come tante, vengono ritrovate delle ossa. Sono dieci cadaveri e il comando incaricato non esita un attimo ad attribuire la paternità di questi a resti della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, Arcadipane non è sicuro di quanto affermato da loro e continua a indagare. Troppe sono le circostanze che lo portano a dubitare, prima tra tutte ma non meno importante, quell’operazione chirurgica che si evince essere stata effettuata su un femore di un corpo e che certamente non può attribuirsi al periodo storico di riferimento.
Da qui torniamo indietro nel tempo, in un perfetto alternarsi tra presente e passato, tra fatti risalenti agli anni Settanta e altrettanti relativi al ritrovamento. Arcadipane con la sua squadra conducono tra le fila di queste nebbie e con rapidità l’opera giunge al suo compimento.

«Tutta gente che non ha capito l’unica cosa che c’è da capire: la vita è quello che si vede, al massimo quello che si fa. Nient’altro.»

Ha inizio da queste brevi premesse l’opera di Longo. Si tratta di uno scritto ben articolato, di facile lettura e ben strutturato nella sua forma. I personaggi arrivano per le loro caratteristiche peculiari e non mancano di coinvolgere il lettore. Quello che convince soltanto in parte è lo stile narrativo. Va bene la caratterizzazione dei personaggi ma personalmente non prediligo una penna troppo semplicistica e avvalorata di parolacce nel suo estrinsecarsi. Chiaramente una scelta voluta per rendere più appetibile il titolo e per renderlo più fruibile e concreto ma nella mia modesta impressione questo ha fatto perdere di intensità al componimento e al suo sviluppo che quindi si lascia apprezzare ma che non conquista completamente.

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Così giocano le bestie giovani 2018-07-15 07:54:16 ornella donna
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    15 Luglio, 2018
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Una storia italiana degli anni '70

Davide Longo, insegna Scrittura alla Scuola Holden. Tra i suoi romanzi: Un mattino a Irgalem, Il mangiatore di pietre, L’uomo verticale, Ballata di un amore italiano, Il caso Bramard. Ora torna in libreria con Così giocano le bestie giovani. Un libro che è:

“un gioco letterario vero e ruspante, dove la sapidità della trama va a scalare tra le zolle di una territorialità dell’anima, con la lentezza e la precisione di uno scalatore della narrativa: schietto, credibile, sicuro come i suoi sdruciti protagonisti.”.

Sullo sfondo di una città, Torino, che:

“respirò la città con la sua tenebra, la sua ritrosia, e i gas delle auto. Erano simili in fondo: due scritture difficili che dicevano poche cose semplici.”.

Nel 2008 nella prima periferia torinese vengono ritrovati dieci cadaveri che paiono risalire alla Seconda Guerra mondiale, sepolti in una fosse comune vicino ad un passante ferroviario. Così pare a prima vista, ma un bottone di un paio di jeans installa in Arcadipane, incaricato delle indagini, qualche perplessità. Anche se i suoi diretti superiori non condividono le sue tesi, lui inizia una indagine parallela. E non può farlo se non rivolgendosi al suo ex capo, il commissario Corso Bramard, che si è rifugiato lontano, in una forzata auto reclusione per cercare di dimenticare la morte dell’amata Michelle, dedicandosi all’insegnamento. Ma Arcadipane sa che lui all’epoca c’era, ed è depositario di molte verità. Lui da parte sua è perspicace, ma insicuro, combatte strenuamente contro i suoi fantasmi, le sue debolezze, l’incapacità di comprendere i figli, un matrimonio con delle indubbie difficoltà, con l’unica compagnia di un cane zoppo, Trepet, e i sucai, i famosi bottoncini di liquirizia dolce e zucchero. Dall’altra Bramard che rivive i suoi vent’anni in una Torino del 1974, in cui ha conosciuto Stefano Aimar, estremista di sinistra il cui cadavere viene ritrovato quarant’anni dopo sepolto in un campo incolto vicino all’autostrada. Tutto riporta ad un attentato compiuto in via Lampredotti, dove:

“la notte tra il 20 e il 21 ottobre del ’74 qualcuno buttò due molotov dentro una sede dell’Msi in via Lampredotti.”.

La ricerca della verità, dunque, compie un lungo percorso che riporta indietro nel tempo a furori eversivi ed attentati postbellici, ad un sogno mai realizzato che si scontra con una tesi amara e violenta.

Il libro di Davide Longo racconta una storia degli anni ’70 con una prosa raffinata e precisa; accompagnando il lettore attraverso un excursus difficile e complicato, ma degno di una lettura avvincente e complessa nella sua intimità.


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