A bocce ferme
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
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un omicidio cinquantenne
Tornano i cari e spiritosi vecchietti del Bar Lume, con A bocce ferme di Marco Malvaldi. La serie è iniziata nel 2007, e questo è il settimo della serie. Di lui, autore, mi ha colpito una dichiarazione che ha reso, in cui afferma che:
“Parrà turpe, ma a lui devo la tranquillità economica. (Camilleri Andrea, ndr.). Se Camilleri scrive e vede, consente a uno o due giovani all’anno di provarci. Ho sfruttato la sua traccia. Oggi scrivere gialli è comodo. Passa per una operazione culturale. Per me che sono tifoso, stargli accanto è come giocare nel Torino.”
I protagonisti a latere di questo libro sono quattro arzilli vecchietti: Aldo, Ampelio, Pilade e il Rimediotti, meglio conosciuti come “I quattro della Banda della Maglia-di-lana”. Frequentano e quasi “vivono” nel Bar Lume, di proprietà di Massimo, nipote di Ampelio, e di Tiziana. Massimo è spesso insofferente e sarcastico nei confronti dei quattro:
“Abbi pazienza, Massimo, ma stai diventando insopportabile. Tratti male chiunque. Finchè lo fai con tuo nonno e con quegli altri con cui hai confidenza pace. Ma non è che puoi mandare in culo le persone solo perché ti chiedono una centrifuga.”
A mediare c’è Marco Pardini, detto Marchino:
“balconista ufficiale del BarLume da un paio di anni. Del perché un cristone di un metro e novanta con una vistosa collezione di muscoli in bellavista sia soprannominato Marchino, le ipotesi valide sono due. “.
Un’indagine difficile, compiuta da Alice Martelli, vicequestore nonché fidanzata di Massimo, chiama in causa come testimoni proprio i quattro. All’apertura del testamento di Alberto Corradi, proprietario di una importante azienda farmaceutica del luogo, si apprende come quest’ultimo si dichiari colpevole di aver ucciso il padre putativo della stessa, tale Camillo Luraschi, da lui stesso adottato. La notizia è sconvolgente, anche perché a Matteo Corradi nominato erede universale non può spettare qualcosa che risulta essere frutto di un omicidio. Però l’omicidio dopo cinquant’anni è caduto in prescrizione. E allora? Le indagini si complicano ulteriormente con la violenta morte di Ubaldo Giaccherini, operaio in pensione, che dichiarava di possedere importanti informazioni riguardo al passato. Tutto ciò è misterioso, perché i quattro conoscevano bene Alberto, e non sono convinti della sua confessione, per cui:
“quella era la domanda cruciale. Quella che le ripassava nel cervello da un paio di giorni, fastidiosa come un pulmann che va nella direzione giusta ma è strapieno, e tu non sai se è il caso di salirci o di aspettare quello dopo.”.
L’indagine prosegue, tra svolte e depistaggi, con un occhio rivolto al passato. Ad un passato, il ’68, complicato e difficile, che spesso non si vuole ricordare, che.
“era il momento della protesta studentesca. E qui siamo accanto a Pisa. (…) Novantamila persone, di cui cinquantamila studenti universitari. Un testone enorme su di un corpo rachitico, come diceva il Nardi. Un assetto squilibrato. E infatti quello successe, si perse l’equilibrio.”
Un giallo differente dal solito, un giallo che alla trama, decisamente classica del genere, affianca un clima ironico e spiritoso, che travolge il lettore. La vena comica ed umoristica percorre incessante tutto il libro, affiancato dall’uso sparso del dialetto toscano, che farcisce e condisce amabilmente le battute dei quattro vecchietti. Una trama intrigante e complessa tra chiacchiere da bar, pettegolezzi di provincia e derisioni da compagnoni. Una bella e stimolante lettura.
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Opinioni inserite: 5
Ritrovarsi al Bar Lume
Ormai i romanzi aventi protagonisti i terribili vecchietti che bazzicano tutto il giorno al Bar Lume non si limitano a raccontare le vicende attraverso le quali il barista Massimo, al solito risolve un caso di omicidio , ma hanno una storia a fare da sfondo, quella di Massimo e degli altri protagonisti, che va seguita con una certa fedeltà per non perdersi dei passaggi e per capire tutte le battute .
A Pineta la lettura del testamento di un noto industriale farmaceutico riporta alla ribalta un omicidio avvenuto nel lontano 1968. Come se non bastasse un nuovo omicidio che pare proprio collegato al precedente costringe i componenti della banda della "magliadilana" ad essere più partecipi che mai, anche perchè trattandosi di cose risalenti al periodo in cui loro erano giovincelli sono delle fonti di informazioni preziose ma vanno gestiti e questa al solito è la parte divertente. Malvaldi continua su un filone narrativo fortunato riuscendo a far sviluppare anche la vita dei personaggi principali in modo che sia importante quanto l'espediente della ricerca del colpevole nell'economia del romanzo. Al solito i battibecchi, le frecciate , i ricordi dei tempi andati, costituiscono la gustosa impalcatura del tutto. Non saranno mai romanzi indimenticabili ma sicuramente una lettura molto piacevole.
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La Banda della Magliadilana
Gli anni passano anche al Bar Lume di Pineta. Ma se ritroviamo il bisbetico e intelligentissimo “barrista” Massimo alla soglia dei cinquant’anni e alle prese con qualche dilemma esistenziale tipico dell’età che avanza, i quattro arzilli vecchietti, che l’età l’hanno “avanzata” da un bel pezzo, non ci sono mai sembrati invece così in forma. Inforcati gli occhiali da presbite e spaginato il quotidiano, eccoli pronti a commentare un nuovo evento misterioso accaduto sul litorale toscano.
Una confessione in punto di morte e una questione di eredità riaccendono la luce dei riflettori mediatici e l’interesse della polizia su un caso del 1968, l’omicidio rimasto irrisolto dell’industriale farmaceutico Camillo Luraschi. Il boccone è più che mai succulento per i simpatici e attempati ficcanaso poiché loro ricordano molto bene quel vecchio caso, i pettegolezzi che si dicevano allora in paese e il clima politico e sociale di quegli anni. E la loro memoria storica finirà per apportare un contributo davvero fondamentale al proseguimento dell’indagine e alla soluzione finale del mistero.
L’ultimo episodio che Marco Malvaldi ha dedicato ai suoi protagonisti più famosi è per me uno dei migliori romanzi dell'intero ciclo. Sempre ironica e brillante la penna, le pagine scorrono in puro piacere, grazie ad una miscela a base di giallo, comicità e questa volta anche memoria. L’atmosfera frizzante del bar, con le sue chiacchiere divertenti, le sue battute dialettali e i suoi meccanismi ormai ben collaudati, si arricchisce infatti dei ricordi del passato sessantottino, facendone rivivere i fermenti, le passioni e le idee. Senza schieramenti o posizioni esplicite da parte dell’autore, perché questo è pur sempre un romanzo d’intrattenimento, in cui non manca leggerezza, brio, toscanità ma soprattutto un enigma dagli ingranaggi ben studiati. Perché umoristico sì, ma prima di tutto giallo.
La ricetta non è nuova, lo sappiamo, ma quando il piatto riesce così bene non possiamo far altro che complimentarci col cuoco e assaporarlo con gusto.
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I vecchietti del Bar Lume ed il Sessantotto
Un testamento di solito mette in subbuglio solo gli eredi (dolenti o delusi che siano) e non suscita particolare rumore. Ma se il de cuius nell'atto autografo confessa un omicidio commesso cinquant'anni prima, allora il subbuglio lo si determina eccome, pure in Questura e presso gli uffici del Pubblico Ministero. Se, poi, l’apertura della successione avviene a Pineta, ridente località balneare in provincia di Pisa, allora potete star certi che pure i quattro vecchietti del Bar Lume e l’annesso “barrista” si troveranno coinvolti nelle indagini degli inquirenti. Soprattutto se, al “morto d’annata”, se ne aggiunge uno “fresco di giornata”, anche se non per data di nascita della vittima. Che i due omicidi siano connessi? E' probabile: il movente (presumibile), una cospicua eredità con annessa fiorente fabbrica farmaceutica, lo farebbe pensare, ma i casi della vita non sono mai così lineari come ci si aspetterebbe. Ce lo dimostra la nuova, gradevole avventura di Massimo Viviani e della sua banda di pen-z-ionati, impiccioni ma divertentissimi.
Per quanto gli schemi narrativi seguano i consueti binari e non ci siano troppe novità ad agitare le acque, come al solito l’appuntamento con il giallo intelligente è servito con un sorriso sul vassoio assieme a cappuccini fumanti e scampoli di saggezza da bar.
Quindi ricacciato indietro il sentimento di pura invidia per come l’A. riesca a destreggiarsi col garbo e l’abilità d’un giocoliere con la lingua italiana, rimane solo il piacere di godersi un romanzo che, magari, non sarà un’opera letteraria di imperitura durata, ma rasserena e rinfranca, come una giornata di primavera odorosa di fiori appena sbocciati.
Dunque va l’ennesimo bravo e un sentito grazie all’A. toscano.
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La banda della Magliadilana
Una busta che si apre, dalla quale esce un frammento di passato che non è quello che ti aspetti. La busta è quella di un testamento. L’inaspettato è legato al fatto che il testamento può essere invalidato, seduta stante, per la contemporanea ammissione di colpa per un omicidio successo nel passato. E’ sempre bello leggere un giallo italiano. Se poi il giallo contiene influssi dialettali, lo si sente ancora più nostro. Camilleri ci ha abituato al siciliano e Malvaldi ci fa entrare nel bellissimo mondo del dialetto toscano, che crea una gran bella atmosfera. Con un quartetto di personaggi memorabili, la cosiddetta banda della Magliadilana, e le loro chiacchiere da bar al BarLume, l’autore ci offre questo bel “cold cheìs”, che viene risolto con vegliarda sapienza e simpatia.
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Il BarLume e il '68
Malvaldi con i romanzi della saga del Bar Lume è sempre una garanzia. Non si è smentito nemmeno con questo ultimo capitolo, a mio avviso anche più interessante degli altri.
Alla lettura del testamento di Alberto Corradi, proprietario dell’azienda farmaceutica Farmesis, avviene un colpo di scena: lo stesso Corradi si autoaccusa dell’omicidio del padre putativo avvenuto nel lontano 1968. Da qui si dipana tutto l’intreccio giallo che non svelerò per ovvi motivi e che verrà risolto brillantemente da Massimo il “barrista” e dalla sua compagna il vicequestore Alice Martelli.
Quello che differenzia quest’ultimo romanzo dagli altri è l’anno nel quale avviene il primo omicidio il 1968; quello fu l’anno d’inizio delle rivolte studentesche e operaie dalle quali scaturirono poi i bui anni ’70, è anche l’anno della fantasia al potere ma l’omicidio in sé non ebbe nulla di politico come poi si scoprirà ma è molto interessante rivivere nelle parole di Ampelio l’occupazione dell’Università di Pisa o nei ricordi dei “vecchietti” i volantinaggi nelle fabbriche.
In quest’ultimo capitolo c’è una maggior caratterizzazione del personaggio di Pilade Del Tacca che darà una mano notevole alla soluzione e poi si scoprirà anche il nome del padre di Massimo.
Libro scritto molto bene, con venature intimiste, sempre divertente ed intelligente “Essere triste- è brutto. Essere triste quando tutti credono che tu sia felice, che tu abbia tutto per essere felice- è peggio”.