Urla sempre, primavera
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Parkour
Il mio professore di letteratura tedesca un giorno disse che, all’inizio di una lettura, lo scrittore stringe un patto col lettore dandogli un’idea di ciò che dovrà aspettarsi in seguito: se lo scrittore ci dà indizi di natura fantastica, il surreale non ci apparirà strano ma bensì atteso; nel racconto realista l’approccio sarà molto più ancorato alla verosimiglianza mentre in quello storico il lettore si aspetterà anche una corrispondenza precisa e priva di errori alla Storia. Quello che fa Michele Vaccari in questo romanzo è prendere quest’idea (che è quasi una regola), accartocciarla con sdegno e gettarla via.
Questi tre elementi da me citati si fondono, mostrando ambizioni piuttosto ardite.
Nella prima parte ci troviamo in una Genova distopica (di cui vengono citati i nomi di molti luoghi che, se non li conosci, non ti dicono nulla), dominata da una sorta di governo vegano (?) che sembra aver tratto la conclusione che l’estinzione di massa sia l'ambizione più giusta da perseguire per l'umanità. Parte dunque il massacro delle madri: essere incinte è una cosa fuorilegge e uno dei nostri personaggi principali è proprio una di loro, ovviamente provvista del classico “dono” capace di sovvertire gli schemi, un dono che sarà ancor più potente nella figlia eletta. Sa un po’ di cliché attualizzato, ma quantomeno siamo ancora nei limiti “dell’atteso” di cui parlavo prima, con tanto di strizzatina d’occhio a Orwell con l’introduzione della cosiddetta Lingua Nuda, che tuttavia a differenza della Neolingua non sembra essere altro che un miscuglio di termini presi dalla peggior gioventù, da internet e dallo spagnolo (???) senza avere un effettivo scopo come lo aveva la “creatura” del Socing. Se la meta è l’estinzione, qual è il motivo per il quale il governo vorrebbe introdurre una nuova lingua? Potrebbe esserci, ma non è chiaro; in realtà sembra più un modo di scimmiottare una piega del linguaggio moderno, portandolo all'estremo.
Nella seconda parte ci troviamo catapultati in una sorta di poliziesco-fantascientifico, per mezzo del racconto di un altro personaggio già incontrato nella prima parte e macchiatosi di un’orribile colpa. I riferimenti alla storyline di base, tuttavia, ci sono ancora.
Nella terza parte però avviene la frattura che mi ha fatto storcere il naso definitivamente: ci troviamo davanti a un lunghissimo flashback che ci catapulta all’interno del mondo partigiano, cent’anni lontano dagli eventi finora narrati. Certo, si tratta di un flashback di un personaggio importante ma il lettore (o almeno io) si ritrova scagliato molto lontano, per un numero di pagine troppo lungo e con un livello di dettaglio che appare un po' eccessivo. Questo perché la priorità dell’autore sembra essere quella di sviscerare il tema della diversità, di voler provare a includere tutti i motivi della nostra contemporaneità (Covid compreso) e sbatterceli davanti, ma credo che il modo in cui lo faccia sia (probabilmente per volerli includere tutti insieme) un po’ banale e intacchi il procedere della storia. Perché non concentrarsi su uno, due temi? Il lungo flashback di Spartaco Delfino è rivolto a Egle per il raggiungimento di quello che sarà il suo destino, ed è proprio per questo che il soffermarsi su determinati dettagli e discettazioni è per me forzato: qual è, per Egle, l’utilità di conoscere i dettagli precisi della vita sessuale del nonno? Non meritava, il tema trattato nel flashback di Spartaco, una storia a sé? L’autore vuole mettere tutto insieme e questo si scontra violentemente con la coerenza del racconto, deviando da quel che dovrebbe essere davvero utile ai fini della storia principale.
Le prime tre parti sono un’evidente preparazione per le ultime due parti, ma per quando ci arrivi ti senti già sfiancato e confuso, incapace di poter dire davvero cosa tu abbia letto. A questo si aggiungono pagine colorate di diverso colore (che hanno il loro bell’impatto visivo, ma il cui contenuto non fa che confondere ulteriormente), parti in corsivo inserite qua e là in cui la voce narrante cambia tono, citazioni da manoscritti… l’inventiva è una cosa buona, ma va dosata: le idee ci sono e in certi casi anche buone, così come alcune riflessioni, ma è troppo. Oltretutto, io sono un amante di tutti i generi toccati da questo romanzo, ma qui si salta dall’uno all’altro come una lunghissima ed estenuante sessione di parkour.
“L’Ottimo è nemico del Buono”, mi hanno sempre detto. Hanno ragione.