Uno, nessuno e centomila
Letteratura italiana
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Un romanzo di deformazione
Uno dei più amati autori italiani, Pirandello è stato certamente uno dei più innovativi, sotto diversi punti di vista: sia per quanto riguarda i temi sia per il modo in cui li ha trattati.
"Uno, nessuno e centomila" focalizza la sua attenzione su uno degli argomenti a lui più cari: quello delle maschere sociali e dell'impossibilità per l’individuo di avere un'identità univoca, che possa essere per tutti valida. L'umorismo tipico dell’autore è perfetto per affrontare efficacemente un discorso che di divertente non ha nulla, riuscendo a carpire l'attenzione del lettore e a colpirlo con maggiore efficacia, sebbene gli stessi concetti siano ribaditi un po’ troppo spesso e a volte in modi troppo arzigogolati.
La vicenda di Vitangelo Moscarda e le sue riflessioni sono interessanti e universali, applicabili a ogni essere umano, che tuttavia può a sua discrezione preoccuparsene o meno. A partire da uno sciocco particolare portato alla sua attenzione dalla moglie Dida (il naso che gli pende verso destra) e che lui non aveva mai notato, Vitangelo inizia a mettere in discussione tutto il suo essere, blandamente in principio, fino a sfociare nella paranoia più totale, nell’ossessione, infine nella follia. Vitangelo scopre che ciò che l’uomo crede di essere per sé stesso e agli occhi degli altri è una proiezione soltanto sua, che magari poco o nulla ha a che vedere con quelle che ognuno attacca a quel "nessuno" che è il suo corpo: un involucro che gli altri riempiono in base alla propria visione. Vitangelo è, dunque, allo stesso tempo lo sciocco Gengé di sua moglie Dida, il "caro Vitangelo” dei suoi soci alla banca e il crudele usuraio della buona parte della gente del paese. L’incapacità del protagonista di accettare alcune di quelle personalità - affibbiategli per la maggior parte per il suo aspetto fisico, per la fama del suo nome e per la professione che oltretutto non esercita - lo portano a considerare e scomporre tutta la sua vita in base a quei nuovi pensieri, frammentando sé stesso poco a poco, in una sorta di romanzo di formazione al contrario. Vitangelo è un uomo schiacciato da una verità che gli altri inconsciamente o volontariamente ignorano: una verità scomoda, complessa, che se analizzata a fondo non può che portare alla conclusione a cui giunge Moscarda: un completo svuotamento di sé; un allontanamento dalla società e dalle sue convenzioni per mezzo d'un percorso che lui trova nella follia.
Pirandello esamina il tema in tutte le sue sfumature, non si lascia sfuggire niente, e genera nel lettore una forte d'empatia nei confronti del protagonista, una profonda comprensione che tuttavia, come in molti casi nella letteratura introspettiva, non sfocia in condivisione assoluta per il nostro istinto di sopravvivenza, che spesso ci porta anche a voler ignorare verità che ci impedirebbero di vivere quietamente.
“Io non posso più vedermi guardato. Neanche da te. Ho paura anche di come ora mi guardi tu. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi, e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli altri.”
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Storia di un uomo mai esistito
Romanzo? Monologo teatrale? Trattato filosofico? Sociologico? Antropologico? Costruzione metafisica sulla fisica umana?
Un libro, nessun libro, centomila libri. E' “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello, opera di assoluta modernità concettuale e tematica. Opera geniale.
Un giorno Vitangelo Moscarda si guarda allo specchio e va in frantumi. Moscarda, non lo specchio.
Da quel minimo disallineamento del naso – che la moglie Dida evidenzia come fosse lì da sempre, ma che lui mai aveva notato – la sua individualità si frammenta irrimediabilmente e si annulla. Vitangelo perde la cognizione di se stesso, e comincia a chiedersi se centomila volti e personalità bastino a definirlo agli occhi degli altri o non siano persino pochi. Ognuno ha a che fare con un diverso Moscarda: il ragioner Quintorzo vede il “caro Vitangelo”, Dida vede il suo innocuo “Gengé”, persino la cagnetta di casa ha il suo personale Vitangelo cui riferirsi.
“Non c'è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi.”
Vitangelo Moscarda crede di reagire a questa sconcertante scoperta iniziando un percorso di “redenzione”: rinnega ogni sua esperienza e se stesso, cercando anzitutto di ribaltare la sua fama di usuraio (ebbene sì: usuraio!), involontariamente ereditata dal padre insieme alle fortune che costui aveva messo da parte.
In realtà, come Vitangelo scoprirà nelle ultime pagine dell'opera, la soluzione della sua crisi è altrove.
Per commentare questo libro come merita, bisognerebbe scriverne almeno un altro.
Luigi Pirandello impiega sedici anni per completare un'opera che ritiene, in qualche modo, “summa” del proprio lavoro; tanto da dire, alla fine, che se l'avesse scritta prima si sarebbe forse capita meglio la gran parte della sua produzione teatrale.
Brillantissimi lo stile e il contenuto: il primo si caratterizza per essere dialogo con il lettore, il quale viene sottilmente sollecitato – portato per mano e deluso di continuo – e fatto partecipe di questa incresciosa scoperta, la “scomparsa” dell'individualità. Il tutto in quello stile arguto che fa parlare di umorismo pirandelliano come di un unicum letterario.
Il contenuto, poi, rappresenta una pura riflessione filosofica, che prende a piene mani da Cartesio e arriva dritta all'epoca dello scrittore siciliano (e oltre, per la verità). Il tutto senza sconfinare nel saggio, ma mantenendosi sempre ben ancorato alla “pista” letteraria; basti pensare, a tal proposito, al racconto della controreazione altrui alla reazione del protagonista: laddove Vitangelo si propone come “vero”, determinato com'è ad affermare la propria personalità, viene ribattezzato per folle e minacciato di interdizione. Ma lui, in tutta onestà, ha altri programmi.
“Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo.”
Si legge “Uno, nessuno e centomila” e si scopre l'opera di un grande scrittore italiano che, per robustezza spirituale e letteraria, si accomoda tranquillamente accanto ai grandi romanzi russi e tedeschi dell'ottocento e di inizio novecento. Senza alcun timore reverenziale.
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Mi pende? A me? Il naso?
“Credevo ti guardassi da che parte ti pende”.
Bastano queste semplici parole, pronunciate dalla moglie Dida, a scombinare irrimediabilmente la tranquilla esistenza di Vitangelo Moscarda, siciliano ventottenne residente nella fittizia località di Richieri (probabile alterazione della città di Agrigento, dove Pirandello è nato).
Vitangelo è davanti allo specchio, si tocca il naso a causa di un dolore ad una narice, quando la donna pensa bene di far notare al marito il difetto fisico che mai quest’ultimo aveva ritenuto di possedere.
E non è l’unica imperfezione. Dida rincara la dose con le gambe curve, la strana forma delle sopracciglia e delle orecchie.
Vitangelo ha un’illuminazione. Capisce di non essere per gli altri quello che lui pensa di essere, e di indossare inconsapevolmente una serie innumerevole di maschere tante quante sono le persone che lo conoscono o anche solo lo osservano per un istante, ognuna con impressioni ed opinioni soggettive e, in quanto tali, differenti.
Pirandello, in questo romanzo datato 1926, ha scelto di proseguire una certa tradizione a cavallo tra XIX e XX secolo, propria di autori quali D’Annunzio e Svevo, affidando il ruolo del protagonista alla figura dell’inetto. Un uomo inconcludente, infantile, immaturo.
Vitangelo infatti, per sua stessa ammissione in uno dei numerosi monologhi che caratterizzano lo scritto, afferma di trascorrere una vita tranquilla e agiata grazie all’eredità del padre banchiere, e di non aver mai dovuto prendere alcuna decisione, lasciando che il tempo gli scorresse davanti senza sforzo. È impreparato ad affrontare perfino una rivelazione banale come quella della moglie. E infatti scivola presto nel delirio, facilitato da un animo debole, volubile e confuso dai dubbi che lo attanagliano.
Cerca rifugio nella solitudine, non tanto quella relativa dell’io separato dagli altri (uno) quanto quella assoluta dell’io separato da sé, cioè dalle proprie inevitabili maschere (centomila), per arrivare a vedersi criticamente come un estraneo (nessuno). Una pagina bianca svuotata di pregiudizi e sovrastrutture.
Ma il confine tra liberazione e follia è labile. È impossibile fissare la nostra esistenza, si muove continuamente. Ed è quindi impossibile giungere ad una staticità inconfutabile, oggettiva.
“Uno nessuno e centomila” è un testo importante, capace di affrontare tematiche moderne, universali. Il concetto della relatività delle certezze, della fragilità e dell’insicurezza umana che ha bisogno di forme fisse, stabili. Quello, più banale, relativo al fatto che guardiamo spesso i difetti altrui senza accorgerci dei nostri.
E ancora, la questione dello specchio rivelatore e allo stesso tempo falsificatore. Un elemento ricorrente nella letteratura otto-novecentesca (si pensi, ad esempio, all’importanza dell’oggetto in “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”).
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la frantumazione dello specchio dell'io
Un'inezia, una futile osservazione su un dettaglio che Vitangelo Moscarda non aveva mai notato, lo conducono in un abisso di inquietudine, in una dimensione fatta di specchi che riflettono centomila immagini diverse ma nessuna in cui possa riconoscersi. Il relativismo, l'incomunicabilità, la dispersione dell'io in un mare di incertezza che impedisce all'uomo di recuperare la propria identità come singolo, sono le tipiche tematiche novecentesche disseminate in tutto il romanzo e sapientemente affrontate da Pirandello con quella comicità grottesca, quell'umorismo intriso dell'avvertimento del contrario, che suscitano nel lettore un sorriso terribilmente amaro.
Vitangelo è oppresso dal peso delle sue nuove consapevolezze: nulla è reale, vive in un mondo fatto di illusioni, costruito appositamente dall'uomo per dare un senso ad un'esistenza che altrimenti si esaurirebbe nel nulla. Così siamo continuamente indaffarati, alla ricerca di un'occupazione che ci distragga dall'inesorabile scorrere del tempo, mentre la vita viene consumata dall'inganno su cui l'abbiamo fondata.
Se gli altri ci vedono in modo diverso da come pensiamo di essere, se non c'è possibilità di conoscere e di conoscerci per ciò che siamo come individui e per ciò che pensiamo come uomini razionali, cosa ci rimane? Un'incapacità di comunicare che ci rende alienati ed estraniati proprio dalla realtà in cui ci siamo ostinati a credere per così tanto tempo.
Nessuno può liberarsi della forma che gli è stata attribuita, essa ci segue come un'ombra e ci rende prigionieri in un'identità che non sentiamo appartenerci. Il flusso della vita è così bloccato in un'immagine, un'istantanea, un riflesso nello specchio che muta e varia non appena volgiamo lo sguardo altrove.
Nessuno può VEDERSI VIVERE, così ci limitiamo a catturare degli istanti nell'incessante movimento della natura, attimi che proprio nel momento in cui vengono catturati, divengono un simbolo di morte perché nulla che vive può fermarsi e quando ciò avviene, muore.
Vitangelo riflette, sperimenta, tenta di stravolgere la forma che gli è stata attribuita, quella figura di usuraio che sembra aver ereditato dal padre, comportandosi in modo insolito, diverso. Purtroppo è destinato a fallire, dimostrando che ormai non c'è più speranza, cambiare significa apparire pazzo agli occhi degli altri, che temono la novità e preferiscono pensare che essa sia sinonimo di delirio e follia; uniformarsi vuol dire invece tranquillità, esistere ma non VIVERE.
Che fare di fronte ad una realtà così tristemente irrecuperabile? Vitangelo, tra sé e i centomila che vedono le persone in lui, preferisce liberarsi di tutti, sceglie di non essere nessuno in particolare ma di entrare in simbiosi con la nuvola, con il filo d'erba, con la dimensione mutevole, ma viva, della natura. Si accontenta della "forma del pazzo" piuttosto che accettare quella dell'usuraio; non potendo scegliere, vittima delle opinioni altrui, meglio apparire folli e conservare almeno l' intenzione di non voler essere un altro ingranaggio di quel meccanismo artificioso e artificiale che chiamiamo esistenza, meglio distaccarsene per quanto possibile, e vivere in una solitudine che comunque non avremmo potuto evitare.
Pirandello è chiaramente figlio del suo tempo, profondamente influenzato anche dalle sue vicende personali, e per quanto sia triste pensare che non è poi così difficile riconoscerci in un mondo come il suo, io voglio pensare che ci sia ancora speranza. Viviamo in una realtà in cui l'immagine, la forma, dominano la nostra mente più di quanto facessero nei compaesani di Vitangelo, tuttavia ritengo che sia ancora possibile liberarsene. Costruiamo noi stessi e coloro che ci circondano in base alle nostre esigenze, attribuiamo giudizi affrettati in un mondo in cui essere apprezzati talvolta corrisponde a ricevere consensi su un social network e ignoriamo il significato più profondo della ricerca della nostra identità. Ciò non significa però che non si possa cambiare, magari rischiando di apparire folli come Vitangelo all'inizio, ma prima o poi, rimanendo fedeli alle nostre idee, credo che sia possibile raggiungere la perfetta sovrapposizione tra chi siamo, chi pensiamo di essere e ciò che sembriamo.
Così un romanzo che evoca tristezza può esortarci ad agire piuttosto che rinvigorire la nostra inerzia.
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Frammenti di identità
Considerato l’avvio della fortunata carriera teatrale non stupisce che “Uno, nessuno e centomila” giunga al termine della sua creazione soltanto nel 1926. Dapprima pubblicato a puntate sulla rivista “Fiera letteraria” e successivamente in volume, il tema cardine dell’opera è, come ne “Il fu Mattia Pascal”, l’insieme delle molteplici identità dell’io narrante riscoperte ed auto-analizzate con l’utilizzo della forma del monologo e dell’umorismo.
Vitangelo Moscarda, per gli amici Gengé, conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla sua condizione sociale; è ciò che si può definire un uomo normale. Eppure un giorno questa tranquillità viene turbata. Da cosa? Da un innocente commento della moglie sul fatto che il naso di Gengé penda leggermente da una parte. La molla scatenante del visibile difetto sul suo viso pone l’uomo nella condizione di rendersi conto che la sua percezione di sé stesso è ben diversa da quella che il prossimo ha di lui. Il dubbio prende il sopravvento, inizia la ricerca del suo vero essere, di quella proiezione di sé che corrisponda e combaci col suo animo. Il cambiamento è radicale: le sue azioni sono inspiegabili (sfratta una famiglia di affittuari per poi donar loro un’abitazione o ancora si sbarazza della banca ereditata dal padre), le sue riflessioni sono oscure e prive di logica. Vitangelo è impazzito. Altra soluzione non c’è. La moglie, spiazzata ed atterrita dal mutamento dell’uomo, dopo aver abbandonato il tetto coniugale decide di intentare un’azione legale per interdirlo. Perfino Anna Rosa, amica della sposa, che in un primo luogo resta fedele al protagonista giunge poi a sparargli, ferendolo ma non uccidendolo, perché intimorita dai argomentazioni dell’uomo. Rifugiatosi nell’ospizio da egli stesso donato alla città Vitangelo trova la pace perché solo nella fusione totalizzante col mondo della Natura egli può abbandonare tutte le “maschere” che la società umana gli ha imposto.
Composto da otto capitoli narrati dallo stesso Gengé l’opera si caratterizza e rende indimenticabile oltre che per la scissione dell’identità, anche dalla dimensione grottesca che analizza passo passo la progressiva follia dell’individuo evidenziandone gli effetti di straniamento e di distorsione nella rappresentazione di una realtà che ormai è costituita da frammenti privi di significato. L’impossibilità di interpretare in senso univoco tanto questa quanto l’identità soggettiva si rifà ai concetti di “forma” e “vita” e alla convinzione che la nostra esistenza materiale non sia altro che una “trappola” atta ad imbrigliare i nostri centomila alter ego. Cos’è la pazzia? Non è altro che uno dei tanti modi di stare al mondo. Nella consapevolezza di una vita che è incoerenza Vitangelo si interroga e ci interroga amplificando il meccanismo della narrazione ed il tema del doppio: per ogni domanda è necessario lo sdoppiamento tra qualcuno che interpella e qualcuno che risponde. Ma chi è l’interlocutore del nostro Gengé? Anche e non di meno il lettore stesso la cui prospettiva non è immune dalle riflessioni pirandelliane. Questo se da un lato è identificato all’interno dell’opera con affermazioni quali “si vede che non avete tempo da perdere”, dall’altro è simultaneamente invocato dal protagonista che lo sprona ad rivolgersi al proprio io, è spiato dal narratore che sembra abbandonare le pagine dell’opera per divenire carne e ossa, ed è infine utilizzato come specchio con cui il folle guarda all’esterno, sbircia, dialoga con la realtà.
E come il romanzo inizia senza prologhi e senza premesse, il capitolo finale rifiuta di dare conclusioni. Inevitabile la comparazione con il “Fu Mattia Pascal” alla base del quale esistono ben due presupposti di partenza. Il periodo storico è parte integrante della realizzazione dell’opera.
Buona lettura.
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- Sei personaggi in cerca d'autore,
- Il treno ha fischiato, la patente, la giara e gli altri racconti di Pirandello,
- L'esclusa,
- Così è (se vi pare),
- Enrico IV,
- Liolà
- Il giuco delle parti
etc etc...
L'affascinante autodistruzione del proprio Io
Totalmente ammaliata dallo stile e dalla mente pirandelliana a seguito della lettura "forzata" dalla mia insegnante di italiano del capolavoro "Il fu Mattia Pascal", mi sono recentemente lasciata travolgere da quest'altro romanzo estremamente geniale dello scrittore siciliano.
L'elemento sicuramente più importante del romanzo è senza dubbio la perspicacia dello scrittore nel cogliere una così necessaria crisi di identità che ogni uomo, prima o poi, vive nel corso della propria esistenza. Interessante è l'approccio, la realizzazione di una tesi ai limiti dell'assurdo e la successiva presentazione di diverse antitesi che vengono totalmente svalutate grazie ad ingegnose - e folli - argomentazioni.
Il doppio, già presentato attraverso il duo Mattia Pascal-Adriano Meis, diviene molteplice nelle "centomila" personalità che vengono realizzate dalle persone che circondano il protagonista Vitangelo Moscarda che, sentendo annullato e frantumato quell' "uno" che è lui per sé stesso, trasforma quei "centomila" in "nessuno" attraverso il solo uso della parola, lasciando il lettore sbigottito al pensiero che qualcun altro possa aver fondato una tesi di vita su tali sillogismi iperbolici che hanno quasi il sapore del paradosso.
La pazzia e la distruzione, presentati da Pirandello e dal suo personaggio Moscarda come le due alternative all'umana crisi di identità, proprio nel protagonista si fondono in una follia autodistruttiva portata alle estreme conseguenze e che culmina proprio alla fine del libro con una conclusione che, allo stesso tempo, darà delle risposte e farà nascere altre domande.
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Un tassello immancabile
Quest'opera è forse la più famosa di Pirandello e senza dubbio la più complessa ed interessante.
Il tema della ricerca dell'Io è presente e analizzato in ogni sua componente, per cui la lettura non è delle più semplici, se l'intento è quello di comprenderla fino in fondo.
La trama di per sé è molto semplice e il registro comico utilizzato soprattutto nella prima parte del romanzo rendono la lettura molto piacevole, ma la semplicità che si manifesta è fittizia, nasconde significati e concetti molto complicati, che attingono a piene mani dalla psicanalisi dalla quale Pirandello era affascinato.
Il protagonista si trova a chiedersi chi sia davvero, quello che lui sente di essere, ma che non può vedere vivere, o uno dei tanti che le persone vedono?
L'argomento è trattato in un modo così delicato, ma così crudo da essere interiorizzato e compreso da chiunque, anche se è necessaria una seconda lettura per cogliere ogni sfumatura di un tema così complesso.
Ciò che si respira è un'angoscia profonda che avviluppa Vitangelo Moscarda, il quale all'improvviso si rende conto di essere chiuso in una gabbia, di non essere libero, ma schiacciato da sovrastrutture e costretto in un abito che non è il suo, ma che obbligato a vestire.
Basta poco per cogliere la vita in modo diverso e ripensare tutta un'esistenza e di colpo quello che prima appariva giusto diviene sbagliato, che che prima era semplice diviene pesante, così quel nome legato in modo indissolubile al padre usuraio diviene non più un viatico per una vita bella e semplice, ma un fardello che impedisce di esprimere la propria essenza, la quale potrà essere libera solo sovvertendo tutti i piani e vivendo nel modo più spontaneo anche se questo vuol dire pagare un prezzo molto alto.
La modernità che contraddistinguo questo autore non manca neppure in questo romanzo, che utilizza uno stile fresco e un lessico molto semplice.
Per lo più è un lungo monologo che ricorda una rappresentazione teatrale, infatti spesso il protagonista si rivolge in modo diretto al lettore ponendo domande e dubbi.
Leggendo si riflette, ci si rende conto che il novecento è stato un secolo davvero incredibile, per come i temi di cui ancora oggi discutiamo, l'io e il subconscio, ma anche la difficoltà di apparire per quello che siamo senza maschere, fossero già presenti e il vivace fermento culturale si respirasse in ogni parte d'Italia.
Pirandello apre senza dubbio le porte a quello che poi sarà lo stile prevalente del futuro, con quel periodare semplice e quelle frasi corte, immediate, ritmiche, ma che le chiude al tradizionale romanzo fatto di ricerca stilistica ed epicità.
Un tassello che non può mancare nel bagaglio culturale di nessun lettore.
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Il capolavoro della crisi dell'uomo pirandelliano
Sono di parte, perché amo Pirandello, ma penso si possa dire in maniera abbastanza oggettiva che questo è un capolavoro assoluto.
La trama serve appena appena, per esporre meglio le idee della poetica pirandelliana. Mentre Vitangelo si guarda allo specchio, la moglie gli fa notare che il suo naso pende verso destra; crolla così il mondo di certezze di Vitangelo (e anche il nostro, appena leggiamo questo romanzo) ed egli si rende conto di non essere come si era sempre visto; o meglio, di non essere per gli altri quello che egli è per lui. Si rende conto che ogni persona che conosce vede un "Moscarda" diverso, capisce di non avere un'identità, ma "centomila" e tutte diverse e parimenti reali. Ciò genera in lui un senso di angoscia, di orrore e decide di iniziare ad uccidere queste identità affinché tutti lo vedano allo stesso modo. Comincia a compiere gesti a dir poco strani, come quello di donare la casa ad un vagabondo per non essere più etichettato come usuraio, ma nessuno capisce la sua crisi e viene considerato pazzo. Una volta ribellatosi alle convenzioni sociali, non può far altro che allontanarsi da tutti e rifugiarsi in un posto dove può rinascere ogni giorno come nuovo.
A mio avviso questo è il capolavoro massimo di Pirandello, non l'unico sicuramente, ma quello dove tutti i suoi temi vengono trattati ed esposti in maniera migliore: il tema della crisi dell'identità, della relatività - cioè una visione soggettiva di tutto -, del contrasto tra vita e forma, e dell'umorismo. A tratti è abbastanza filosofico e difficile. È sicuramente un romanzo che ti cambia la vita; cambia il tuo modo di vedere te stesso e gli altri.
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Un grande classico.
n una torrida domenica di luglio ero andato in libreria per cercare qualcosa da leggere di non troppo pesante, visto che già la temperatura infernale non era d'aiuto, quando, passeggiando per la libreria, vedo "Uno, nessuno e centomila" ad un euro, e decido così che i miei buoni propositi vadano a pesca. Lo prendo, e decido così di fare questo bel salto temporale, visto che passo da un linguaggio contemporaneo (l'ultimo libro letto era "È così che la perdi" di Junot Diaz) e tornare ad un linguaggio sicuramente più "ostico" come quello di inizio '800, ero però molto incuriosito da questo romanzo che avevo letto al liceo e di cui ricordavo poco e nulla, il prezzo (0,99) ha fatto il resto. "Uno, nessuno e centomila" racconta della storia di Vitangelo Moscarda, ricco uomo di provincia (aveva ereditato una banca dal padre) che all'improvviso, dopo che la moglie gli fa notare un piccolo difetto del suo naso, inizia a vedere il mondo in maniera diversa da come l'aveva vista fino a quel momento, cominciando a pensare che l'immagine che la gente ha di lui, non è quella che lui pensa che essi abbiano, e questa immagine cambia da persona a persona, cosicché non esiste più un solo Moscarda, ma questo è differente da persona a persona. Il protagonista inizierà così una battaglia verso tutte le persone che lo circondano per dimostrare questa tesi, finendo non solo per non essere capito, ma addirittura finendo rinchiuso in manicomio, soluzione che il protagonista alla fine accetta di buon grado essendo questa l'unica soluzione possibile per lui. Come saprete questo è uno degli ultimi romanzi dello scrittore siciliano, e forse quello che meglio esprime il concetto pirandelliano del relativismo. Già il titolo ci dice tutto: "uno", l'immagine che ognuno ha di se stesso, "centomila" l'immagine che tutte le persone intorno a noi hanno di noi, "nessuno", la scelta finale del protagonista, "meglio nessuno che centomila". È un romanzo non facile, ci sono lunghi monologhi e la scrittura non è scorrevolissima, ma il pensiero che c'è dietro è stupendo, Pirandello vuole dirci che la visione che noi abbiamo di noi stessi e quella che la gente ha di noi cambia da persona a persona e cambia continuamente, perché nulla è statico ma tutto è in continua evoluzione, così come lo è la vita. E la sua visione di se stesso è diversa da quella che ha la moglie di lui, o da quella che ha di lui il suo migliore amico. Fa di tutto per spiegarlo a chi gli sta intorno (anche con esperimenti bizzarri) ma alla fine riceve solo incomprensione e viene trattato da pazzo, arriva così alla estrema conclusione di farsi rinchiudere in manicomio, conclusione che accetta di buon grado essendo per lui l'unica soluzione possibile, in manicomio diventa infatti un signore nessuno, non viene etichettato e non ha nome, cosa che lui attribuisce a chi è vivo, chi invece è morto ha bisogno di nomi, come infatti avviene negli epitaffi. Un romanzo complesso ma allo stesso tempo unico, che ha un significato tanto profondo quanto attuale, un classico immancabile in ogni libreria.
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Qual è il mio volto?
Tutti abbiamo letto, forzosamente a scuola, e magari studiato almeno una volta questo grande premio Nobel della letteratura italiana.
Luigi Pirandello.
Io stesso l'ho affrontato e letto alcuni dei suoi romanzi nel corso degli studi alle superiori ma non avevo mai letto per intero quella che , forse, è la sua opera più complessa e travagliata: " Uno, nessuno e centomila ".
Recentemente ho avuto intenzione di farlo, volendo affrontare un classico non troppo voluminoso e ne sono rimasto soddisfatto.
Premetto che questo non è un libro di facile lettura poiché, sebbene di sfondo vi siano le bizzarre vicende di Vitangelo Moscarda, l'impostazione seguita da Pirandello è quella di un racconto che vuole essere un piccolo e a tratti romanzato trattato filosofico. La narrazione è infatti impostata per sviscerare la più celebre delle tematiche pirandelliane: chi sono io? chi siamo noi?
Il protagonista se lo chiede dopo aver scoperto di avere il naso storto, grazie ad una osservazione della moglie, nonostante egli avesse sempre pensato che fosse diritto.
La risposta che viene fornita è sconcertate: io sono solamente ciò che voglio vedere in me, e, allo stesso modo, per gli altri io sono solo ciò che loro vogliono vedere in me.
Come io vedo me stesso non corrisponde a come gli altri vedono me.
Il mio io è frammentato, c'è il mio io così come lo ha visto e conosciuto Tizio, così come lo ha visto e conosciuto Caio e così via.
Ognuno di noi pensa di conoscersi ma in realtà conosce solo la rappresentazione che sceglie di darsi.
Ed è questo a rendere incapaci gli uomini di comunicare realmente tra loro, nessuno riesce mai ad entrare davvero in contatto con l'altro, fermandosi inevitabilmente alla rappresentazione che si dà del prossimo.
Pirandello descrive magistralmente una visione sconcertante e drammatica della vita con uno stile brillante e acuto.
C'è da segnalare che la lettura non è sempre scorrevole, oltre alla tematica ciò è dato anche da un italiano che, per quanto perfetto, non è più contemporaneo.
Si tratta di certo di un capolavoro da leggere.