Storia di una capinera
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Storia di una capinera
La capinera ritratta da Verga nel 1869 è la giovane Maria, costretta ad una monacazione forzata per volere della famiglia.
Una consuetudine aberrante che ha attraversato secoli per arrivare anche a tempi molto vicini a noi.
Proprio in considerazione di questa “pratica” detestabile e foriera di mali, è possibile pensare che l'autore, nell'elaborare il lavoro, abbia voluto fondere un messaggio dal valore sociale e morale alla pienezza introspettiva e di sentimenti dettata da una netta influenza romantica.
La narrazione in forma epistolare, sfocia in un monologo di un'intensità stupefacente, dove la voce della sventurata Maria si racconta, si illumina, si infiamma, si smorza.
Le parole della protagonista rispecchiano fedelmente la sua anima, sono dapprima sussurri di speranza, poi diventano grida di dolore.
Quello che la penna dell'autore riesce a rappresentare è il supplizio di una donna,
raggiungendo un grado di immedesimazione e realismo graffiante; la componente romantica presente in questo romanzo, contribuisce a caricare di passione e di struggimento queste pagine, culminando nelle fasi di smarrimento e di annientamento della giovane.
Anche Maria al pari di protagonisti posteriori del Verga può essere considerata una “vinta”; schiacciata dalla vita e da un destino crudele, chiusa in una gabbia scelta da altri ad osservare il mondo attraverso le sbarre, un'anima repressa, svuotata dai sentimenti, privata della luce di un sorriso e di un abbraccio.
“Storia di una capinera” è un romanzo pienamente riuscito che ancora oggi, trasmette emozioni forti e nette, provocando una sensazione di soffocamento nel lettore di pari passo con il consolidarsi della clausura della piccola capinera e dell'affievolirsi della sua voce.
Una lettura lontana dalle caratteristiche stilistiche del Verga verista, eppure meritevole d'essere conosciuta e assaporata.
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Tragico destino
Il romanzo è di tipo epistolare e tratta la tragica esperienza di Maria, una giovane costretta a passare in convento gran parte della sua vita. La prima esperienza con il mondo fuori dalle mura del convento è descritta con la genuinità di chi guarda con curiosità qualsiasi cosa per la prima volta. La protagonista tratteggia la natura e il mondo che la circonda con sorprendente candore, con gli occhi tipici di chi riesce ad apprezzare le meraviglie del creato proprio perché non detiene la possibilità di viverle come vorrebbe. Insieme alla tenera meraviglia per il mondo circostante possiamo conoscere i motivi del turbamento dell'animo di Maria: il conflitto con la famiglia, il primo innamoramento. Il ritorno al convento impone a Maria di far tacere la sua anima, che si consuma lentamente, insieme ai suoi desideri.
Romanzo importante e dal contenuto forte. Ho trovato la lettura molto difficoltosa nonostante abbia apprezzato la trama, forse a causa dell'impostazione epistolare del romanzo e del fatto che fosse quasi totalmente privo di un altro punto di vista rispetto a quello di Maria.
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Un Verga romantico ma tecnicamente naturalista
“Il testo contiene spoiler”
La struttura del racconto, narrato in forma epistolare ,è perfetta per analizzare il progressivo mutamento psicologico della protagonista che si snoda vorticosamente e di pari passo col ritmo degli avvenimenti che, pur se non provocati assolutamente dalla stessa, finiranno per travolgerla in una sorta di turbinio di instabilità e consunzione a livello emotivo oltre che fisico.
Maria è una giovane educanda. Dall’età di 7 anni vive in convento dopo la morte della madre e le nuove nozze del padre, modesto impiegato , con una donna particolarmente benestante. Destinata a diventare monaca , si ritrova improvvisamente all’età di vent’anni , a vivere un periodo di vacanza e spensieratezza presso la villa di campagna dei genitori a Monte Ilice vicino Catania. In città, infatti, imperversa il colera e per ragioni di sicurezza e prevenzione, la Direzione del convento aveva preferito allontanare le novizie onde scongiurare i pericoli di un possibile contagio.
È così inizia la narrazione, nelle lunghe lettere indirizzate all’amica Marianna, del profondo senso di libertà, leggerezza, stupore, gaudio giovanile che Maria prova per la prima volta durante le lunghe passeggiate nel castagneto confinante con la proprietà di famiglia, nell’osservare incantata il panorama delle valli che circondano la cima dell’Etna,nell’assaporare le sensazioni di allegria per la vicinanza agli affetti familiari, di curiosità e speranza che l’atmosfera della vita vissuta “fuori” suscita in modo così improvviso è avventato rispetto ai ritmi melanconici e quotidianamente cadenzati della rigida esistenza all’interno del chiostro :“bisognava venire quì in campagna fra i monti, ove per andare al l’abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcate muricciuoli ove non si ode ne’ rumor di carrozze nè nè suon di campane, nè voci di estranei, di gente indifferente” ...“ da tutte le porte , da tutte le finestre si vede la campagna, i monti, gli alberi, il cielo è non già muri, quei tristi muri anneriti!”
Maria sembra acquistare vigore via via che prende coscienza della sua essenza umana più vitale, più terrena , almeno fino a quando non si accorge di non saperne gestire gli aspetti più imponderabili come l’amore, la passione ed il lacerante senso di colpa derivante dall’incerta attitudine a compiere delle scelte per maturata convinzione personale piuttosto che per compiacimento sociale e quieto vivere familiare. Da questo momento di smarrimento il lettore si ritrova letteralmente trascinato nel ritmo sincopato dei periodi sempre più brevi che Maria compone nelle sue lettere e nelle quali quello che all’inizio del racconto poteva sembrare un confronto con un interlocutore muto diventa sempre più un mesto e tortuoso monologo interiore colmo di disperazione senza via d ‘ uscita da quello che più che un ingiusto destino sembra trasformarsi in una crudele condanna .
Maria, provata sia nella mente che nel corpo, si arrovella nel cercare di comprendere perché mai un sentimento d’amore così totale per un uomo possa contrastare quello verso Dio: “ Io amo il mio peccato!” Vuole ribellarsi ma rimane strozzata da dolorosi scrupoli. Non un conforto, nessuna speranza, il buio. Gli spasimi romantici e passionali della monaca innamorata cedono il passo ad esclamazioni forsennate d’ agonia che scorrono come un fiume verso la foce.
La tramatura del racconto epistolare , utilizzato non a caso, svela un Verga tardi romantico proteso a sperimentare il percorso psicologico della protagonista sovrapponendolo di pari passo col percorso mutamento fisico , con metodi e ritmi che ne rivelano tecnicamente le sperimentazioni del naturalismo francese ma mostrano altresì una resa più genuina , poco forzata , meno fittamente scientifico descrittiva, drammatica e struggente ma senza esagerazioni; anzi, nel trascinamento verso il baratro della protagonista, il lettore , empatico verso i dolori irrisolti della capinera ne comprende le ragioni che riflettono una società crudele, ipocrita che nella coltre ovattata delle proprie meschinità non offre alla protagonista alcun strumento di analisi , sviluppo e comprensione della condizione vissuta contro la quale non è opponibile ne’ un sentimento compiuto di ribellione , nè di rassegnazione in quanto manca una compiuta presa di coscienza individuale.
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Dio mio!C’è un essere più infelice di me sulla ter
**Il testo contiene SPOILER**
Catania. 1854
Un epidemia di colera trascina con sé la città e Maria, giovane educanda, ritorna nella casa paterna in campagna presso il monte Illice per trovare riparo.
Affogata piacevolmente nel sogno bucolico Maria, per la prima volta, si bagna le labbra di libertà, assapora il sole e il canto degli uccelli, i picnic e le passeggiate nei campi sono affrontate con l’entusiasmo e la scoperta di un infante ma la malattia da cui fugge la insegue sotto diverse spoglie, quella dell’amore proibito.
Il romanzo epistolare si dispiega su una serie di scritti all’amica Marianna anche lei monaca ma segnata da un diverso destino. Il lettore non viene mai a conoscenza delle risposte di Marianna se non attraverso le sue parole alludendo ad una fusione fantastica tra le due figure. Maria si guarda allo specchio e vede Maria(nna), tutto ciò che desidera sta in quelle lettere di troppo nel nome, senza occhi la differenza l’acceca ma allo stesso tempo vi trova conforto.
Le prime pagine si aprono alla nuova vita della ragazza che passa le sue giornate con il cuore leggero e spensierato ritrovando l’adolescenza negata dall’arida vita monacale ma la pace è spezzata dall’incontro con Nino, il figlio maggiore dei vicini di casa ed unico suo approccio con l’altro sesso. Nino mostra un interesse tenero per Maria, la cerca quando non c’è, le offre il suo amore timido e la incita a ribellarsi al suo destino…Il passo più intenso del libro è quando Maria danza per la prima volta: “ ..quanto soffersi Marianna,..eppure..allorché egli mi prese per la mano..allorchè mi passò il braccio intorno alla vita mi sembrò che la sua mano ardesse,che mi bruciasse il sangue in tutte le vene che mi facesse scorrere un onda di gelo fino al cuore..ma allo stesso tempo parvemi che mi confortasse…”. L’eccitazione nata dal sentimento è assopita da costanti sensi di colpa che mettono in crisi la già vacillante vocazione spirituale: ”se sapessi Marianna, se sapessi il peccataccio che ho fatto mio Dio come avrò il coraggio di dirtelo, a te solo lo confesserò ma all’orecchio veh! non mi guardare in viso..abbracciami e ascolta..” Ascolta.
E’ esattamente nel momento di maggiore consapevolezza del sentimento che la realtà l’ investe con la sua mano gelida. Il colera è sparito, il convento l’aspetta e la clausura l’invita a sedersi sulle sue gambe stanche. Maria non trova la forza di alzarsi, di sollevarsi contro l’ingiustizia della sua condizione e piomba in uno stato di cupa infelicità..”Dio mio! C’è un essere più infelice di me sulla terra?..”
La cerimonia di iniziazione alla clausura frantuma ogni speranza, il taglio dei capelli rituale la relega per sempre in un luogo di emarginazione. Per uno scherzo beffardo Nino sceglierà la libertà nella donna e la donna nella vita stessa.
Da questo punto in poi del romanzo le parole di Maria diventano opprimenti, paranoiche, folli, sintomo di un dolore sempre più profondo.
Le lacrime di gioia che colano sulle prime lettere che scrive a Marianna si trasformano in veleno amaro che corrode tutto: la giovialità, l’energia, la dolcezza e infine l’anima che si spegne tra le mura grigie del convento.
Il romanzo, denuncia di una pratica diffusa nel XIX secolo è in realtà la storia intima di una adolescente. Verga non commuove quanto immedesima il lettore in questa piccola donna fragile e piena di vita. L'immagine della capinera impossibilitata a migrare è la realizzazione poetica dello stile di Verga, crudo e sensibile nel delineare personaggi all'interno di un contesto storico difficile ma allo stesso tempo attuale. Maria siamo noi.
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Strazio nel convento
Il romanzo è ambientato nella Sicilia, precisamente nel catanese, a cavallo della metà ottocento. Protagonista è la giovane Maria che, a causa di avverse vicissitudini familiari, è costretta in età pre-adolescenziale a diventare, in maniera coatta, novizia in convento. Prima ancora di prendere i voti, a causa di un’epidemia di colera, la ventenne Maria viene temporaneamente allontanata dal convento e fa ritorno nella famiglia dove è nata ma totalmente cambiata dopo che il padre si è risposato e avuto altri figli; in questo nuovo conteso inizia una corrispondenza epistolare con una sua compagna di convento, Marianna, dove racconta la sua vita a contatto con questa nuova famiglia. Maria manifesta il proprio affetto verso i fratellastri e la matrigna ma non è ricambiata; la vicenda continua con l’innamoramento platonico con un giovane vicino di casa, ma l’idillio dura poco perché con l’estinguersi dell’epidemia Maria è costretta a far ritorno in convento e a intraprendere la strada che conduce alla presa dei voti religiosi e alla naturale conseguenza di rinuncia a una vita di amore verso e con la persona amata. Questo dispiacere farà ammalare Maria il cui epilogo della sua storia sarà tragico e sofferente, colmo di alienazione fisica e psicologica.
A similitudine di altri romanzi scritti da altrettanti famosi scrittori dell’800, anche il presente è un atto di denuncia contro l’ingiustizia sociale nei confronti della condizione femminile dell’epoca privata della sua libertà di decidere del proprio destino e spesso assoggettata a uno stato di inferiorità da cui si determinava la vita coatta all’interno di un chiostro. Infatti prendere i voti era una sorte inflitta alle ragazze meno abbienti che non possedevano una cospicua dote e di conseguenza avevano difficoltà a trovare un degno giovane con cui sposarsi.
La tormentosa e tragica fine di Maria si può, appunto, paragonare alla capinera rinchiusa in gabbia e privata della naturale libertà di volare nella natura.
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Coloro che non hanno voce...
Una volta esistevano costumi ed usanze incivili: le famiglie ricche e di origini altolocate destinavano uno dei figli (o delle figlie) alla chiesa senza che costoro fossero d'accordo.
Per esigenze di patrimonio, per esigenze di potere, per accordi di tipo gerarchico, per scopi semplicemente devozionali o puramente egoistici.
La storia di Maria, in questo libro di Verga, si snoda in forma di diario...
Nel diario ella si confida con un'amica svelando le emozioni che la colpiscono, i desideri che la pervadono.
Vorrebbe amare e sposarsi ma non può.
La volontà del padre ha deciso altrimenti per lei.
Dovrà trascorrere la sua vita in convento, come figlia obbediente a un destino che non ha scelto, ma che le è stato imposto con prepotenza dal padre.
In questo tragico destino, in questa vicenda che tocca profondamente l'animo del lettore e che commuove, Verga dona voce a coloro che non ce l'hanno, a coloro che per secoli, sono rimasti muti e agghiacciati da una sorte avversa, imprigionati nella rete dei genitori, che con crudeltà hanno deciso al posto loro.
A che serve la vita in una condizione forzata, coatta di prigionia fisica e spirituale?
E' vero si può morire per fame, per malattia, ma anche per non essere in grado di esprimere il proprio desiderio di amare e di non poterlo appagare.
Consigliato.
Saluti.
Ginseng666
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Intrappolata in una me che non sono io
«Vorrei essere bella come ciò che sento dentro di me.»
Inserito in un contesto ottocentesco, "Storia di una capinera" si guadagna senza dubbio una candidatura al mio libro preferito in assoluto.
Sebbene inizialmente sia difficile riuscire a rapportarsi con lo stile epistolare unilaterale, la lettura delle riflessioni dell'ingenua "capinera" scorre veloce, anche grazie ad una precisa spartizione temporale realizzata dall'autore.
Ciò che lascia senza fiato e che invoglia il lettore a lasciarsi travolgere completamente dalla lettura, è propria la purezza che emana la protagonista Maria in ogni sua sfaccettatura: dire che il libro parla d'amore è a mio parere un po' riduttivo; piuttosto, oserei dire che il fulcro portante della narrazione è proprio la genuinità e l'eleganza di una giovane educanda d'altri tempi che, nella sua tristezza e totale resa alle dure leggi della società - e della povertà -, è capace di un sentimento così nobile come l'amore, cosa che è certamente rara da trovare negli ultimi tempi.
La sorpresa, la semplicità e la meraviglia esprimono la più commovente delle tenerezze e portano, in qualche modo, a credere ancora una volta nell'amore puro ed incondizionato, a prescindere da ogni esperienza negativa che si possa aver provato. Queste sensazioni dominano l'atmosfera, che assume un significato quasi magico, e sono alternate a piccole scene quotidiane che irrompono crudelmente nel microcosmo di Maria, quasi come se si volesse sottolineare la differenza - o la superiorità - di tali sentimenti rispetto ai futili e banali problemi sociali e ai meschini espedienti vantaggiosi, che tuttavia fanno capolino solo timidamente, quasi con timore rispetto alla magnificenza dell'amore.
Per concludere, credo che un piccolo accorgimento al titolo sia d'obbligo.
La metafora operata da Verga, che lega la protagonista e una capinera, è una delle più sublimi della letteratura italiana: si soffre d'altro, oltre che di fame e di sete.
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Da leggere, comunque
Opera giovanile e preverista dello scrittore siciliano, riemersa dai depositi della letteratura minore grazie alla versione cinematografica di Franco Zeffirelli, questo breve romanzo epistolare merita comunque che gli si dedichino un paio d’ore di lettura. O più, a seconda della pazienza del lettore e del suo grado di tolleranza rispetto a certe scivolate nel melodramma.
In questo romanzo che l’autore scrisse a Firenze nel 1865 si avverte ancora un attardarsi del romanticismo più sentimentale, ma già si fanno strada le istanze che caratterizzeranno gli anni milanesi, quelli scapigliati per intenderci, nella denuncia delle convenzioni e delle ipocrisie borghesi, nello scandalo e nell’intonazione morbosa che acquista l’evoluzione di una passione che si fa assoluta, fino ad avere la meglio sui timori religiosi e a degenerare in follia. Oppure possiamo osservare il farsi del progetto narrativo che porterà nei Malavoglia all’ “eclissi dell’autore” dietro il personaggio nell’assoluta prevalenza del punto di vista della protagonista, che è anche l’io narrante attraverso le lettere che ella invia all’amica Marianna, sua compagna di prigionia nel monastero di Catania da cui l’epidemia di colera che ha colpito la città l’ha brevemente e illusoriamente emancipata. In nome di questa professione di impersonalità, Verga non esprime valutazioni morali sulla peraltro innocente passione amorosa che induce Maria a desiderare di non essere suora, senza che questo desiderio osi trasformarsi in ribellione, ma solo in un martirio della coscienza di cui ella sarà l’unica vittima. Ben diverso dal giudizio di aperta riprovazione che Manzoni aveva lasciato trasparire nelle famosissime pagine dedicate alla “sventurata” che rispose alle lusinghe di un amore in verità ben più colpevole!
Neppure però dobbiamo aspettarci una qualche forma di denuncia di un malcostume o un proposito di rivendicazione dei diritti di genere: per la sventurata Maria nessuna alternativa è possibile tra l’obbedienza ad un voto voluto da altri se non l’esecrazione sociale conseguente ad una impensabile trasgressione. Di qui la nevrosi e la morte come unica via di scampo. Il mondo visto con gli occhi di Verga è un mondo plumbeo, su cui pesa la cappa delle leggi, più vincolanti di quelle scritte, delle consuetudini sociali, a loro volta imprescindibili da quelle del profitto (anche la felicità in amore è legata al conto in banca e il premio della felicità familiare è riservato solo a quelle che dispongono di una dote adeguata).
Eppure uno spiraglio di luce ancora c’è, ancora si respira aria buona in questo romanzo, ed è dove le leggi e i vincoli della buona società non contano, in quel capanno del castaldo dove la miseria consente ancora una vita familiare fondata su affetti veri: è il mito del “buon villano”, destinato a tramontare anch’esso quando ‘Ntoni Malavoglia se ne andrà per il mondo a cercar fortuna.
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La monaca che ama, ma non pecca
“Se sapessi, Marianna, se sapessi… il peccataccio che ho fatto!”
Maria, la giovane protagonista di questo accorato epistolario, scrive queste parole alla sua amica più fortunata, a cui la famiglia, e più ancora Dio, ha concesso di poter vivere al di fuori della vita claustrale con il proprio amore.
Maria, una piccola anima predestinata alla clausura, confessa di aver commesso un peccato abominevole: aver danzato con Nino, quel ragazzo che sposerà la sorella capricciosa ed a cui tutto è concesso, ma che, mentre appoggiava la sua mano delicatamente sulla sua schiena per sostenerla durante il ballo, ha trasformato la sua pelle diafana, intonsa ed innocente in una congerie di sentimenti mai provati. La vita, con le sue emozioni primarie fatte di desiderio, appagamento o semplicemente di voglia di affetto, si è prepotentemente appropriata del cuore di questa dolce fanciulla.
E questo passaggio dalla clausura, non tanto fisica quanto di emozioni, alla libertà del cuore, che si anima di emozioni forti che vanno dal riso, alla felicità al pianto disperato, è sapientemente utilizzato da Verga anche nel linguaggio, per cui, dalle prime lettere lineari e serene in cui si indugia a descrivere i pittoreschi luoghi siculi che la protagonisti dopo anni rivede, si passa gradualmente ad uno stile accorato, a delle parole incalzanti che trasudano angoscia in un climax ascendente, indicativo del suo parossismo emotivo, che si traduce in una serie di parole, e poi di fonemi senza senso compiuto, aggrovigliate e dal significato turpe.
La vicenda è nota: questo libricino che si legge nell’arco di un pomeriggio riprende il topos classico della monacatura forzatura: basti pensare al famosissimo esempio della Gertrude manzionana, ma Verga, con vena realistica, ribalta il punto di vista del lettore nei confronti della suora.
Se, infatti, Gertrude da vittima si trasforma in carnefice rinnegando il voto di castità fino a spingersi all’odioso crimine dell’omicidio pur di conservare la propria infedeltà a Dio, Maria nasce, cresce e muore da vittima. In questo senso il proemio di questa operetta che si apre con la figura metaforica della capinera è indicativo dell’obiettivo perseguito dall’autore: mettere a confronto la realtà del vincente nella storia dell’uomo, personificato nell’amica Marianna che ascolta da lontano il pianto disperato della poveretta richiusa, e quella del vinto, che è evidentemente Maria.
Non si può provare indifferenza per questa creatura, che ha conosciuto l’amore, ma non l’ha potuto vivere!
Lo consiglio a tutti.
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settembre 1854
Tutto ha inizio...
Un'atmosfera funerea avvolge la città, l'epidemia è giunta alle porte di Catania, chi può fugge cercando di sottrarsi al contagio.
Il colera, da sempre veicolo di morte, paradossalmente sarà una "benedizione" per Maria, una delle tante "spose del Signore", la quale finalmente potrà scostare quel velo di "tristezza che assaliva in convento tutte noi povere recluse". Il convento sarà la sua prigione. Ogni emozione repressa, da quei "muri claustrali al di sopra degli alberi" dove nemmeno i fiori riescono a sbocciare privati dai raggi solari e dall'aria, cui unico intento è di separare le novizie dal resto del mondo, sarà risvegliata diffondendo nell'aria una nuova sensazione, cui daremo il nome di libertà. Come una bambina, si farà prendere dall'entusiasmo per ogni meraviglia del Creato, che incrocerà il suo sguardo dove tutto "è bello: l'aria, la luce, il cielo, gli alberi, i monti, le valli, il mare!" e la constatazione dell'esistenza di un mondo non più grigio bensì caratterizzato da una miriade di colori farà da preludio ai suoi turbamenti.
Maria, lasciata sola con le sue ansie, i suoi sensi di colpa... che nessuno può o non vuole capire, allevierà la sua impotenza a modificare il corso della vita, attraverso delle lettere/confessioni indirizzate, con la complicità di Filomena, all'unica amica Marianna, conosciuta in convento ma con un destino diverso.
Ed è un reiterare della 'LIBERTÀ NEGATA' in tutte le sue sfaccettature: Di amare, di gioire, di vivere...
Inaccettabile è il comportamento della matrigna, che con il suo anaffettismo "ragazza mia, se l'aria della campagna ti fa male, tuo padre non insisterà a tenerti qui, e ti permetterà di ritornare al tuo convento" si discosta da qualsiasi archetipo di genitore amorevole.
Come non far caso all'immobilismo del padre che "trova sempre nella sua cecità provvidenziale mille ragioni per illudersi e non vedere lo stato in cui sono". Ispirato a un fatto reale, Verga ci offre una lettura con tanti punti di riflessione.
Ancora una volta assistiamo inermi al trionfo dei 'vinti' dove la rassegnazione regna sovrana.
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E’ necessario, nacqui monaca
Catania, 1854. Maria è una giovane novizia di vent'anni, entrata in convento quando ne aveva appena sei, in seguito alla morte della madre. L'unico mondo che conosce è quello freddo e buio del monastero, la sua vita è fatta soltanto di doveri e rinunce, studio e preghiera. Ha dimenticato cosa sono le carezze, gli abbracci, le parole amorevoli dei genitori, non sa cosa significhi ridere, giocare, divertirsi. Un giorno il dilagare del colera le dà la possibilità, seppur momentanea, di uscire dalle mura che la tengono prigioniera, di varcare la soglia del convento e riscoprire un mondo che non ricordava più, l'aria aperta, le passeggiate, i fiori, l'erba, i boschi, gli animali, la musica, i balli, il calore di una vera casa e di una vera famiglia. Conosce l'amicizia, la libertà e quasi inevitabilmente anche l'amore. Purtroppo il destino che gli altri le hanno imposto non prevede niente di tutto ciò e alla fine dell’epidemia una vocazione che non ha mai sentito sua la richiama in convento a servire un dio che si ritrova ad amare soltanto per paura e per dovere. Ma si può accettare di seppellirsi vivi dopo aver conosciuto la bellezza della vita? Attraverso le lettere che la povera protagonista scrive alla sua amica ed ex compagna Marianna conosciamo i tormenti, le paure e la rabbia di una donna condannata ad una vita da reclusa senza aver commesso alcuna colpa, di un’animo dolce e delicato violentato da un mondo ipocrita e insensibile. Ma quella che un Giovanni Verga giovane ed intimista ci racconta non è soltanto la tragedia di Maria: il destino della protagonista è quello di tantissime altre ragazze vittime della cosiddetta “monacazione forzata”, un’usanza terribilmente crudele che ha sottomesso per secoli milioni di donne in nome di squallidi interessi e false devozioni. …“Maria”, mi diceva, “perché andrete in convento?” “Lo so io, forse? E’ necessario, nacqui monaca…