Storia della colonna infame
Letteratura italiana
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V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò
Durante lo studio per la preparazione della parte dedicata alla peste dei “Promessi sposi”, il Manzoni si ritrovò fra le mani un processo legato alla storia della Colonna infame. Voglio proprio iniziare questa recensione con la premessa del Manzoni stesso:
“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagato la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di questi sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena”.
L’estratto del processo giunse fino al Manzoni perché fra i vari accusati ci fu anche una persona importante che fece stampare le sue difese e una parte del processo.
Il Manzoni ripropone una vera e propria telecronaca dei fatti, correlata da parti in corsivo estratte direttamente dallo stampato.
Quello che colpisce, oltre agli estratti che mostrano come “l’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e tradimento”, una vera e propria caccia alle streghe che si trasforma in una caccia agli appestatori.
Nella “Storia della Colonna Infame”, sono molteplici i collegamenti con Verri, Beccaria e Farinacci. Quello che differenzia il Manzoni da questi altri grandi nomi è l’umanità, la psicologia e il sarcasmo che il milanese inserisce nella sua storia.
Si parte si da una base storica, ma la differenza sono i commenti e gli interventi dell’autore che fra le altre cose pensa anche a tutto il peso delle ripercussioni che un processo del genere ha portato.
“Storia della Colonna Infame” lo consiglio agli appassionati di storia giuridica che come me hanno apprezzato Beccaria e Verri e anche a chi volesse leggere un Manzoni dedito a far chiarezza e giustizia.
“Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera”.
Buona lettura!
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L’infamia non dei condannati, ma dei giudici
Nel corso del lavoro preparatorio dei Promessi sposi, consistente nella ricerca di documentazioni sui fatti dell’epoca in cui si svolge la vicenda di Renzo e Lucia, Alessandro Manzoni s’imbatté in incartamenti che parlavano di un processo intentato nel 1630 nei confronti di due uomini accusati di propagare la peste che allora infieriva nel milanese e nelle contrade limitrofe. Al riguardo ricordo che, nella sua celeberrima opera, alla diffusione del morbo e alle sue tragiche conseguenze sono dedicate pagine fra le più belle. Questo procedimento giudiziario in origine avrebbe dovuto essere parte integrante dei Promessi sposi, per la precisione in quella parte del libro appunto dedicata alla peste, ma la sua caratteristica di digressione, non disgiunta dalla non trascurabile lunghezza, indusse l’autore a non includerla nel romanzo, sia per evitare uno squilibrio, sia nel timore di disorientare i lettori. E fu così perciò che questo saggio storico ebbe una destinazione autonoma, cioè come di lavoro destinato a una pubblicazione a sé stante, anche se, abbastanza di frequente, capita che gli editori la propongano al termine dei Promessi sposi, in un unico volume.
In Storia della colonna infame Manzoni scrive appunto di questo processo, avvenuto a Milano nel 1630, contro Guglielmo Piazza, commissario di sanità, e Gian Giacomo Mora, barbiere, accusati da Caterina Rosa, definita dallo stesso autore “donnicciola” del popolo, di aver provocato il morbo e la sua diffusione con strane misteriose sostanze con le quali venivano unti i muri e le porte delle case, e da qui il termine di “untori” attribuito ai due disgraziati. Sottoposti a torture, confessarono benché innocenti, e furono condannati alla pena capitale, preceduta da altre crudeltà che solo a pensarci fanno rabbrividire. Fra le pene accessorie ci fu anche la distruzione della casa del barbiere, sulle cui rovine, a perpetuo monito, venne eretta una colonna, chiamata “colonna infame”, che nel 1778 fu abbattuta, a parziale riabilitazione dei condannati, stante che eventualmente l’infamia avrebbe dovuto essere attribuita a chi li giudicò.
La vicenda, in sé interessante, non sarebbe tuttavia meritevole di particolare attenzione se non si guardasse al punto di vista del Manzoni, al suo grande senso di pietà, ma anche alla sua disamina di carattere morale. Vero è che erano tempi difficili, che il morbo si propagava incontrollato, che l’ignoranza del popolo creava e costruiva superstizioni, ma chi aveva istruzione non avrebbe dovuto credere che la peste fosse una creazione di due uomini, volta, non si sa per quale motivo, ad annientare la popolazione. Com’è possibile che i giudici prestassero fede alla linguaccia di una donnicciola, avviando un’indagine che con i primi arresti indusse il popolo a credere che potessero esistere gli untori, in una frenesia collettiva che reclamava sangue per riparare ad altro sangue versato?
L’analisi che del fatto fa Manzoni è sì storica, ma anche giuridica, psicologica, sociologica e politica. In questi giudici non solo è assente la pietà, ma manca anche il buonsenso; inoltre, al servizio dei potenti, incapaci di arginare il morbo, nel timore di una ribellione cercarono di trovare il cosiddetto capro espiatorio in due poveri innocenti. Fuori da ogni logica inventarono un processo, diedero in pasto a gente esasperata i presunti autori delle loro disgrazie, senza un minimo di coscienza, tesi solo a soddisfare il ventre molle di un popolo inferocito. Dopo l’esecuzione della sentenza la peste continuò a divampare e nessuno pensò che in fondo non c’erano più gli untori, ma intanto la tensione che prima cresceva ogni giorno era sbollita nelle urla strazianti dei condannati torturati sulla pubblica piazza. Quei giudici sapevano quello che facevano, sapevano cosa dare al popolo affinché si placasse, quel che non sapevano è che l’infamia non era dei condannati, ma solo loro.
Il libro è veramente stupendo e credo che sarebbe opportuno che fosse oggetto di studio nelle scuole; non aggiungo altro, se non il consiglio di leggerlo.