Narrativa italiana Classici Mastro don Gesualdo
 

Mastro don Gesualdo Mastro don Gesualdo

Mastro don Gesualdo

Letteratura italiana

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Nella provincia siciliana dell'Ottocento il protagonista, proveniente da un ceto sociale basso, combatte per raggiungere la ricchezza e per la scalata sociale. L'uomo però rimane strettamente legato alle tradizioni.



Recensione della Redazione QLibri

 
Mastro don Gesualdo 2013-10-15 15:27:59 silvia t
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silvia t Opinione inserita da silvia t    15 Ottobre, 2013
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Mastro Don Gesualdo

Dagherrotipi e immagini ambrate affollano la mente quand'essa corre a Vizzini, quando gli occhi scorrono le pagine di Mastro Don Gesualdo; quel piccolo libro che si porta addosso colpe che non ha, imposizioni liceali, furti di caldi e spensierati pomeriggi estivi; nel ricordo, quel piccolo libro ha un peso specifico immenso, simile al piombo, ma uguale al platino e come questo dopo anni il suo valore appare aumentato, la sua prosa perfetta, il piacere penetrante e indelebile.
Ciò che accompagna il lettore per tutto il tempo è un rumore di fondo che pervade l'aria, colori, suoni e immagini si compongono; la Sicilia si confessa, mette a nudo tutta la sua vivacità, tutte le sue contraddizioni.
Infiniti i piani di lettura e gli spunti di riflessione che si posso fare sul contenuto di quest'opera, ma ciò che colpisce in modo violento è la freschezza dello stile che non ha risentito per niente dello scorrere del tempo.
Il lessico è sempre coerente coi personaggi, così come il registro, più aulico nei palazzi nobiliari, più volgare e rozzo tra i contadini dimostrando quanto Verga riesca a interpretare i vari personaggi quanto conosca l'attualità del suo tempo e come riesca ad analizzarla.
Verga era un teoreta della letteratura e Mastro Don Gesualdo fa parte di un progetto molto ambizioso che non verrà mai alla luce in tutto il suo splendore, ma che racchiude in sé tutto il potenziale inespresso, tassello di un mosaico ambizioso.
Come in un teatro, quando si spengono le luci e lo spettacolo sta per iniziare, i riflettori illuminano la scena, così Verga squarcia il buio con la descrizione del fuoco in casa Trao, che distrugge e scopre una nobiltà decaduta, una morale ormai corrotta, una verità scomoda, ma figlia del suo tempo e destinata ad invadere e modificare i millenari equilibri di una terra abituata ai suoi ritmi e non ancora pronta a sovvertire la sua struttura.
Fin dalle prime pagine i protagonisti vengono caratterizzati e presentati in tutti i loro tratti essenziali, con poche pennellate si evidenziano i lati che fondano la loro personalità e i comportamenti che ne seguiranno saranno solo la normale conseguenza di essi.
Mastro Don Gesulado e Bianca Trao non sono che i paradigmi di un'Italia che inizia a cambiare, evolvere nel caso dell'uomo, scomparire nel caso della donna; il volgo che prende potenza, la nobiltà che la perde; ma non è solo una sorta di cronaca giornalistica di un'epoca, è la prima rappresentazione di un benessere che inizia a crescere, di una presa di coscienza del proprio valore da parte dei contadini, ma anche uno svelare la meschinità degli animi, il ricacciare i pochi buoni sentimenti in fondo al cuore, in nome della “roba” o in modo più eterogeneo del possesso.
La “roba” si fa succedaneo degli affetti, ogni zolla di terra diviene un figlio, la prole, legittima o meno, mezzo di riscatto sociale o vergogna da tenere nascosta, di cui disinteressarsi; la “roba” è consolazione, rifugio sicuro dove riposare, preoccupazione per il suo futuro, per la sua felicità.
La “roba” diviene personaggio, quasi in carne ed ossa, c'è più fedeltà da parte di essa che di qualunque altro, continua a dare i suoi frutti, restituisce la fatica attraverso rigogliose fioriture, solo Diodata, serva del padrone, orfanella, madre dei suoi due figli ha le stesse caratteristiche, è stata presa in carico dal padrone e ad esso sarà sempre fedele, sempre riconoscente, unico personaggio davvero positivo di tutto il romanzo.
Ciò che anche dopo tanti anni questo romanzo regala è un'emozione incredibile, un'empatia così profonda per quella vita fatta di stenti, ma di soddisfazioni, di quella nascente voglia di riscatto che porta però a contaminare la propria essenza generando qualcosa di irriconoscibile e per questo non gestibile e foriero di infelicità e di ingratitudine.
Un libro questo che non può mancare nel bagaglio culturale di nessuno, per molti motivi, non per ultimo la descrizione delle radici in cui affonda la nostra società moderna, ma soprattutto perché è scritto bene, le parole si fanno arabeschi che formano immagini dolci e grevi insieme, volteggi semantici che fanno vibrare le corde dei sentimenti e lasciano una dolce musica echeggiare nei meandri della mente dove, forse, gettano un piccolo seme che si spera un giorno fiorirà, generando la passione per i classici della nostra bellissima lingua.

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Mastro don Gesualdo 2020-11-25 11:03:43 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    25 Novembre, 2020
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Verismo artificioso

Pilastro della letteratura ottocentesca italiana, Mastro don Gesualdo è uno di quei romanzi verghiani appartenenti al “Ciclo dei vinti”, che io ho da sempre ribattezzato come il ciclo della tragedia o della morte della speranza.
Sebbene tratti molti temi interessanti in cui si ravvisano diverse verità (che però, c'è da dire, appartenevano molto di più al secolo e al contesto trattati), le disgrazie che avvolgono le vicende e conducono alla rovinosa fine del protagonista sono difficili da digerire, e forse suggeriscono un animo oltremodo pessimista. Non v'è infatti alcun rifugio per Mastro don Gesualdo, e sebbene sia facile credere alle difficoltà della scalata sociale, è assurdo constatare come non trovi alcun riscontro né nell'amore filiale né in quello della moglie e dei fratelli. Neanche il padre ha amore per quel figlio che s’é fatto in quattro, che gli ha ricomprato diverse volte la fornace del gesso, anzi, lo considera come una minaccia alla propria autorità familiare. Okay. Ma sebbene il carattere di Mastro don Gesualdo non sia facile egli non è nemmeno un mostro: pedante, egocentrico, ma in certi momenti anche buono e generoso. Si rompe la schiena per arrivare dov'è, ma mentre è comprensibile l'odio dei fortunati di nascita che si vedono scalzati da un “contadinotto", meno comprensibile è la totale mancanza d'amore da parte di chiunque: questo aspetto dà alla tragedia un che d'artificioso. Verismo artificioso: sarò blasfemo; avrò l'odio del mio professore d'italiano (al quale tuttavia negherò tutto in sede d'esame) ma è quel che penso.
Tornando al romanzo, la vita di Mastro don Gesualdo si rivela un fallimento su tutti i punti di vista sebbene, per quel che ha accumulato, lui potrebbe apparire un uomo di successo. Tuttavia, i suoi successi non ha saputo sfruttarli appieno: accumula ricchezze ignorando la finitezza della propria vita, che le rende futili se non ben adoperate. Non gli serviranno a infatti a nulla: né a conquistare considerazione vera nella categoria sociale a cui ambiva (nella quale entrerà, ma mai davvero accettato), né a salvargli la pelle dalla malattia, né a rendere felice sua moglie e sua figlia. Tutte le fatiche d'una vita verranno dunque divorate dagli avvoltoi, rendendo tutte quelle fatiche e quei dolori inutili, senza nemmeno la consolazione d'un sentimento d'affetto profondo. L’unico affetto sincero le viene da Diodata, tagliata fuori tuttavia da quel percorso che s’è tracciato.
Tragico fino all’esagerazione.

“D’una sola cosa non si dava pace, che avrebbe potuto crepare lì dov’era, senza che sua figlia ne sapesse nulla. Allora, nella febbre, gli passavano dinanzi agli occhi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri ancora, un altro se stesso che affaticavasi e s’arrabattava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli sputavano in faccia: - Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!”

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Mastro don Gesualdo 2014-01-31 15:14:20 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Gennaio, 2014
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La roba, nient’altro che la roba

Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, Mastro Don Gesualdo, pubblicato nel 1889, è senz’altro una delle opere più conosciute fra quelle scritte da Giovanni Verga e, a mio parere, è la sua migliore. Il maestro del verismo ha qui raggiunto infatti una perfezione stilistica e di analisi raramente riscontrabile, delineando la storia di un uomo che si è fatto da sé, che con il duro e costante lavoro ha raggiunto una invidiabile posizione di agiatezza che è il simbolo del suo successo. Ma l’essere riuscito ad arrivare a un traguardo insperato comporta solo amarezze, con il suo gruppo familiare che pretende sempre di più e che è avido delle sue ricchezze e con i nobili, casta già all’epoca in decadenza, che si ostinano, chiusi a riccio nei loro tramontanti privilegi, a considerarlo solo un parvenu, a trattarlo con distacco, se non addirittura a disprezzarlo ostentatamente.
Da muratore a imprenditore, a proprietario terriero, é chiuso in una solitudine e in una infelicità che nemmeno il matrimonio con una nobildonna (auspicato da lui come simbolo ufficiale dell’abbandono del vecchio ceto miserevole) potrà sanare. Non amato dalla moglie, né dai familiari, spesso malvisto addirittura, non gli resterà che attaccarsi alle cose conquistate che per lui rappresentano le fatiche di una vita di massacrante lavoro e il riscontro positivo di questi sforzi. Per quanto il contesto storico sia segnato dal progressivo evolversi di una nuova classe sociale (la borghesia) di cui Mastro Don Gesualdo è un chiaro esempio, dal perpetuarsi dell’immobilità del ceto più povero, quello dei carusi, dei contadini a giornata, degli ancora pochi operai (almeno in Sicilia) e dalla progressiva inevitabile decadenza della nobiltà, ancorata a una visione arcaica dell’esistenza e incapace di comprendere i nuovi tempi, il romanzo non ha solo una valenza riferita a un particolare e determinato periodo temporale (la prima metà del XIX secolo), ma assume caratteristiche di universalità ove si tenga conto delle seguenti considerazioni:
1) Il protagonista fa suo il modus operandi del capitalista, uguale ancor oggi come più di un secolo fa, con quella ricerca non solo della ricchezza, ma del senso di potere che da essa deriva;
2) L’invidia e l’avidità sono proprie degli esseri umani, e ciò fin dalla comparsa degli stessi sul pianeta; le ricchezze di altri sono bramate, sono opportunità di cui avvalersi cercando di impossessarsene;
3) La storia è frutto di una continua evoluzione temporale ed è impossibile fermare i fenomeni che si vanno affermando; così all’epoca è la nobiltà che sta scomparendo, una nobiltà derivante da antichi privilegi messi in discussione non tanto da una rivincita dei plebei, quanto piuttosto dalla capacità e dallo spirito di iniziativa che sono propri della borghesia.
L’aver raggiunto traguardi impensabili, l’aver accumulato fortune non salva però l’individuo dal giudizio dei suoi simili, mai positivo, e in effetti quel Mastro e quel Don attribuiti a Gesualdo Motta non sono frutto di ammirazione e di rispetto, bensì vengono a comporre un nomignolo spregiativo, perché Mastro normalmente viene attribuito a chi dirige un gruppo di lavoro di muratori e Don è un epiteto riservato ai nobili e ai proprietari delle terre. Presi singolarmente questi termini non sono sinonimo di disprezzo, ma messi insieme evidenziano la natura del personaggio, la sua modesta provenienza e il traguardo a cui cerca di giungere. Involontariamente, con questi titoli si è finito con l’evidenziare le caratteristiche dei componenti della nuova borghesia, tesi a sollevarsi dall’eterna indigenza per giungere nell’empireo della nobiltà, di cui però non faranno mai parte, anche imparentandosi con essa.
Gesualdo Motta è un uomo che vive solo in funzione dei suoi interessi, trascurando moglie e figlia per coltivarli, con un attaccamento maniacale alla roba, a quanto da lui conquistato, tanto da impedirgli di condurre una vita normale tesa alla serenità e a quel poco di felicità che può riservare. Il suo ritratto è impietoso, così come anche la sua fine che lo vedrà soccombere a un male incurabile, solo come un cane senza padrone, lasciando indifese le sue ricchezze, di cui altri finiranno con il beneficiare (il genero Duca di Leyra).
Intorno a lui ruotano tanti personaggi, descritti mirabilmente: la moglie Bianca Trao, nobile, una donna sostanzialmente buona che non ama il marito, Isabella Motta, figlia solo di nome di Gesualdo Motta, in quanto frutto di una relazione della madre con un nobile scapestrato, e che, benché unica erede, detesta il padre a tal punto di farsi chiamare con il cognome della madre, i parenti acquisiti Trao, che della conservazione della loro posizione nobiliare e delle loro ricchezze hanno fatto la loro unica ragione di vita, la famiglia di Gesualdo, che ne ha invidia e che di sicuro non lo ama.
Non vado oltre, perché di personaggi ce ne sono veramente tanti, ma nessuno è superfluo, anzi sono collocati esattamente nella trama come contorno indispensabile per giungere a definire il protagonista, la vicenda, il contesto storico. Mi è impossibile però non citare i dipendenti di Gesualdo, gran lavoratori e che probabilmente sono gli unici a capirlo per le loro origini e perché sono cresciuti con le sue iniziative.
Mastro Don Gesualdo è la storia di un uomo che volle farsi re, odiato dal suo ceto di origine, che lo considera in pratica un traditore, e detestato dalla nobiltà per il suo sangue non blu e che finisce per considerarlo un vero e proprio intruso. Né carne né pesce, scivolerà piano piano in un’angoscia esistenziale, in un attaccamento morboso agli averi, con un possesso che è fine a se stesso. Soprattutto gli mancherà la possibilità di parlare in modo da capire ed essere capito e la sua solitudine è l’amaro risvolto di un’esistenza in cui non c’è spazio né per i sentimenti, né per la pietà, un mondo chiuso da cui gli altri sono esclusi, considerati di fatto un pericolo per la dorata prigione che tanto faticosamente si è costruito.
Il romanzo è più che bello, è splendido e credo proprio che considerarlo un capolavoro sia una valutazione appropriata..

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I Malavoglia, Storia di una capinera, entrambi di Giovanni Verga
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Mastro don Gesualdo 2012-08-25 16:02:35 Artemisia*
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Artemisia* Opinione inserita da Artemisia*    25 Agosto, 2012
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Un eroe solitario nella torrida Sicilia verghiana

Un personaggio lirico, un solitario lottatore che vive per la sua "roba" e per la sua famiglia. Gesualdo è il simbolo dell'ideale dell'ostrica che si tuffa e viene risucchiata dalla marea, tuttavia è un'ostrica ben diversa dalla Lia dei "Malavoglia", è un'ostrica che si ostina a nuotare nella tempesta che sembra volerla risucchiare nel gorgo. E la sua denominazione "Mastro-Don" è il primo ostacolo che questo robusto figlio della terra deve affrontare : non è più un contadino, nè un borghese, ha spiccato il volo verso la nobiltà infrangendosi contro il muro delle critiche bigotte della società siciliana ottocentesca. Un uomo nato figlio di muratori non può morire aristocratico. Lo testimonia la sua morte snaturata da quell'ambiente a cui Gesualdo è così affezionato, lontana dal paesaggio della Canziria a cui il protagonista è così intimamente legato (la Canziria è la prima terra che Gesualdo ha acquistato, sulla base della quale ha poi costruito la sua fortuna). Il decesso di Gesualdo avviene tra la quasi totale indifferenza della figlia,alla quale si accosta soltanto attraverso un intimo ed unico colloquio pochi giorni prima della morta, e il cinismo crudele dei servitori che si rifiutano di servire chi è "nato come loro" : è la fine di una vita vissuta per l'accumulo della roba, roba destinata a quella figlia che non è nata dal suo seme. La nobile Bianca Trao con la quale Gesualdo contrae il proprio matrimonio si rivela essere uno dei pochi "affari sbagliati" che il fiuto del Mastro-Don non è riuscito ad individuare, un affare che si conclude, così com'è iniziato, nella solitudine e nella tristezza della morte di Bianca.

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Mastro don Gesualdo 2012-03-16 07:35:02 macchiolina
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macchiolina Opinione inserita da macchiolina    16 Marzo, 2012
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Il fallimento della logica dell'avere

Mastro Don Gesualdo è un classico.Un pezzo di storia della letteratura italiana.In esso seguiamo la vicenda personale del protagonista:conosciamo la sua ingordigia di benestante nato povero che accumula i beni (la roba)senza saperne godere;il conflitto generazionale che si sviluppa nell'ottica della famiglia patriarcale tra lui e il padre,e che impedisce l'instaurarsi di un normale rapporto affettivo fra i due;il subordinare agli interessi economici l'unico sentimento sincero che egli ha nella propria vita,cioè quello con la serva Diodata.
Tutto questo lo porta ad un inevitabile fallimento a livello personale e sentimentale parallelamente all'altrettanto inevitabile fallimento della società a cui appartiene,fondata sulla logica dell'avere invece che su quella dell'essere.
Sullo sfondo i moti rivoluzionari del risorgimento italiano e come elemento fondamentale la trascinante scrittura di Verga.Un capolavoro imperdibile.

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Mastro don Gesualdo 2011-12-08 15:49:18 alexmai
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alexmai Opinione inserita da alexmai    08 Dicembre, 2011
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120 anni e non sentirli

Eccezionale. Un romanzo di un'altra epoca, eppure più attuale di altri vecchi di "solo" 60 anni. Una storia che non passa mai, di quello che è nato povero ma diventa più attaccato alle cose terrene di chi è nato con i soldi sotto il cuscino... e che a suo modo è buono. E' una persona che ricorda la strada dalla quale è venuta, anche se antepone la roba a ogni altra cosa...

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Mastro don Gesualdo 2011-05-02 14:41:34 Francj88
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Francj88 Opinione inserita da Francj88    02 Mag, 2011
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Il Vangelo dei perdenti!

Da un'infanzia povera e un'adolescenza avventurosa alla maturità, la storia di un uomo che appagato dal successo economico, fallisce miseramente sul piano degli affetti e dei rapporti umani. Gesualdo Motta, amareggiato dagli egoismi della sua famiglia d'origine che lo sfrutta e nello stesso tempo gli rimprovera la conquista della ricchezza sposa poi la nobile decaduta Bianca Trao. Il matrimonio non riesce però a far dimenticare la sua modesta estrazione sociale e presto si rivelerà un "affare sbagliato". Un senso di estraneità e di alienazione domina Gesualdo che viene escluso dalla sua famiglia perchè arricchitosi, dalla moglie e dalla figlia e dal resto della nobiltà poichè di umili origini fino alla solitudine e alla morte senza in realtà godere veramente dei frutti sacrificio di una vita.

Che amarezza mi viene da dire..

Tuttavia Mastro-don Gesualdo ai cui personaggi, forse poco simpatici, a volte perfino irritanti, ci si affeziona, è un romanzo molto godibile. I protagonisti sono così vivi, così ben descritti e inseriti in un ambiente così realistico(la Sicilia rurale e paesana) da finire per sentirsi coinvolti, da non avvertire per nulla la “finzione letteraria”.

La potenza descrittiva di Verga, i dialoghi in una lingua più semplice del cosiddetto italiano colto ma non per questo meno efficace, il ritmo incalzante delle vicende, ne fanno un romanzo di straordinaria resa emotiva.


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