Le confessioni d'un italiano
Letteratura italiana
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Le confessioni di un Italiano
Se il suo autore lo avesse risciacquato in Arno appena un po’ (tanto per togliere le meno potabili fra le espressioni arcaiche o dialettali) e si fosse ricordato che anche la punteggiatura è importante evitando di tralasciare qualche virgola di troppo, questo monumentale romanzo, invece di finire quasi dimenticato, avrebbe il posto che si merita nella storia della letteratura italiana. Perché nel suo scorrere torrenziale ci sono la passione (amorosa e politica) e il tradimento, la meschinità e il coraggio, l’opportunismo e il disinteresse, la guerra e la quotidianità: si potrebbe andare avanti ancora elencando e aggiungere pure la marea di personaggi delineati con cura tra pregi e difetti, ma soprattutto ci sono il passato e il futuro. Carlo (non ancora) Altoviti cresce nella sonnacchiosa campagna friulana della seconda metà del Settecento: il suo destino di servo di piccoli nobilotti di provincia parrebbe immutabile come la società che lo circonda, dominata dagli stanchi riti del bel mondo in una cadente Repubblica di Venezia. Invece il vento delle rivoluzioni prende a soffiare, facendo crollare le istituzioni ormai marce e ribaltando anche la vita del protagonista che, fra alte speranze e cocenti disillusioni, attraversa tutte le fasi politiche a cavallo dei due secoli finendo per fare anche una sorta di giro d’Italia della ribellione regolarmente soffocata più una quasi inevitabile esperienza di esule a Londra. Qui si sublima il suo rapporto con la Pisana, figlia dei suoi castellani per la quale prova un sentimento (ricambiato) che si può etichettare come ‘amore della sua vita’, ma che, pur nato in pratica nella culla, per un motivo o per l’altro non giunge a compiersi mai: il percorso capriccioso di lei e la mancanza di coraggio di lui sono concause di una tensione che accompagna l’intera loro esistenza. Alla loro storia si affiancano altre del pari indimenticabili: fra di esse, vanno almeno citati il rapporto tra Doretta e Leopardo che nasce idilliaco alla Fontana di Venchieredo e si conclude tragicamente in una buia stanza veneziana oppure l’amore senza speranza tra Clara e Lucilio, negato in modo impietoso più dalla meschinità umana che dalle circostanze. Avendo come contrappeso viscidi lealisti come gli Ormenta o padre Pendola, Lucilio si erge dalla cintola in su fra le figure secondarie grazie alla volontà che lo trascina sia nella passione amorosa, sia in quella civile: molti altri preferiscono lasciarsi sedurre dalle lusinghe di una vita più comoda o, comunque, normalizzata. In fondo, è quello che capita anche a Carlo, tra i soldi di un padre ritrovato mezzo turco e la parentela con una benestante famiglia greca, la quale però trascina lui e i suoi figli nella lotta per la liberazione di quel Paese. Aggiunto che, per non farsi mancare nulla, un altro rampollo finisce in Sud America, va sottolineato come la vita del protagonista alterni a momenti luminosi una bella serie di dolori che egli rivede con la serenità dell’ultraottantenne: il libro è infatti costruito come se fosse lo stesso Carlo a rievocare la propria eistenza calibrando l’irruenza della gioventù con la serenità della vecchiaia. Purtroppo questa meditazione all’indietro lo fa sbandare a volte in lunghi pistolotti morali sugli argomenti più svariati che costituiscono gli unici momenti davvero deboli del libro quasi azzerandone qua e là la tensione narrativa: difetto peraltro compensato dallo spessore di una narrazione che Nievo scrisse venticinquenne a metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento e fu pubblicata postuma. Chi volesse proprio fare il noioso potrebbe poi evidenziare come la seconda metà sia meno appassionante delle pagine che l’hanno preceduta, in special modo quelle freschissime del giovane Carlino a contatto con la rigogliosa campagna friulana, ma il romanzo resta comunque un esperienza che si rivela, a sorpresa, molto coinvolgente nel suo essere racconto di formazione di un uomo e di un intero Paese. Succede così che, dopo qualche settimana di intensa frequentazione, si senta la mancanza di Carlo Altoviti e si consideri la sua lingua retrò come un piacevole tratto distintivo di un libro che meriterebbe di stare fianco a fianco con gli altri monumenti letterari che hanno visto la luce – non solo in Italia - nello stesso secolo.