La Mandragola. Belfagor. Lettere
Letteratura italiana
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CARPE DIEM
Commedia capolavoro del teatro cinquecentesco, si basa sui moduli di Terenzio e di Plauto riconoscibili nell’intreccio lineare, nella vivacità dei dialoghi, qui impreziositi da una prosa fiorentina capace di restituire il vernacolo dell’epoca caratterizzando i singoli personaggi. Commedia di successo, successivamente messa all’indice dall’Inquisizione e poi riabilitata quando la laicizzazione statale non è stata più ritenuta scandalo e parliamo del nostro secondo dopoguerra. Vive tuttora nel luogo a sé più congeniale, il teatro.
Il tema principale, di natura boccacciana, è la beffa ai danni dell’ingenuo, dello sciocco: si tratta infatti di un raggiro ai danni di un marito che vorrebbe un figlio dalla propria moglie e per ottenerlo si affida a un’ improbabile cura consistente nell’assunzione di una pozione ottenuta dalle radici della nota pianta velenosa, da parte della moglie che poi, essendo giaciuta prima con un uomo destinato a morte certa per averne assorbito il veleno, potrà ricongiungersi nuovamente con il marito il quale la troverebbe così fecondabile.
Il protagonista principale è Callimaco, infatuato di Lucrezia, moglie di messer Nicia, che aiutato da Ligurio si finge medico e riesce a far crollare un debole e superficiale impianto morale: tutti cedono al male compresa la virtuosa Lucrezia che scopre il piacere sessuale derivato dall’incontro con un giovane uomo a dispetto del non vigoroso Nicia. La commedia, pur amara nelle considerazioni etiche che scaturiscono e che coinvolgono anche un frate, quindi trasversalmente ogni dimensione sociale, confermando la teoria dell’autore sulla corruttibilità della natura umana e sulla sua tendenza al male, è alleggerita dal tono ilare che coinvolge in primo luogo la dimensione del parlato: la lingua veicola, con volgarità vernacolari più o meno esplicite, una dimensione sociale che pare mossa solo dal puro piacere.
La “Mandragola” è anche lo sguardo impietoso dell’autore costretto a “badalucchi” nel triste tempo dell’allontanamento da Firenze, deprivato di ogni partecipazione politica e civile: la beffa è il mezzo per scoperchiare l’apparenza borghese, la realtà è solo un gioco di ruoli in delicato equilibrio.
Indicazioni utili
Boccaccio
Il teatro di un fondatore del pensiero moderno
Leggere La mandragola e Belfagor, le due opere raccolte in questo piccolo volume degli Oscar Mondadori, ci permette di scoprire un Machiavelli diverso da quello ufficiale, dallo scrittore politico e fine letterato del Principe e dei Discorsi.
E’ il Machiavelli commediografo e narratore, che ci regala una delle perle del teatro italiano di tutti i tempi, La mandragola, appunto, una commedia innanzitutto godibilissima ancora oggi, nonché piena dello spirito dei tempi ed in grado di fornirci un quadro freschissimo della Firenze del ‘500 e del pensiero dell’autore riguardo la società in cui viveva.
La mandragola è la classica commedia delle beffe. Un giovane di nome Callimaco, appena tornato a Firenze dopo essere vissuto a Parigi vuole diventare l’amante di una virtuosa fanciulla, Lucrezia, moglie di un ricco avvocato, Messer Nicia.
Con l’aiuto di Ligurio, un parassita che frequenta la casa di Messer Nicia, ordisce una trama che fa leva sul desiderio di quest’ultimo di avere un figlio. Sarà quindi lo stesso sciocco marito a collaborare fiducioso alla riuscita dell’inganno che lo renderà cornuto, anche grazie all’intervento di un frate avido e corrotto.
La prima cosa da notare nella commedia è a mio avviso la lingua usata dal Machiavelli. E’ un fiorentino verace, popolaresco e salace, pieno di modi di dire divertenti ed oggi inusuali, che contribuisce non poco a rendere piacevole la lettura. Nelle prime pagine si deve ovviamente fare uno sforzo di adattamento – soprattutto se non si sciacquano i panni in Arno – ad una lingua desueta, ma dopo poco, se ci si immerge nel ritmo, se si pone attenzione al tono e al suono delle parole la lettura diviene un ineffabile piacere per sé stessa, a prescindere quasi dalla storia che la commedia narra. A mio avviso, per quanto detto, La mandragola andrebbe letta a voce alta o – meglio ancora – andrebbe sicuramente vista a teatro. Per chi volesse, segnalo che è disponibile su YouTube© una vecchia rappresentazione, dei tempi in cui la RAI era un’azienda seria. In ogni caso in questa edizione Mondadori la comprensione dei passi linguisticamente più ostici è facilitata dalle abbondanti note.
Un tale linguaggio ci dice che la commedia, genere considerato minore rispetto a forme più alte di teatro, è destinata ad un pubblico popolare, come ben si capisce anche dal contenuto del prologo in versi che precede l’azione e nel quale l’autore presenta l’antefatto e il contesto. Machiavelli infatti si scusa di proporre un’opera che potrebbe non apparir … degna / per esser pur leggieri / d’un uom che voglia parer saggio e grave…, ma ci dice che non ha altro mezzo per fare el suo tristo tempo più suave, in quanto gli è impedito di esprimersi con altri tipi di opere.
Machiavelli scrive infatti La mandragola tra il 1512 e il 1520, nel periodo in cui, caduta l’effimera Repubblica Fiorentina e tornati i Medici, il nostro – dopo essere stato imprigionato – è costretto a vivere in una villa nella campagna fiorentina e non ha alcun incarico politico. Con La mandragola egli si serve quindi di un mezzo espressivo basso per esprimere il suo pensiero sugli eterni mali della società fiorentina, non potendo, per ragioni di prudenza, esprimerli in forma ufficiale.
Il prologo è la chiave di volta per capire lo spirito con il quale Machiavelli scrisse la commedia: nella settima strofa, l’autore dice che anche se dovessero tentare con la calunnia di farlo tacere, egli è parimenti capace di dir male, e – quasi a riprova di ciò – ci informa che non stima nessuno del mondo dove el sì suona anche se è stato costretto a fare da servo ai potenti di turno. La mandragola riflette dunque, anche se in forma comica, l’amarezza di Machiavelli, che si considerava (ed era) un grande consigliere politico, per la inattività forzata cui la Signoria lo costringeva, e questa amarezza viene esplicitata nella descrizione di Firenze che La mandragola ci fornisce. Notiamo infatti che il protagonista, Callimaco, è appena tornato a Firenze dopo esserne partito giovanissimo ed essere vissuto per vent’anni a Parigi. Nella facilità con cui gabba Messer Nicia avvalendosi di un cliente come Ligurio che collabora con lui in vista di un vantaggio materiale si può vedere la metafora dell’ingenuità e della dabbenaggine della Repubblica che, come noto, cadde per aver dato credito ai francesi in opposizione al papato di Giulio II.
Gli strali maggiori e più espliciti Machiavelli li riserva comunque all’ipocrisia della Chiesa, rappresentata da Frate Timoteo, senza dubbio il personaggio più divertente della commedia, pronto a convincere la dubbiosa Lucrezia della liceità teologica ed etica del tradimento in cambio di una cospicua elargizione per le elemosine.
Il volumetto ci propone, dopo La mandragola, anche Belfagor, una favola (come la definisce lo stesso Machiavelli) giovanile, che – anche se non manca di una sua notevole godibilità – non ha certo lo spessore della commedia. Sono poche pagine, di chiara ispirazione boccaccesca, che ci narrano come Satana, allo scopo di far luce sulle affermazioni delle anime dannate, la gran parte delle quali dice di essere all’inferno a causa del matrimonio e della moglie, mandi sulla terra sotto sembianze umane l’arcidiavolo Belfagor, che dovrà sposarsi e tornare a riferire dopo dieci anni. Belfagor, divenuto Roderigo di Castiglia, va a vivere a Firenze e sposa Onesta Donati, che si rivelerà una moglie insopportabile. La favola prende poi un’altra piega e narra di come Belfagor venga gabbato da uno scaltro popolano.
Come avvertono alcune note, il racconto presenta alcune lacune e anche contraddizioni, perché non fu pubblicato da Machiavelli e probabilmente abbandonato prima di una revisione finale. Pur con questi limiti Belfagor è scritto in una prosa spumeggiante e non manca di tirare qualche stoccata alla società fiorentina, e contiene anche una sorta di autocensura (due righe sbianchettate da Machiavelli) proprio in riferimento a Firenze: il nostro era sicuramente molto prudente, ed a ragione, visti i tempi in cui si è trovato a vivere!
Il libro è poi completato da una serie di lettere che Machiavelli scrisse a vari personaggi, tra i quali Luigi e Francesco Guicciardini e Francesco Vettori, in vari periodi della sua vita, che aiutano a capire il pensiero politico di Machiavelli e la sua smania di rendersi utile, il suo sentirsi messo da parte o sottoutilizzato rispetto a quanto poteva dare di fronte ai tragici avvenimenti italiani e fiorentini di cui fu testimone e in parte vittima, ma che gettano uno sguardo anche su un Machiavelli privato, alle prese con gli avvenimenti di tutti i giorni. Emergono anche tratti divertenti e inaspettati, come quelli relativi alla lettera scritta all’amico Luigi Guicciardini da Verona nel Dicembre 1509 nella quale il grande Niccolò narra, con linguaggio esplicito e scurrile, il suo incontro con una prostituta. Malinconicamente, le lettere terminano con quella del figlio Piero che nel giugno 1527 annuncia la morte del padre, avvenuta pochi giorni prima.
Questo volume ha quindi il pregio di farci capire meglio – anche attraverso scritti minori e grazie alla ampia prefazione ed alla Nota Critica finale, la complessa personalità di questo grandissimo intellettuale del rinascimento italiano, la cui personalità è nella vulgata – soprattutto anglosassone – legata ad una certa doppiezza o mancanza di scrupoli tipicamente latina, ma che in realtà si rivela in tutto e per tutto un uomo del suo tempo, capace come pochi di tramandarcene l’essenza anche attraverso una commedia, una piccola fiaba o il suo carteggio.